Il primo quindicennio del Novecento è un periodo
di vivi fermenti non solo in ambito letterario, ma
anche in ambito politico: il - sia pur tardo -
processo di industrializzazione e il conseguente
accentuarsi dei conflitti di classe, il
progressivo formarsi di un'opinione pubblica
nazionale, la maggiore conoscenza delle esperienze
culturali straniere sollecitata dal decadentismo
sono alla base di questa particolare "vivacità"
del periodo, vivacità che trova nelle riviste
canali e strumenti di espressione particolarmente
efficaci. Procederemo ora a un'essenziale
ricognizione delle più significative, di quelle
cioè che, al di là di interessi specifici e
settoriali, hanno maggiormente inciso sul
dibattito politico-culturale.
La prima di esse è «La Critica» che, fondata da
Croce nel 1903, è quella che è durata più a lungo
(sino al 1944), probabilmente perché legata non ad
un gruppo ma .ad un uomo («rivista persona che
esprime solo e sempre un uomo», come dirà Renato
Serra). Croce ha spiegato nel Contributo alla
critica di me stesso del 1915, in pagine di
notevole interesse, le motivazioni etico-politiche
di questa sua iniziativa («compiere opera
politica, di politica in senso lato: opera di
studioso e di cittadino insieme, così da non
arrossire del tutto, come più volte m'era accaduto
in passato, innanzi a uomini politici e cittadini
socialmente operosi»). In quanto agli obiettivi
culturali, attraverso la discussione di «libri
italiani e stranieri, di filosofia, storia e
letteratura» Croce dichiarava di indirizzare « le
sue censure e le sue polemiche per una parte
contro i dilettanti e i lavoratori antimetodici, e
per l'altra contro gli accademici adagiati in
pregiudizi e ozianti nella esteriorità dell'arte e
della scienza».
Ciò significa che per un verso l'obiettivo
polemico saranno i giovani intellettuali inquieti
e "geniali", vogliosi di novità, spesso
irrazionalisticamente velleitari e troppo
disponibili alle avventure intellettuali (i
Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"), per
l'altro sarà la cultura positivistica attardata su
posizioni ottocentesche. Nell'impossibilità di dar
conto qui di un'attività di mezzo secolo, ci
limitiamo a dire che nei primi due decenni Croce
procede all'esame critico della letteratura di
tardo Ottocento (in saggi che confluiranno nei
volumi de La letteratura della nuova Italia) e
Gentile si interessa soprattutto di filosofia.
Quando, con l'avvento del fascismo, l'operosa
amicizia tra i due si spezzerà, «La Critica» - che
aveva preso posizione contro l'interventismo -
assolse il ruolo di cittadella dell'antifascismo
liberale: Croce con i suoi seguaci (Adolfo Omodeo,
Guido De Ruggiero, Francesco Flora ecc.) si batte
- pur nei limiti che la situazione politica
imponeva - contro le mitologie del tempo, prima
fra tutte il razzismo.
«Leonardo»
I dilettanti e i geniali contro i quali
polemizzava Croce si esprimevano, con una
variegata gamma di posizioni, in parecchie riviste
che, dalla sede di pubblicazione, vengono
complessivamente indicate come "le riviste
fiorentine". La prima di queste è il «Leonardo»
che, fondata da Giovanni Papini, si pubblica con
varia periodicità dal 1903 al 1907, e si distingue
per le suggestioni dannunziane che accoglie, per
le sprezzanti posizioni antidemocratiche e
antisocialiste, per la polemica contro il
positivisismo (che poteva coincidere con gli
obiettivi polemici di Croce, ma finiva per
sfociare in una concezione misticheggiante, e
irrazionalistica dell'arte). Al «Leonardo» - come
dichiarava il direttore sul primo numero - aveva
dato vita «un gruppo di giovini, desiderosi di
liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad
una superior vita intellettuale [...] pagani ed
individualisti, amanti della bellezza e
dell'intelligenza, adoratori della profonda natura
e delle vita piena, nemici di ogni forma dì
pecorismo nazareno e servitù plebea». Di chiarezza
ideologica, al di fuori del superomismo pagano
anticristiano. («pecorismo nazareno») e
antidemocratico(«servitù plebea» la rivista ne
ebbe poca, ma probabilmente fu questo a
permetterle di ospitare voci che in direzioni
disparate cercavano la novità, ad allargare, con
interessi verso le manifestazioni straniere, gli
orizzonti culturali dell'Italia giolittiana.
«Hermes» e «Il Regno»
Il « Leonardo» non è però la sola rivista
fiorentina di quegli anni, che vedono
contemporaneamente la pubblicazione di «Hermes»
(fondata da Giuseppe Antonio Borgese nel 1904) e
de «Il Regno» (fondata da Enrico Corradini alla
fine del 1903).
«Hèrmès» nel complesso fu, come scrive la Frigessi,
«una rvista disorganica e frammentaria; le sono
mancate così l'audacia antiaccademica, la libertà
di discorso, la capacità e l'assimilazione e la
vitalità culturale del "Leonardo" come la definita
funzione politica del "Regno"»; va sottolineato
comunque che anche essa si colloca nell'ambito
delle suggestioni dannunziane (delle quali proprio
il direttore, Borgese,
avrebbe fatto un'inclemente demistificazione nel
suo Rubé del 1921), che i suoi collaboratori si
autodefiniscono «imperialisti» , che sulle sue
pagine viene vaticinato «un prossimo risorgimento
di tutte lè àttività nazionali; tanto
intellettuali quanto fantastiche, così politiche
come industriali ed economiche».
È comunque «Il Regno» la rivista di giù accesi
spiriti nazionalistici e antidemocratici; è sulle
sue pagine che si comincia a parlare di «missione
africana» dell'Italia, e della Francia come della
«rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è su essa
che si insiste sulla concezione di uno Stato come
strumento per la realizzazione dei «migliori». In
altre parole, l'esaltazione della forte
personalità la mitologia individualisticà - alle
quali avevano contribuito il decadentismo,
l'interpretazione "sociale" delle teorie di
Darwin, Nietzsche, la teoria delle élites di
Gaetano Mosca e parecchi altri fattori - ora non
sono concepite come antagonistiche nei riguardi
dello Stato, e trovano invece in uno Stato
autoritario al servizio dei migliori lo strumento
per meglio realizzarsi ed espandersi. È chiaro che
da una prospettiva simile gli obiettivi polemici
sono il socialismo, i principi democratici e
persino certe posizioni di cattolici avanzati,
come ad esempio don Romolo Murri, nei riguardi dei
quali Papini - con una posizione autenticamente "forcaiola"
- scriveva: «Essi vanno rodendo quello che c'era
di più saldo nel popolo non ancora impestato: il
rispetto dell'autorità, del
prete e del padrone».
«La Voce»
La più importante rivista del periodo è però «La
Voce» che Giuseppe
Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà
silo al 1916). Definire sinteticamente la
fisionomia non è facile, anche perché essa ebbe
varie fasi, cioè direttori e orientamenti diversi.
Nella prima fase (1908-1911) diretta da Prezzolini
- Tra i collaboratori Croce,
Amendola, Salvemini,
Cecchi, Einaudi - «La Voce» affronta i problemi di
un rinnovamento culturale compiendo analisi
concrete (sulla scuola, sulla questione
meridionale ecc.) e collegando la figura di un
nuovo letterato a una nuova realtà politico-
sociale (e da ciò la polemica per un verso contro
D'Annunzio e per
l'altro contro Giolitti). E tuttavia assieme a
questo c'è - specie in Prezzolini - una sorta di
illuministica fiducia nei poteri della cultura,
degli intellettuali, un atteggiamento di
intellettualistica superiorità che isola questi
"primi della classe" da collegamenti e alleanze
con le forze politiche. Quando Salvemini e altri
lasciano «La Voce» nel 1911 perché Prezzolini
approva l'impresa libica, la direzione passa dal
1912 alla fine del 1913 - la seconda fase - a
Papini, e la rivista si
apre particolarmente a quelle prove letterarie
(liriche, frammenti, impressioni) che hanno fatto
parlare di " espressionismo vociano". Per un anno,
il 1914 - è la terza fase - «La Voce» torna ad
essere diretta da Prezzolini, che la definisce
«rivista dell'idealismo militante », facendone una
tribuna di posizioni irrazionalistiche e
attivistiche (da Bergson a Sorel) e
dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per
collaborare con Mussolini, che ha fondato il
«Popolo d'Italia», « Là Voce» passa a Giuseppe De
Robertis dalla fine del 1914 al 1916 - è la quarta
fase, quella della cosiddetta "Voce bianca", dal
colore della copertina - e diventa una rivista
esclusivamente letteraria, che ospita autori
destinati a diventare poi fondamentali nella
nostra letteratura (Ungaretti, Govoni,
Palazzeschi, Campana ecc.). Anche da questi rapidi
accenni risulta evidente l'eterogeneità di
posizioni e di interessi di questa che è tuttavia
la più importante rivista del periodo: «è una
verità, come è stato detto, affermare che sulle
colonne della "Voce" si trovarono fianco a fianco
i nomi dei futuri persecutori e dei futuri
perseguitati, uniti ancora in quella prima confusa
elaborazione di motivi culturali novecenteschi»
«l'Unità»
Carattere decisamente politico ebbe invece,
«l'Unità», fondata da Salvemini nel 1912 dopo il
suo dissenso con i vociani sull'impresa libica (e
pubblicata sino al 1920): concreta e pragmatica
come la personalità del direttore d'altronde),
«divenne in breve il cenacolo di quanti rifuggendo
dalla moda del dannunzianesimo e dalle astrattezze
idealistiche intendevano approfondire lo studio
della realtà che li circondava».
«Lacerba»
Eterogenea nei suoi interessi, volutamente
eccessiva, iconoclastica, "futurista" fu «Lacerba»,
fondata da Papini e Ardengo Soffici nel 1913
(durerà fino al 1915); in essa parecchi autori
(tra cui Palazzeschi)
espressero il loro momento più vistosamente
futurista e Papini esibì il suo ribellismo
(famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!).
Gobetti a questo
proposito parlerà di «letteratura canagliesca»..
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