I GRANDI  DELLA LETTERATURA
LUIGI PIRANDELLO


 

Luigi De Bellis

 


 

 

HOME PAGE

Introduzione
Enrico IV
Il fu Mattia Pascal
L'esclusa
Novelle per un anno
Sei personaggi in cerca d'autore
Uno, nessuno, centomila


 



IL FU MATTIA PASCAL

Pubblicato prima (1904) a puntate sulla «Nuova Antologia» e nel 1910 in volume, il romanzo scritto in uno dei periodi più drammatici della vita di Pirandello, richiama sin dal titolo l'attenzione
sulla paradossale vicenda del protagonista. Si tratta di Mattia Pascal, che a conclusione di una boccaccesca vicenda si ritrova ammogliato con Romilda Pescatore ed è costretto a tenersi in casa la suocera, che con la sua invadenza gli rende impossibile la vita. Asfissiato da una situazione familiare che è un susseguirsi di frustrazioni e di beghe, ed è aggravata dal dissesto finanziario, Mattia decide di abbandonare la famiglia, l'impiego di bibliotecario e il paese - Miragno sulla riviera ligure - pronto ad imbarcarsi per l'America. Sulla via di Marsiglia, si ferma a Montecarlo e alla roulette vince una cospicua somma; decide quindi di ritornare a casa, ma ecco che su un giornale legge la notizia... del suo suicidio: come suo infatti è stato riconosciuto, dalla moglie e dalla suocera, il cadavere di uno sconosciuto ritrovato in quei giorni in paese. Alla iniziale indignata sorpresa succede nell'animo di Mattia la gioia: gioia di potersi liberare dalle angherie della vita familiare, di ricominciare una vita nella quale realizzarsi. Assunto il nome d Adriano Meis, vive a Roma nella pensione del signor Anselmo Paleari e "ricomincia" la sua vita. Ma via via si accorge che la sua nuova situazione è - sia pure in modo diverso dalla prima - anch'essa limitante, avversa ad una piena realizzazione della sua personalità: l'essere privo di identità "burocratica" - di documenti, di stato anagrafico - impedisce ad Adriano Meis di vivere, cioè di sposare la giovane figlia di Paleari, Adriana, di denunziare chi l'ha derubato ecc. Egli può vivere, ma come un forestiere della vita. Per sbloccare questa situazione il personaggio simula il suicidio di Adriano Meis (basta lasciare cappello e bastone e un biglietto con le generalità sulla spalletta del ponte Margherita) e ritorna in qualità di Mattia Pascal al paese natio; ma qui trova che la moglie si è risposata e ha una bambina, che nella vita del paese egli è ormai un estraneo, "forestiere" anche qui. Non gli resta che la compagnia di una vecchia zia e di un prete che ha preso il suo posto di bibliotecario. E intanto pensa a narrare la sua storia. Ma lui chi è? è il fu Mattia Pascal.


C'è nelle varie vicende di Mattia Pascal un motivo di fondo che per così dire le unifica e ne costituisce la cifra: la sua condizione di forestiero della vita, vale a dire il suo mancato rapporto con la realtà in una dimensione di positività, di pienezza, di totalità. Questo fallimento è constatabile nelle varie fasi della vita di Mattia, ma nasce da motivazioni, da cause differenti. In un primo tempo, quando egli ancora vive in famiglia la sua mancata realizzazione, la coscienza dell'angustia e del limite nascono dalle istituzioni sociali (il matrimonio, la famiglia ecc.), In un secondo tempo, quando il personaggio è diventato Adriano Meis e si apre a un nuovo senso della vita mercé l'amore di Adriana Paleari, la mancata realizzazione, lo scacco, la coscienza della estraneità alla vita derivano paradossalmente dal rovesciamento della motivazione iniziale, sono dovute al fatto che Mattia Pascal/Adriano Meis non è inserito - né inseribile - nelle istituzioni sociali, non può sposare, non può agire, non è "persona giuridica". La conclusione implicita nel romanzo risulta - ci sembra - di un irrimediabile pessimismo, malgrado le valenze giocose e paradossali frequenti nella narrazione: non ci si salva né dentro le istituzîoni del vivere associato né fuori, in nessun modo è realizzabile una condizione di pienezza, di positività. Non resta quindi che una condizione di spettatore della vita, un «mettere tra parentesi la vita» (Debenedetti), guardarla da escluso e tutt'al più scriverla, non potendola vivere: la vita infatti - è una famosa asserzione pirandelliana - o la si vive o la si scrive.

Alla luce di queste (di necessità) rapide considerazioni risulterà chiaro come con Il fu Mattia Pascal venga creata da Pirandello una sorta di archetipo che con sfumature e variazioni avrà larga cittadinanza nella letteratura del Novecento: un uomo frustrato nel proprio, desiderio di identità e "straniero" alla vita, incapace o impossibilitato a determinare la propria vita (nella quale anzi il ruolo della casualità sarà decisivo), fondamentalmente inetto alla vita. All'interno della stagione del decadentismo - pur con tutta la elasticità che questa catalogazione comporta - con questo romanzo si apre una fase nuova: ai compiacimenti estetizzanti o superomistici dei personaggi dannunziani subentrano ora la consapevolezza dello scacco e dell'irrealizzabile identità, la coscienza della crisi, alla ferina volontà di «mordere con avidi denti» i frutti della vita succede ora una indifferente o tragica rinunzia alla vita. Atteggiamento, questo, che in Mattia Pascal frequentemente si risolve in un "vedersi vivere" (come in seguito nel protagonista della Coscienza di Zeno), in una sorta di sdoppiamento prodotto da un eccesso di riflessione, di consapevolezza dello scarto che c'è tra vivere e coscienza del vivere; Mattia cioè vive già quella scissura, quella coincidenza degli opposti che nel saggio su L'Umorismo Pirandello avrebbe definito «sentimento del contrario». «Mi vidi, in quell'istante, attore di una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare. Posso dire che da allora ho fatto il gusto di ridere di tutte le sciagure e d'ogni mio tormento». Si comprende bene, quindi, perché L'Umorismo nella sua prima edizione fosse dedicato «Alla buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario».

Valore emblematico di questo mutato clima, di questo trapasso da una fase a un'altra del decadentismo potremmo attribuire - un dato fra tanti altri citabili - alla rappresentazione di Roma che, in opposizione a quella che ne aveva dato D'Annunzio, viene fatta nel romanzo, e alle chiavi di lettura che di essa vengono fornite nei capitolo X, "Acquasantiera e portacenere". Come ha scritto G. Mazzacurati, «Dove dieci, veni anni prima intellettuali del resto tanto divaricati potevano ancora evocare dall'ombra notturna e dalle rovine segreti vitali, talismani e presagi di dominio, di risveglio estetico, di rinascita politica, il protagonista pirandelliano non coglie che il volto diuturno di un deserto rumoroso quanto sterile, di un uso funzionale che ha scaricato e distrutto ogni "valore in sé" (si badi alla analogia dell'acquasantiera adoperata distrattamente come portacenere) e il volto notturno della stasi, del vuoto, ormai spogliato d'ogni senso vitale, d'una monumentalità congelata».


Ma il segno più evidente di questo trapasso e della novità è dato dalle tecniche narrative. Anzitutto - e sarà questo un dato assai frequente nel romanzo "novecentesco" - l'adozione del protagonista-narratore che parla in prima persona (con tutte le conseguenze che ciò comporta: cfr. Profilo, 6.1); sin dall'incipit ci troviamo di fronte ad un narratore che sottolinea l'enigma della propria identità («Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi» ecc.) e pone subito il tema di fondo del romanzo. Inoltre: la disarticolazione di un ordine cronologico, di un prima e di un poi: il tempo - e ciò si verificherà in tanti altri romanzi novecenteschi - è sottoposto ad un "trattamento" nuovo, fondato sulle rifrazioni che esso ha nella coscienza del protagonista narratore che contamina presente e passato, legge e sente il presente filtrandolo attraverso il passato. E ancora: la molteplicità delle modalità narrative; cioè il dilatarsi dei confini della narratività tradizionale sino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica - che varie volte danno a Il fu Mattia Pascal la fisionomia del romanzo-saggio - e ad ammettere esempi di un «narrare scenico» cioè di un dialogato che con le implicite o esplicite didascalie realizza già il genere teatro (capp. IX e XVII). Ce n'è abbastanza per parlare - è un dato ormai acquisito - di dissoluzione della narrativa tradizionale.

A questo si accompagnano le particolari qualità dello stile che, in aperto contrasto col preziosismo dannunziano, non si fonda sulle calcolate simmetrie o sulla letterarietà del lessico ma piuttosto su un andamento concitato e franto, su improvvise spezzature, sulla mimesi del parlato («né padre, né madre; né come fu o come non fu»; «dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre»), su calcolate allocuzioni ai lettori («io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete», cap. I)
.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it