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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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La messa domenicale

Proponiamo alla vostra lettura la sintesi di un documento molto interessante sulla Messa Domenicale, già pubblicata a puntate sulle colonne del giornale parrochiale Castellosette nel marzo 2001.

 

I preti del Vicariato di Rifredi (Firenze) hanno elaborato un documento di cui proponiamo una nostra sintesi per argomenti. Riflettere sulla Messa è sempre più necessario visto che molti la considerano ancora una semplice preghiera sostituibile con qualsiasi pratica di pietà. Di fatto la Messa è invece il "culmine e la fonte" della vita cristiana (Concilio Vaticano II)


1. Il problema

Parlare della celebrazione della Messa, è importante oggi forse ancor più di ieri. Non solo perché l'Eucarestia è "culmine e fonte" dell'azione della Chiesa, ma perché è dalla celebrazione dell'Eucarestia che si struttura organicamente la Chiesa stessa.
Occorre però puntare l'attenzione sulla consapevolezza che si ha del Mistero Pasquale in quanto tale, ed in particolare su "come" i cristiani lo vivono nella celebrazione della Messa, specie quella domenicale.
Qualsiasi tentativo di avvicinarsi a questo Mistero non può che partire dalla consapevolezza di ciò che si fa. Solo riproponendo il valore salvifico dell'Eucarestia potremo, al di là dei devozionalismi, oggi tanto di moda, ricreare una coscienza eucaristica legata alla Scrittura e alla vera Tradizione della Chiesa.

"Cosa significa celebrare? che cosa fanno i Cristiani quando vanno in Chiesa? e perché ci vanno?". Al di là dei soliti modi di dire o di pre-comprendere, seguendo i soliti pregiudizi che sono duri a morire, sono questi gli interrogativi che con coraggio dobbiamo porci.
Sono molti quelli che non hanno le idee chiare, soprattutto sul "celebrare", anche fra coloro che fanno la Comunione tutti i giorni. Ci sono molti segnali che fanno ritenere che non ci si chieda spesso: "Ma io cosa ci faccio alla Messa?".
Il Concilio Vaticano II parla di «partecipazione attiva dei fedeli alla celebrazione» (cfr. "SC cap. II°) e di «Mistero Pasquale» (SC 5). Dovremo cercare di mettere in relazione le due cose riflettendo sull'importanza e sul significato del rito.
Di qui l'importanza della ritualità, cioè della scelta consapevole di gesti, segni, canti e preghiere nella celebrazione perché essi permettono la comunione-comunicazione con il nostro Dio in Cristo, evitando di cadere in una ritualità piena di invenzioni strampalate o a casaccio, vista la necessità che sempre più si avverte di ricreare riti e simboli in una società che aveva creduto di di poterne fare a meno.

 

2. Mistero Pasquale e Alleanza

L'Alleanza è il legame che unisce il Popolo al suo Dio e Iddio al suo popolo sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. La distinzione tra Vecchio e Nuovo è infatti un'indicazione temporale prima che una opposizione, come spesso erroneamente si pensa.
L'Alleanza tra Iddio della Bibbia e il suo popolo segna un cammino di Rivelazione che parte con Abramo e finisce nella piena conoscenza e nella piena comunione della manifestazione di Dio alla fine dei tempi.
Come conseguenza dell'Alleanza ha origine la coscienza della "elezione". Da Abramo infatti nasce un popolo che proclama di essere stato scelto da Dio per una missione da compiere: essere "segno" di questa scelta, che diventa partecipazione di vita e di esperienza, coinvolgimento e storia vissuta insieme da Dio e dal popolo che da Lui è stato scelto.
Questa Alleanza, a cui si rifarà poi la lettera agli Ebrei, che paragona Abramo a Cristo, all'inizio è solo il legame con un clan, quello di Abramo, si trasforma poi con Mosè in Alleanza con un intero popolo che diventa così il popolo di Dio in base ad una scelta, ad una elezione, che fa di quello di Israele un popolo diverso: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa», «una proprietà particolare» (Es. 19,5-6).

Inizia così l'esperienza del popolo ebraico che potremmo definire "esperienza sacerdotale" perché il sacerdozio è la capacità di mediare tra Iddio e l'umanità, è la capacità di fare da ponte (nella Roma antica si parlava di "Pontefice") tra il divino e l'umano. L'elezione è quindi un compito ricevuto da Dio per essere segno e strumento di comunicazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio.
Nell'Antico Testamento il mediatore è Mosè, capo del popolo sacerdotale. A lui viene data la Legge, a lui vengono fatte le rivelazioni. A lui sono confermate le promesse che erano state fatte ad Abramo. Promesse che si sono in parte compiute con la costituzione di questo popolo che è porzione ed eredità particolare di Dio.
Il sacerdozio dell'Antico Testamento non è tanto il sacerdozio del Tempio, quanto il sacerdozio dell'intero popolo e di Mosè. Il Tempio in fondo non è che un particolare aspetto di questo sacerdozio: quello di essere il segno della presenza di Dio nel popolo sacerdotale. Ma la presenza di Dio si realizza sopratutto con la rivelazione della Parola (la Legge) e con i fatti con i quali Dio libera il suo popolo e lo assiste nel cammino della storia.
Sarà il sacerdozio dei fatti e della rivelazione e non quello del Tempio che troverà il suo compimento in Cristo che, secondo il vangelo di Matteo si ricollega direttamente a Mosè.

Secondo l'Antico Testamento infatti Mosè termina la sua missione sul monte Nebo nel territorio di Moab (Deut. 34) e subito dopo Giosuè traversa il Giordano alla testa di tutto il popolo. Non è certo un caso che Giosuè sia la versione ebraica del nome Gesù e che secondo gli evangelisti Gesù inizi la sua vicenda dal Giordano, come Giosuè (Gios. 4,15ss). A Giosuè, dopo la traversata del Giordano, si aprirono le porte della terra promessa ed egli poté rinnovare l'Alleanza. Gesù salito dal Giordano (Mt. 3,13-17) vede aprirsi i cieli e dà inizio alla Nuova Alleanza. Il cammino di Mosè si apre così al cammino di Gesù. Il Sacerdozio di Mosè passa a Gesù: come Mosè stipulò l'Alleanza nel sangue delle vittime (cfr. Es. 24,6) così Gesù stabilirà l'Alleanza nel suo sangue (cfr. Gv. 19; Eb. 9).
Anche il racconto dell'istituzione dell'Eucarestia secondo i Vangeli Sinottici e Paolo (Mt. 26,26-29; Mc. 14,22-25; Lc. 22,19-20; I Cor. 11, 23-26) ci guida alle stesse conclusioni: «Questa è la nuova Alleanza nel mio sangue, fate questo in memoria...». La memoria di Mosè e quella di Cristo si uniscono in un'unica esperienza, che è la esperienza sacerdotale, proseguimento e pienezza dell'Alleanza precedente.
Il Sacerdozio che passa nella nuova Alleanza non è quello Levitico (i detentori del Sacro, quelli che mediano attraverso il concetto di purità) ma quello che si fonda sulla "rivelazione della Parola e della presenza". E' questo il Sacerdozio di Cristo, che trova la sua pienezza, quando Gesù "è intronizzato" cioè sale sul trono della Croce, nella sua Pasqua di morte e Resurrezione.

 

3. La croce è il luogo del Sacerdozio per Cristo e per tutti i Cristiani.

Il Sacerdozio, che da Cristo viene trasmesso alla Chiesa, è quello che ripropone e celebra il mistero della morte e resurrezione, traducendolo sempre in novità di fatti e di parole, e quindi novità di relazioni, novità di presenza nel corso dei secoli. Questo è il Sacerdozio che viene affidato ai Cristiani.

Nel vangelo di Matteo si parla di "chiavi del regno" affidate alla Chiesa (Mt. 16,18-19). Il "legare e sciogliere", è il dono di elezione e il compito sacerdotale del nuovo popolo di Dio. Esso non può essere costituito solo dal perdono dei peccati, ma comporta il reggere la sovrintendenza della casa. E' essere quelli che amministrano l'eredità ed i beni del regno di Dio. E' essere partecipi della missione di presenza e di rivelazione che Iddio ha iniziato con Abramo, portato avanti con Mosè e fatto giungere a pienezza in Cristo. Pienezza che continua nella Chiesa: «a te darò le chiavi del Regno dei Cieli».
E' questa la  "nuova prospettiva" che il Concilio Vaticano II ha restituito al popolo cristiano parlando di "Sacerdozio comune dei Fedeli".
Questo sacerdozio dei fedeli noi lo esercitiamo quando, ricordando il Mistero Pasquale di Cristo, ci uniamo a lui per vivere con lui e riproporre a tutto il mondo questa "buona notizia" che è la possibilità di una comunione di vita, un'Alleanza piena ed eterna come lui ci ha mostrato, vissuto e trasmesso. Gesù Cristo ha accolto la Parola e, portando avanti la Parola, ha dato la vita ed è diventato strumento per l'ingresso nella novità del Regno, aprendoci alla nuova Alleanza (Eb. 10,5-21).

 

4. Il "Mistero Pasquale" e il "Corpo di Cristo"

Gesù Cristo è il Sacerdote della Nuova Alleanza e assomma in sé tutto il sacerdozio cristiano. Lo è non solo per ciò che ha fatto ma per ciò che è. Egli è infatti la presenza di Dio nel mondo; è il "luogo" dell'incarnazione, è la vittima e il sacrificio offerto a Dio per la salvezza degli uomini.

Secondo la Scrittura Gesù è morto per i peccati. La morte di Cristo non è un debito pagato al Padre, ma è la sconfitta dell'umanità della quale Iddio stesso per l'incarnazione del Figlio in qualche modo fa parte. Per questo Gesù sperimenta l'abbandono del Padre: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. 27,46). Cristo nel momento della sua morte è entrato in pienezza nell'umanità, si è fatto lui steso peccato. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato per la nostra salvezza» (2 Cor. 5,21).

Secondo questa lettura la morte di Cristo è - prima ancora che la Resurrezione - il momento in cui Cristo ha vissuto in pieno il suo essere Sacerdote. E' davvero come dice il Vangelo di Giovanni «l'ora di Gesù» (cfr. Gv. 7,30) ed è l'ora in cui si apre un passaggio da questo mondo al Padre: «Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amo sino alla fine» (Gv. 13,1).

«Li amò sino alla fine» non vuol dire soltanto che poi prese il catino e lavò loro i piedi. Il lavare i piedi è solo un segno di quello che davvero ha fatto; è l'esplicitazione su un piano simbolico di quello che realmente si compie: l'accesso al Padre per lui e per i suoi («se non ti lavo non avrai parte con me»; Gv. 13,8) finche «Tutto è compiuto!» (Gv. 19,30).

In quello che viene chiamato "il grande discorso sacerdotale" l'evangelista Giovanni chiarisce il senso della morte di Gesù (capp. 13-19). Il Maestro annuncia la comunione piena tra Lui e i suoi,  tra i suoi e Lui; e tra i suoi, Lui e il Padre : «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv. 15,5), «Vado a prepararvi un posto» (Gv. 14,2). Non si tratta della prenotazione-Paradiso, quasi ci fosse un biglietto di ingresso. E' invece l'annuncio di una dimensione nuova. E' il nuovo esodo di cui Gesù è il nuovo Mosè, che paga insieme al popolo il tributo al peccato, e cioè la morte. «La ricompensa del peccato è la morte» (Rom. 6,23).

Gesù Cristo  paga e paga per noi; non paga a Dio, ma paga al nemico che è la morte. Egli è l'Agnello di Dio che si carica dei peccati del mondo (Liturgia).

Il Vangelo di Giovanni e la lettera agli Ebrei insistono sull'accostamento agnello sacrificale-Cristo. Su di lui vengono caricati i peccati di tutto il popolo. Con Cristo -dice il Vangelo di Giovanni- si inaugura una nuova presenza di Dio: «E' venuto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in Spirito e Verità», dice Gesù alla Samaritana (Gv. 4,23).

E' il tempo in cui il nuovo Tempio sarà davvero il Tempio che nessuno potrà distruggere perché «fatto di pietre vive» (1 Piet. 2,5), fatto di persone nelle quali abita lo Spirito: «Se io vado, verrà a voi il Consolatore» (Gv. 16,7); «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv. 10,30); «Voi sarete in me e io in voi» (Gv. 14,20); «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt. 18,20).

Questa comunione non è fatta di sentimento, ma è incarnazione; è l'inabitazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in ciascuno dei battezzati.

San Paolo illustrerà la stessa realtà con il famoso esempio del corpo nel cap. 12 della prima lettera ai Corinzi dicendo: «Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (12,27).

Quando si parla di "Corpo di Cristo" si parla di Comunione e di unità "spirituale", cioè secondo lo Spirito di Dio (si faccia attenzione a non confondere spirituale con invisibile e immateriale).

Lo Spirito porta alla comunione, quindi porta alla vita. Tutto ciò che proviene dallo Spirito di Dio è vita. Così la vita spirituale è l'esperienza che si può fare tra Dio e gli uomini, come Cristo l'ha fatta: l'uomo spirituale è il Cristo Risorto.

La morte e la Resurrezione di Gesù immettono così l'uomo in una dimensione nuova, che permette di guardare anche oltre la morte donandogli la "vita eterna" (che non consiste, come qualcuno pensa, nella sopravvivenza dell'anima, ma è il destino di ogni uomo, in corpo e anima, se vogliamo adoperare questa distinzione che oggi ha fatto il suo tempo).

Questa è la "verità" del Corpo di Cristo. Gli antichi dicevano che questo è il "corpo vero" di Cristo.

Se vogliamo capire che cosa è la Messa e qual è il Sacerdozio, che i Cristiani esercitano nella sua celebrazione, dobbiamo ripartire da questa definizione. Se il Cristiano è parte del "Corpo vero" di Cristo, quando celebra l'Eucarestia, non fa altro che essere coinvolto nella morte e resurrezione di Cristo, non fa altro che dichiarare la sua adesione vitale a Lui, identificandosi nella sua missione: «Come il Padre ha mandato me, così anch'io mando voi» (Gv. 20,21; vedi anche 6,57 che è proprio nel contesto eucaristico).

Il cristiano è invitato a lottare contro il "divisore", contro la carne e il sangue, contro la realtà avversa che tende a spezzare la comunione e che domina nel mondo (il principe di questo mondo, come lo chiama l'evangelista Giovanni) e che si manifesta in ogni forma di potere.

La Chiesa fa allora quello che aveva fatto Gesù Cristo: afferma la presenza dello Spirito, che è vita, che è unità, che è comunione, che è gioia, e combatte tutto ciò che è divisione e morte come ha fatto Cristo.

Il Corpo di Cristo vive dunque il Mistero Pasquale attraverso questa comunione di esperienza che contempla sì la vittoria sulla morte, ma passando prima attraverso la sconfitta. Come Cristo ha perso di fronte al potere, così il suo Corpo non può non perdere: «Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!» (Mt. 10,25); «Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone» (Mt. 10,24). Il destino del Corpo di Cristo non può essere altro che quello di morire sulla croce.

Questa esperienza, che nasce dal Cristo che si incarna e dalla proposta che Cristo fa a coloro che diventano il suo Corpo (questa coralità di vita e di morte, di morte e di resurrezione), inizia con il Battesimo stesso, che, prima di essere un segno di vita, è un segno di morte. Il vocabolo baptizein vuol dire "andare a fondo" e chi va a fondo muore. E' sì vero che dall'acqua rinasce la vita, ma questa si genera dalla morte. Nel rito battesimale si dice : «Tu sei unito con Cristo nella morte» e nel rito dei funerali, si prega perché il defunto, che è stato «unito alla morte di Cristo nel Battesimo, sia unito ora alla sua Resurrezione». Battesimo e morte si richiamano l'un l'altra: è in questa esperienza che si colloca il Mistero Pasquale.

 

5. Fare memoria attraverso la celebrazione

Il verbo "ricordare" è uno dei più gettonati della Bibbia. "Ricordati" o "Ricordatevi", "Signore, ricorda"... è un motivo ricorrente, che diventa quasi un ritornello. Si potrebbe dire che la Bibbia è fatta di ricordo: ricordo dell'uomo da parte di Dio, ricordo dell'uomo nei confronti di Dio.
Quando Dio si ricorda, Dio salva. «Si è ricordato della sua Santa Alleanza» (Lc. 1,72). «Benedetto il Signore, Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo...»: "visitato" nel senso che "si è ricordato". Del resto Zaccaria, sulla cui bocca Luca mette questo canto, ha un nome che significa Jhw si è ricordato (1,68-79).

Dice la Haggadah di Pasqua, che è il racconto con cui gli Ebrei celebrano la cena pasquale: «In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall'Egitto, come è detto: "In quel giorno racconterai a tuo figlio dicendogli: per quello che mi fece il Signore, quando uscii dall'Egitto". Perché il Santo, benedetto egli sia, non liberò soltanto i nostri padri, ma noi pure liberò insieme con loro, come è detto: "Noi, Egli fece uscire di là per condurci e dare a noi la terra che aveva giurato ai nostri padri"».

Il ricordo è la molla che muove l'agire di Dio e l'agire degli uomini. Attraverso il ricordo nasce la nostra storia. Ogni storia è un insieme di ricordi che permettono di interpretare i fatti dando loro un significato per il futuro. Più il fatto è importante e significativo, più ha bisogno di ricordo. Il gesto d'amore si nutre del ricordo di una storia passata e vive il presente. Se così non fosse tutto ricomincerebbe sempre daccapo senza alcuna continuità. D'altronde il futuro ci sarà se c'è un passato. Ogni volta che scatta il ricordo, si viene a contatto con una storia precedente, la si reinterpreta e ci si lancia verso il futuro.
Ogni volta che Iddio si ricorda, non può non ricordarsi se non di Cristo, perché ogni volta che Dio si ricorda dell'uomo, ha dinanzi l'immagine del Cristo. Perciò l'uomo di fronte a Dio vive del ricordo che il Padre ha del Cristo, e ogni volta che noi diciamo "Padre", provochiamo in Dio Padre la memoria del Figlio; nello stesso tempo noi ricordiamo il Figlio e nel Figlio noi ricordiamo il Padre.
Ogni incontro vive di questo ricordo; l'incontro fra le persone e quindi anche l'incontro tra Dio e gli uomini. Perciò ricordare - secondo la Scrittura - diventa l'attività umana e anche divina più grande.
«Dio fece l'uomo a sua immagine e somiglianza, ad immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen.1,27): con questa espressione la Bibbia descrive il rapporto tra Iddio e le sue creature e le sue creature tra di loro.
Un rapporto che, per essere duraturo ed efficace, non può non nutrirsi di ricordo e di memoria. "Ricordare" significa continuare una storia alla quale noi attribuiamo un particolare significato e fare in modo che questa storia poi continui: Dio, quando si ricorda di noi, ricordandosi di Cristo ci salva; quando noi ci ricordiamo di Dio, ricordandoci di Cristo, siamo salvati e rendiamo lode a Dio.

Quando noi ricordiamo, non ricordiamo soltanto delle parole, non ricordiamo soltanto dei fatti, ricordiamo tutto un complesso di cose che poi, evidentemente, pensiamo e narriamo, non solo con la bocca, ma anche con i gesti, dai gesti della faccia fino a quelli più impegnativi e più "corposi" - diciamo così - che sono i gesti dell'amore, che sono semplicemente dei riti con i quali noi muoviamo la memoria. Darsi la mano quando ci si ritrova è un rito: è il rito del toccare; certo, ci si può dare la mano, abbracciare etc.; e il tutto è misurato dall'intensità con cui noi vogliamo sottolineare il rapporto e quindi la storia che c'è stata e che vogliamo che continui. Il tutto all'interno di una serie di riti, che sono necessari per comunicare un comune ricordo.

Se vogliamo comprendere i Sacramenti, ed in particolare la Messa, dobbiamo entrare in questo ordine di idee, perché la Messa non è altro che il ricordo di tutto quello che Iddio ha fatto per noi, il ricordo di tutto quello che noi abbiamo fatto e abbiamo intenzione di fare nei confronti di Dio.
Celebrare vuol dire dunque provocare, attraverso una ripetizione di gesti e riti, qualcosa che è comune a tutti noi e che attraverso il rito diventa evidente. E' qualcosa di inesprimibile che si esprime attraverso il gesto, attraverso il rito: la nostra fede.

Attraverso il bacio possiamo esprimere l'amore, ma questo gesto lo si può fare anche per finta o per egoismo; è il comune ricordo che gli dà il significato. Nello stesso tempo, attraverso il rito ripetuto non solo ci si identifica, ma si alimenta il ricordo in modo tale che il ricordo di ieri è più piccolo del ricordo di oggi, e quello di oggi sarà più piccolo di quello di domani a meno che non intervenga qualcosa ad interrompere la catena del ricordo. La ripetizione di questi riti farà in modo che anche un fatto contrario possa essere superato più facilmente e anche neutralizzato qualora succedesse. Se ho un rapporto vero con una persona, sarò in grado di superare le incomprensioni. Se il rapporto è debole, alla prima incomprensione ci sarà la rottura e non incomincerà neppure la catena dei ricordi.
Se noi non entriamo in questo modo di vedere, la Messa sarà una devozione, una preghiera, un'omelia più o meno interessante, un trovarsi bene con le persone, ma non riuscirà ad essere quello che è, cioè un rito che provoca, attraverso la fede, un ricordo di Dio nei miei confronti e il mio ricordo di Dio nei confronti di lui, che fa crescere questa "storia di incontri" lanciandola verso il futuro: «Annunciamo la tua morte, o Signore, proclamiamo la tua Resurrezione nell'attesa della tua venuta» (Liturgia).

La Messa diventa allora la ricapitolazione di tutta la storia: noi siamo usciti dall'Egitto, noi siamo stati salvati, noi siamo entrati con Cristo nel Giordano, noi... perché tutto si ricapitola in questo gesto. Più pieno riesce ad essere il nostro ricordo, maggiore sarà la nostra partecipazione, non al rito ma alla realtà che il rito significa.
Quando l'altro diventa significativo per me, il mio incontro e il mio ricordo diventano disponibilità all'accoglienza e al dono. L'incontro diventa, attraverso il ricordo, uno scambio di doni. Non importa ciò che io prendo, ma lo scambio dei ricordi e della comunione.
Che cosa abbiamo da scambiare con Dio? Abbiamo una cosa sola: Gesù Cristo, nostro fratello e Figlio di Dio. Non abbiamo altro. Questa è la nostra offerta: riconoscere che la nostra storia è comune alla storia di Cristo; offrire al Padre questa nostra storia è il nostro essere "Corpo di Cristo", è ciò che noi offriamo ed è ciò che noi riceviamo da Dio, perché noi siamo Corpo di Cristo soltanto se Iddio ci dona il suo Spirito e noi siamo pronti a riceverlo per accoglierlo.

Il pane e il vino che noi presentiamo, sono il segno dell'Alleanza che Dio ha stabilito con noi in Cristo Gesù, nostro Signore; un segno che ha l'efficacia della memoria e che provoca davvero quello che significa: la fede, che è il movimento che unisce noi a Dio. Fede che non è un sentimento, fede che è dono di Dio e legame, vincolo che ci unisce a lui.

Nella Messa entriamo in questa dimensione: il problema è che non ci si pensa e che l'inflazione delle messe non permette di rifletterci sopra. Sarebbe la stessa che uno pretendesse di far diventare il suo matrimonio come i primi tre giorni di luna di miele!

Le esperienze "forti" sono tali perché contrapposte a esperienze "deboli". Ci deve essere il momento dell'esperienza forte e ci deve anche essere il momento della caduta di tensione.
Il Concilio dice che la Messa e "culmine fonte" di tutta l'esperienza: è il punto di partenza e il punto d'arrivo, ma nel mezzo deve esserci altro. Non può essere tutto punto di partenza, tutto punto di arrivo. Ci deve pur essere anche il percorso.

 

CONTINUA...   

 

 

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