LUIGI PIRANDELLO
Pirandello e Svevo
rappresentano invece la "coscienza della crisi" dell'età del
Decadentismo.
Anche il Pirandello esordì come verista, ma fin dall'inizio il suo
verismo fu caricaturale e grottesco, mirante piuttosto a distruggere
la realtà che a rappresentarla.
Costantemente estranea fu al suo mondo poetico ogni problematica
morale ed attraverso le novelle ed i suoi primi romanzi venne
definendo la sua concezione della vita, che si basa su di un
esagerato, esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non
avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi
quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche
a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo.
La medesima cosa capiterebbe all'uomo: io non sono nella realtà
quello che sono, ma quello che appaio a ciascuno degli uomini con i
quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al
di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di
essere "uno", essendo invece "centomila" e "nessuno". Ne consegue
l'impossibilità dell'uomo di comunicare con gli altri, dal momento
che a lui sfugge. in ogni incontro, chi egli sia per l'altro. Da ciò
una desolante solitudine, una sensazione d'angoscia, che determina
come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale
impulso al suicidio.
I più importanti romanzi del Pirandello sono "Il fu Mattia Pascal"
(1904) e "Uno, nessuno e centomila" (1926).
Anche nei romanzi, come nei drammi, si riscontra quel particolare
"umorismo" pirandelliano basato sul "sentimento del contrario", che
consiste come nota il Guglielmino. in "una contemporanea presenza di
rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell'artista
a vedere, sotto l'orpello delle verità conclamate la sostanziale
precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e
coglierne le contraddizioni". |