Luigi
De Bellis

 


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Lavorare stanca

 

 





Cesare Pavese



LAVORARE STANCA: Poesie


La prima edizione uscì all'inizio del 1936. In seguito Pavese tornò sulla sua raccolta poetica. la arricchì di nuove liriche, recuperò tre di quelle censurate nella stampa precedente (Il dio-caprone, Balletto, Paternità), ne tolse sei che invece lì comparivano, rielaborando l'ordine e la struttura del volume; in «Appendice» vi pubblicò due pezzi teorici, Il mestiere di poeta, del '34, e A proposito di certe poesie non ancora scritte, del '40.

Per comprendere il titolo Lavorare stanca si legga la seguente nota di Italo Calvino: «I sansóssì (grafia piemontese per sans-souci) è il titolo di un romanzo di Augusto Monti (professore di liceo di Pavese e suo primo maestro di letteratura e amico). Monti contrapponeva (sentendo il fascino dell'una e dell'altra) la virtù del piemontese sansóssì (fatta di spensieratezza e giovanile incoscienza) alla virtù del piemontese sodo e stoico e laborioso e taciturno. Anche il primo Pavese (o forse tutto Pavese) si muove tra quei due termini; non si dimentichi che uno dei suoi primi autori è Walt Whitman, esaltatore insieme del lavoro e della vita vagabonda. Il titolo Lavorare stanca sarà appunto la versione pavesiana dell'antitesi di Augusto Monti (e di Whitman), ma senza gaiezza, con lo struggimento di chi non si integra: ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell'amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili». Non si può escludere comunque un'influenza, sulla scelta del titolo, del pessimismo virgiliano delle Georgiche: «Labor omnia vicit / improbus et duris urgens in rebus egestas» (I, 145-146).

L'opera, nell'edizione del 1943, risulta divisa in sezioni, i cui titoli sono quelli di alcune liriche lì comprese: «Antenati», «Dopo», «Città in campagna», «Maternità», «Legna verde», «Paternità».
La poesia di apertura, Mari del Sud, è la più antica e segna il passaggio, nella storia della poesia pavesiana, da un lirismo ansiosamente introspettivo a uno stile oggettivo narrativo, persino epico. Domina nella poesia la figura del cugino che ritorna nel Torinese dopo aver girato il mondo: è un «gigante», emblema della potenza, pacatezza e sapienza virili, colui che ha visto e conosciuto luoghi, cose e persone, come un Odisseo, anche se meno furbo e più tranquillo. L'ossessione della salda virilità come valore supremo, contrapposto all'inferiorità femminile, riappare nella seconda lirica, Antenati: «uomini saldi, signori di sé, / e nessuno sapeva rispondere e tutti eran calmi». Il paesaggio della campagna come luogo del mistero e del sesso è presente in poesie come Il dio-caprone, dove trionfa un erotismo animale e violento, mentre d sangue e la morte materiano Luna d'agosto: in un «orrore lunare» un uomo «è disteso / in un campo, col cranio spaccato dal sole». Il tema dell'isolamento è declinato talora in forme di fresca tranquillità, come in Mania di solitudine («Qui al buio, da solo / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone»), talora con accenti di desolazione, che esprimono una disperata necessità di compagnia femminile, ed è il caso della poesia eponima Lavorare stanca: «Val la pena esser solo, per essere sempre più solo? / Solamente girarle, le piazze e le strade / sono vuote. Bisogna fermare una donna / e parlarle e deciderla a vivere insieme».

Tre poesie del 1940, dedicate a Fernanda Pivano (Mattino, Estate, Notturno), rappresentano invece la conquista di una figuratività acquatico-luminosa fatta di nubi e colline, consacrata tutta a una figura femminile divina, quasi un'Afrodite, ed è la linea che si svilupperà in parte nella raccolta seguente a Lavorare stanca, intitolata La terra e la morte, dedicata a Bianca Garufi. In Lavorare stanca lo scacco della solitudine e dell'assenza di una donna è talora eluso, come in Dopo, dose la donna-collina, compagna-campagna, giace sul letto accanto al poeta, dopo l'amore: la mattina dopo se ne andrà, ma «potremo incontrarci, volendo», chiude la lirica. Accanto alla campagna c'è la città. in una contrapposizione che talora si fa collusione (Città in campagna, titolo di una lirica e di una intera sezione); ricompare poi il motivo del gigante, in Balletto, dove l'uomo grande, placido come una rupe, un masso, ha accanto a sé una donna simile a una bimba, che conduce ad assistere a un match di pugilato: i due boxeur «pare che danzino / così nudi allacciati, e la donna li fissa / con gli occhietti e si morde le labbra contenta», immagine per cui femminilità e maschilità risultano perfettamente agli antipodi, con giudizio implicito di inferiorità assoluta della prima. È attivo quel «misogino virilismo» che Pavese ammette di aver frequentato, alla ricerca stilistica di una «virile oggettività» , come si esprime nello scritto Il mestiere di poeta. Una ricerca di poesia «chiara e distinta, muscolosa, oggettiva, essenziale», cioè la trasposizione formale di una ricerca intima, l'ansia di potere e dover essere un «uomo», solido e sobrio tranquillo e forte. La posteriore scoperta dell'«immagine», come si legge sempre nel Mestiere di poeta, non comporta una negazione della natura narrativa della poesia: l'immagine, o meglio, il «rapporto fantastico» tra immagine e soggetto è esso stesso «argomento del racconto». l'immagine, cioè non è esornamento o metafora, ma costanza. La parola non è mai orpello, ma emblema ossessivamente iterato; si veda ad esempio Paternità, con la sequenza di parole-chiave ripetute senza posa e incatenate: vecchio-sangue-nudo-vecchi-vecchi-nuda-giovane giovani-nudo-vecchiotti corpo-corpi-giovani-corpi-corpo-sangue.
Il metro poi, con andamento cantilenante e disperatamente monotono, contribuisce alla resa epica, di affabulazione lenta, statica.

Il verso pavesiano può descriversi attraverso gli accenti (sequenza di moduli trisillabici anapestici in serie di quattro o cinque o, addirittura, sei) ovvero attraverso il computo sillabico (settenario più senario, doppio settenario, settenario più novenario ecc.); in ogni caso le variazioni non contrastano con l'impressione complessiva di uniformità costante, garantita dalla assoluta prevalenza del "piede" costituito da due sillabe atone più una tonica.

 

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