Luigi
De Bellis

 


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Dialoghi con Leucò

 
 

Il mestiere di vivere

 
 

La bella estate

 
  La luna e i falò  
 

Lavorare stanca

 

 





Cesare Pavese



DIALOGHI CON LEUCO': Dialoghi mitologici


L'opera, composta fra il 1945 e il 1947, è articolata in ventisette dialoghi: La nube, La Chimera I ciechi, Le cavalle, Il fiore, La belva, Schiunza d'onda, La madre, I due, La strada, La rupe, L'inconsolabile, L'uomo-lupo, L'ospite, I fuochi, L'asola, Il lago, Le streghe, Il toro, In famiglia, Gli Argonauti, La vigna, Gli uomini; Il mistero, Il diluvio, Le Muse, Gli dèi.
Vi sono introdotti come locutori personaggi mitici, tranne eccezioni come Saffo o Esiodo. Secondo un indice dattiloscritto, redatto dall'autore il 12 settembre 1946, i pezzi si possono organizzare secondo i seguenti raggruppamenti tematici: «Mondo titanico - dèi, nequizie divine» (primi sette dialoghi), «Tragedia di uomini schiacciati dal destino» (dall'ottavo al decimo), «Salvezze umane e dèi in imbarazzo» (dall'undicesimo al ventitreesimo), «Dèi buoni» (ultimi quattro); si va cioè dal caos all'«umanità schiacciata», attraverso l'«umanità tragica» per giungere all'«umanità sorridente e dèi». La Leucò del titolo è abbreviazione della mitica Leucotea: Ino, moglie del re d'Orcomeno Atamante, si ingegna per far morire i figli di primo letto del marito; inseguita dalle frecce di Atamante reso pazzo da Era, fugge col figlio Melicerte e si getta dalla rupe Moluride; viene allora divinizzata come Leucòtea, bianca nereide che protegge i naufraghi.

I dialoghetti mitici sono una sintesi della concezione che l'autore ha della natura umana, un suo calarsi nella profondità estrema e archetipica delle proprie ossessioni. Nel pantheon pavesiano «non c'è dio sopra il sesso», come confida Tiresia a Edipo (I ciechi); il sesso è la roccia, «c'è in esso la vita e la morte». Non a caso parla Tiresia, che fu uomo e poi donna, orgogliosamente attivo e voluttuosamente passivo, fino al caos dell'esperienza integrale: «giunsi al punto che uomo cercavo gli uomini e donna le donne». Giacché «il sesso è ambiguo e sempre equivoco», e la convinzione «che l'altro sesso ne esca sazio» è soltanto illusione, «vana fatica». L'«altro», la donna-dea o chi per lei, è insaziabile.
Nelle ultime lettere, Pavese insiste con l'invito a leggere il dialogo La belva per comprendere la sua condizione. A Lalla Romano, 20 aprile '50: «rileggi nei Dialoghi con Leucò la Belva e avrai il mio stato»; a Davide Lajolo, nella celebre epistola del 25 agosto sera: «Se vuoi sapere come sono adesso, rileggiti La belva nei Dialoghi con Leucò: come sempre avevo previsto tutto cinque anni fa». La belva, il dialogo più bello della raccolta, ha come interlocutori Endimione e uno straniero. Il racconto che il magnifico giovane fa della prima apparizione della belva-Artemide è intriso di una terrificante magia: «Mi risvegliai sotto la luna - nel sogno ebbi un brivido al pensiero ch'ero là, nella radura - e la vidi. La vidi che mi guardava, con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro». Endimione è subito proprietà della belva-Signora, che ha la «voce un poco rauca, fredda, materna»: la voce rauca della donna prototipica per Cesare, voce materna, quindi dura, fredda e rauca, mascolinizzata. Endimione-Cesare è in sua balia, in attesa di esserne posseduto. Endimione non trova più pace nel sonno. La belva è anche il dialogo dell'insonnia, della paura notturna divina e terribile. L'ambiguità fra sonno magico e veglia inquieta è l'ambiguità fra il timore di un desiderato contatto fisico e l'impossibilità di ogni contatto: «nessuno le ha mai toccato il ginocchio. Né dio né uomo l'ha toccata». L'atmosfera è sospesa (di qui la peculiare bellezza del testo), ma forse incombe la carneficina: «So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra vorace, la solitudine». La dea triforme attende probabilmente sacrifici umani. D'altra parte una donna dolce e sottomessa non può interessare Cesare, simile in questo agli Atridi: «Di una donna che è docile e vile non sanno che farsene. Hanno bisogno d'incontrare occhi freddi e omicidi, occhi che non s'abbassino» (In famiglia). La madre che dona la vita e la toglie, la madre-omicida, come quella di Meleagro: «ERMETE ... Senza l'uomo le donne son nulla.
MELEAGRO Ma allora perché ci hanno ucciso?
ERMETE Chiedi perché vi han fatto, Meleagro» (La madre).

Sesso e dolore sono le costanti dell'esistere: «Vien da pensare che sia tutto intriso di sperma e di lacrime», conclude la presentazione del dialogo Schiuma d'onda, in cui parlano Saffo e Britomarti. Dalla prospettiva femminile (spesso eletta dal narratore) si esperisce l'amore infelice, nella forma dell'impossibilità dell'abbraccio: «Si può accettare che una forza ti rapisca e tu diventi desiderio, desiderio tremante che si dibatte intorno a un corpo, di compagno o compagna, come la schiuma tra gli scogli? E questo corpo ti respinge e t'infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo», grida Saffo. E in una lettera a Fernanda Pivano (uno dei tanti amori non corrisposti), del 25 maggio '43, Cesare aveva scritto: «Non Le capiti come a me che butterò a cinquant'anni le braccia al collo del mio primo amore, e le braccia mi torneranno al petto vuote ed esauste». Il modulo classico e dantesco dello stringere vanamente un'ombra fornisce l'immagine riassuntiva del desiderio perennemente insoddisfatto e frustrato. «Nessuno ha mai pace», sentenzia Saffo, e il mare, oggetto d'odio da parte di Pavese (innumerevoli le testimonianze), diventa l'immagine emblematica del ribollire senza tregua e del tedio e della monotonia di questo instancabile agitarsi sempre uguale. Ma la fuga e la solitudine non offrono salvezza, sono illusione e menzogna. Virbio, l'Ippolito morto e resuscitato da Diana e dimorante sui monti Albani, fra lago e boschi, nella tranquillità immemore del casto culto, non sa che farsene di questa «felicità»; vuole compagnia: «Ma ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino» (Il lago). Diana è sgomenta: «I mortali finiscono sempre per chiedere questo. Ma che avete nel sangue?». La ricerca dell'altro è infatti ricerca di nuove sconfitte, di nuovo dolore. Ma non è possibile sottrarsi alla roccia, al desiderio, se non togliendosi la vita. «Chiedo di vivere, non di essere felice», conclude Virbio. C'è chi sceglie tuttavia di spezzare la catena dell'eterno ritorno. Orfeo, risalendo dall'Ade con Euridice dietro sé, pensa che tornerà la vita con lei come era prima, tornerà il dolore e tutto finirà nuovamente e poi ricomincerà. Non vale la pena, e si volta: « Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolio, come d'un topo che si salva» (L'inconsolabile). La trappola si è aperta, il circuito sfiancante si è interrotto: «Non vale la pena»; gli altri «godano la festa», la loro festa illusoria. Orfeo ha chiuso. Verranno le donne di Tracia a sbranarlo. Ma Orfeo «valse di più», commenta Pavese. Secondo il mito ovidiano e polizianeo, che l'autore sicuramente conosce ma rimuove, Orfeo si diede all'amore pederasta (per «la primavera del sesso migliore») e la sua provocazione gli costò la vita. L'Orfeo dei Dialoghi non compie un passo simile (né Cesare lo compirà mai), ma comunque emerge eroico nel suo rifiuto di rinnovare il confronto con l'alterità femminile. Così facendo non sfugge al sacrificio. E neppure Pavese, alla fine, vi sfuggirà.

I Dialoghi sono stati definiti da Gianfranco Contini «per buona parte almeno poemetti in prosa di forte carica ritmica (da avvicinare piuttosto a Lavorare stanca)». Il linguaggio, asciutto e immaginoso, è intimamente poetico. In una lettera a Paolo Milano, del 24 gennaio 1948, Pavese scrive: «Infine non le nascondo che mia ambizione, componendo questo libretto, fu pure d'inserirmi nella illustre tradizione italiana, umanistica e perdigiorno, che va da Boccaccio a D'Annunzio. Come massimo imbarbaritore delle nostre lettere (narrazione all'americana, scrittura dialettale, rinuncia a ogni ermetismo ecc.) era un lusso che da un pezzo meditavo di prendermi». E a Santorre Debenedetti, sei giorni dopo: «È divertente come in esso io ritorni a scuola e, forse, all'ordre». Queste note autoironiche non nascondono comunque l'orgoglio di Pavese per il proprio libretto, che considererà la sua cosa più originale e più intima, se non addirittura testamentaria. Sceglierà infatti la prima pagina di una copia dei Dialoghi per vergare il suo ultimo messaggio prima del suicidio.

Dai Dialoghi con Leucò Jean-Marie Straub e Danièlc Huillet hanno tratto un film di cui sono stati registi e sceneggiatori: Dalla nube alla Resistenza (1979), con Olimpia Carlisi, Guido Lombardi e Ennio Lauricella (la seconda parte del film è ispirata alla Luna e i falò).

 

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