Luigi
De Bellis

 


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Cesare Pavese



IL MESTIERE DI VIVERE: Diario 1935-1950


Pavese inizia a scrivere il diario nell'ottobre del 1935 a Brancaleone Calabro, dove dall'agosto si trova al confino per una condanna del tribunale fascista e dove rimane fino al febbraio del 1936 (intitolando questa prima parte del diario Secretum Professionale). Ciascun pensiero, raramente più lungo di una pagina, è datato con il giorno e il mese nell'arco dei sedici anni che si concludono con le annotazioni del 18 agosto 1950, pochi giorni prima del suicidio avvenuto il 26 dello stesso mese.

Diario intimo nel solco della tradizione baudelairiana, più che regesto di avvenimenti, ma anche lucido laboratorio del proprio lavoro letterario, questo libro di Pavese ha forse un solo grande precedente nella letteratura italiana moderna: lo Zibaldone di Leopardi. Se le prime pagine, in pratica tutto il 1935, sembrano assorbite da temi di pura riflessione teorica, in particolare la poesia e il legame tra poesia e racconto (non a caso la raccolta di poesie Lavorare stanca uscirà nel 1936), già dall'anno seguente si precisano le linee di forza di una meditazione fortemente strutturata, che si tiene in drammatico equilibrio fra le tensioni esistenziali e il severo esercizio della coscienza di uno scrittore. Manca, da questo puntiglioso ascolto di ogni minimo moto dell'animo e del corpo, la presenza, o anche solo lo sfondo, dei pur gravi fatti storici che lo accompagnano. Ma quando accade, sembra che il nesso tra vita privata e fatti pubblici venga percepito in funzione esclusiva della prima: «Non è questo il momento perché una guerra ci mandi tutto all'aria? Sarebbe un bel tratto di ironia cosmica». O, ancor di più, il fatto storico viene riassunto in una formula generale, in una sentenza volutamente psicologica: «Una dichiarazione di guerra è come una dichiarazione d'amore» (13 giugno 1940). Al centro dunque, di una scrittura sempre scarna, tesa al limite della crudezza (il lessico volgare è non di rado in funzione di una sincerità che si tramuta in confessione), ci sono, da una parte, la ricerca disperata dell'amore inteso come comunione, rottura della solitudine, dall'altra la tentazione del suicidio, vissuta come fatale e ultima forma di controllo e suggello di una vita altrimenti insensata. Una caratteristica della pagina di Pavese è la sua aderenza alla realtà, o a quello scambio tra soggetto e realtà che è poi l'esperienza, come in Montaigne. All'origine ci sono quasi sempre le occasioni quotidiane, e al centro della quotidianità la solitudine: «Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia». La stazione successiva, in una sorta di liturgia laica del dolore, è costituita da un incontro che invariabilmente si presenta come salvifico, in senso molto umano e concreto: «Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t'accompagna e ti fa vivere». L'incontro si risolve, prima o poi, in delusione. La ripetizione dello schema, da cui solo in apparenza scaturisce una misoginia dai tratti puerili anche se brillantemente aforistica («Nessuna donna fa un matrimonio d'interesse: tutte hanno l'accortezza, prima di sposare un milionario, d'innamorarsene»), è condizionata dall'impossibilità di un rapporto autentico. Lo slancio e il bisogno morale e fisico devono fare i conti con l'impedimento della carne (Pavese soffriva di una forma d'impotenza). Nel copione, dunque, le parti sono già distribuite: l'eroe-fanciullo-idealista («c'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini») e la donna con il suo ingombrante e greve senso della terrestrità. Così il destino non può che prevalere sulla storia, la minima ma decisiva storia degli amori impossibili, il corpo sull'anima, la grettezza sulla generosità: «Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l'evangelico, anormale là sotto».

In una visione assolutamente laica e razionale della realtà, ogni via di fuga è preclusa (si veda al contrario, la situazione analoga di un Kierkegaard, sfociata però in misticismo). Pavese non crede nella virtù redentrice del dolore, a cui rifiuta in anticipo ogni emblema di nobiltà, di saggezza e maturazione: «Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente». Se l'orizzonte dell'esperienza è limitato dalla natura, che lo predetermina, lo indirizza, e lo contiene nei margini di una necessità insofferente di illusioni, allora non resta che una tattica priva di speranza, una specie di arte della fuga, l'indietreggiare schivando una sorte che non puoi schivare, che prosciuga lentamente le tue risorse e la tua vita, come si dice in questa splendida pagina: «C'è un'arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore, che bisogna imparare. Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca; un dolore fa sempre singoli assalti - lo fa per mordere più risoluto e concentrato. E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido, ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere - solleverai il primo. Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti».

La lezione leopardiana, qui come altrove, viene sottratta alla sua aura metafisica, alla sua grandezza negativa, per divenire la formula di un meccanismo implacabile, tanto meschino quanto doloroso. In questo senso la vita è la materia che il destino esige come preda, il cibo di un pasto famelico. La vita intesa nella sua spinta originaria, nel suo germogliare incontrollato, si scontra con il meccanismo, l'inerzia, la rigidità impersonale: «L'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, ad ogni istante. Quando manca questo senso - prigione, malattia, abitudine, stupidità, - si vorrebbe morire». Ma non è un decreto esterno alla vita quello che la mortifica, è il suo avvolgersi, provenire da se stessa in un accumulo che alla fine la soffoca: «Vivere è come fare una lunga addizione, in cui basta aver sbagliato il totale dei due primi addendi per non uscirne più». Lo scacco della vita/felicità, la mancata vocazione per qualunque esito consolatorio conducono al suicidio come estrema e paradossale rivolta, l'unico gesto disponibile per ribadire i diritti della vita/felicità, scostandone da sé la contraffazione non di rado ipocrita. L'enormità della rinuncia esige il suicidio come rifiuto di una natura desolante, abbandono di un gioco in cui non c'è alcuna chance di vincere. Lo sguardo che accetta di posarsi sulla parte più intima di sé, non può e non deve rimanere impassibile, e a differenza di Nietzsche, il cui naturalismo pure è presente in molti luoghi del diario, imbocca la via della ribellione. Pavese sa, perché questo è il risultato della sua anatomia spirituale, che non tutto può essere spiegato con il fallimento sessuale, con la difficoltà del colloquio, con gli inganni dell'io: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Così il cerchio si chiude: solitudine, amore, disillusione, destino, morte.

Una parte ragguardevole del diario è dedicata al lavoro dello scrittore; eppure vita e lavoro non riescono a compensarsi se non nel bel titolo, in cui realizzano quasi un ossimoro, che in fondo risulta penalizzante per entrambi. La positività del lavoro, la stessa bravura sancita alla fine da un unanime consenso («Difficilmente andrai più in là»), appartengono al mondo esterno. Sono certo il prodotto di una rielaborazione interiore, ma gli effetti conseguiti si esauriscono in una zona indefinibile che poco ha a che fare con le aspirazioni più profonde dell'anima. Questo perché a fondamento del lavoro letterario sembra esserci, sempre e di nuovo, il desiderio di un'intimità: «L'opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà». Ma, come nella vita, anche in letteratura ogni legame autentico è un azzardo indecifrabile: «E soprattutto ricordarsi che far poesie è come far l'amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa». Il successo non ripaga della solitudine perché è solo l'altro nome della solitudine stessa.

Pavese scrive il diario con piena consapevolezza di farne un libro, non una collezione estemporanea di stati d'animo. Ne sono prova i numerosi rimandi interni e la ricorrente analisi del senso e delle forme della scrittura diaristica: «È l'originalità di queste pagine: lasciare che la costruzione si faccia da sé, e metterti innanzi oggettivamente il tuo spirito». L'annotazione è perfettamente in linea con uno dei principi compositivi di Pavese, secondo cui la lucidità creativa non deve andare a scapito di una spontanea e quasi inconscia produzione di materiali: «Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere come è fatta e per servirsene, se mai, a freddo. Tuttavia un'opera d'arte riesce soltanto quando per l'artista essa ha qualcosa di misterioso». E, in un certo senso, Pavese nel diario applica il metodo della consapevole assunzione degli strumenti artistici anche a quelli esistenziali. Solo che qui, nel mezzo dei rapporti concreti e dei sentimenti, il flusso spontaneo è bloccato, non rimane che una lucidità paralizzata e alla fine paralizzante. Se la possibilità stessa del diario si trova nell'intersezione di passato e futuro (che è poi la definizione anche dell'esistenza: «poiché, che cosa ha l'uomo di proprio, di vissuto, se non ciò ch'è appunto già vissuto? Ma tenersi in equilibrio, perché che cosa ha l'uomo da vivere, se non appunto ciò che ancora non vive?»), quando l'equilibrio si rompe, il gioco è finito. Le ultime parole riassumono e al tempo stesso mettono fine al doppio riflesso della letteratura sulla vita e della vita sulla letteratura: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».

 

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