Scritto fra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949, e diviso in trentadue
capitoli, è l'ultimo romanzo di Pavese, che si toglierà la vita nell'agosto del
'50.
Il protagonista, soprannominato Anguilla, è un trovatello nato nelle Langhe ed
emigrato in America a cercare fortuna; ha conosciuto luoghi esotici, si è perso
nel deserto di notte, con la luna color sangue e i serpenti, ha avuto donne
diverse, ma ora ha deciso di tornare a visitare le sue terre. Qui ritrova Nuto,
il contadino amico d'infanzia che non si è mai mosso da quei luoghi: da ragazzi,
il protagonista e Nuto stavano sempre insieme. Trova inoltre un alter ego di se
stesso giovinetto in un povero sfortunato, Cinto, figlio del Valino, zoppo e
rachitico: «Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell'aia era come vedere me
stesso» (cap. V). L'io narrante è cresciuto, è diventato un «omone», ha
raggiunto la sua maturità, ma forse una maturità illusoria, particolarmente di
fronte alla dimensione della campagna, segnata dall'eterno ritorno delle cose,
dal tempo ciclico. Intanto non si è sposato (mentre Nuto sì). E poi non ha
imparato molto dalle sue peregrinazioni; la smania del ritorno lo ha ricondotto
a calarsi nelle sue terre come dentro se stesso, dentro le zone più riposte del
proprio inconscio, delle proprie regioni mitiche, per fare scoperte sempre più
angoscianti. Le ricche e belle giovinette, figlie del sor Matteo presso cui egli
lavorava da giovane, sono finite male: Irene è sposata con un uomo che la
picchia; Silvia è morta in seguito a un aborto; Santina (la più disperata,
giovane vamp traditrice e sfortunata) è stata giustiziata dai partigiani perché
faceva il doppio gioco. Poi l'hanno bruciata, estremo falò del romanzo. Non è
questo l'unico rogo tragico del romanzo: anche Valino, strangolato dalla
miseria, ha dato fuoco alla casa facendovi morire la cognata, la madre e il
manzo nella stalla, poi si è impiccato. II piccolo Cinto si è salvato per
miracolo.
«Da tempo immemorabile i contadini d'ogni parte d'Europa hanno usato accendere i
falò, i cosiddetti fuochi di gioia, in certi giorni dell'anno, ballarvi intorno
e saltarvi sopra. Non è raro che in questi fuochi si ardano dei fantocci o che
si finga di ardervi una persona viva; e c'è ragione di credere che anticamente
vi fossero davvero bruciati degli esseri umani». Così scriveva James Frazer, il
cui monumentale saggio Il ramo d'oro fu una delle letture più importanti per il
Pavese studioso di etnoantropologia. Certo i falò del romanzo estremo non sono
gioiosi; sono fuochi di morte, senza rigenerazione, senza purificazione. Non c'è
riscatto nel ritorno alle proprie origini da parte del protagonista, c'è
soltanto il ritrovamento della campagna nella sua dimensione primitiva, mitica,
selvaggia, disumana, come selvaggio, primitivo e sanguinoso è il fondo
dell'inconscio. La maturità che egli crede di aver conquistato nei suoi viaggi,
nella sua conoscenza del mondo (e la maturità è tutto, Ripeness is all, come
suonano le parole shakespeariane poste da Pavese in esergo al romanzo), risulta
fragile, se confrontata, per esempio, con la virile e pacata sapienza dell'amico
Nuto (ispirato alla figura reale di Pinolo Scaglione), che è rimasto nelle
Langhe e crede ancora che i falò favoriscano il raccolto, come crede nei poteri
misteriosi della luna. Noto incarna la figura dell'amico schietto, sicuro, vero
uomo, insomma, figura ricorrente nell'opera di Pavese, che gli affianca sempre
un io narrante (o un io lirico) ansioso, instabile, disprezzatore di se stesso,
incapace di raggiungere una autentica virilità e una autentica ripeness.
II romanzo è dedicato a Constance Dowling, l'amata Connie irraggiungibile come
tutte le altre donne di Pavese, emblema dell'estremo scacco, specchio della
propria impotenza. Anche il protagonista della Luna e i falò, che appare così
pieno di esperienza e conoscenza - e che come Ulisse ha conosciuto paesi e
uomini lontani e compie il nostos, il ritorno a Itaca -, in realtà è un'ennesima
personificazione autobiografica della sconfitta. E la campagna mitica, con i
suoi rituali e i suoi cicli ineludibili, non lo riaccoglie benevola e materna;
appare piuttosto selvaggia, violenta, allegoria della femminilità più crudele,
divina e sanguinaria che richiede di essere fecondata. Non potendo fecondarla,
il personaggio pavesiano deve idealmente soccombere. Cosi il sacrificio umano di
Santina, il cui corpo viene bruciato, coincide in qualche modo con il sacrificio
dello scrittore che non può inseminare la donna, Connie o chi per lei, e allora
soccombe, si toglie finalmente la vita. I fuochi della Luna e i falò sono fuochi
funebri, senza palingenesi.
Al romanzo è ispirata la seconda parte del film Dalla nube alla Resistenza
(1979), diretto e sceneggiato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, con
Olimpia Carlisi, Guido Lombardi e Ennio Lauricella (la prima parte del film è
dedicata ai Dialoghi con Leucò).
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