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«Tante genti sono passate su queste terre, che
qualcosa si trova davvero, e dappertutto, scavando con larato antichi vasi,
statuette e monete escono al sole, sotto la vanga, da qualche antica tomba. Anche don
Luigino ne possedeva, trovati in un suo campo, verso il Sauro: monete corrose, che non
potei stabilire se fossero greche o romane, e alcuni vasetti neri, non figurati, di forme
elegantissime. Ma, per i contadini, queste non sono che briciole degli immensi tesori celati nelle viscere della terra. Per loro i fianchi dei monti, il fondo delle grotte, il fitto delle foreste sono pieni di oro lucente, che aspetta il fortunato scopritore. Soltanto, la ricerca dei tesori non va senza pericoli perché è opera diabolica, e si toccano delle potenze e spaventose. E' inutile frugare a caso la terra: i tesori non compaiono che a colui che deve trovarli. E per sapere dove sono, non ci sono che le ispirazioni dei sogni, se non si ha avuto la fortuna di essere guidati da uno degli spiriti della terra che li custodiscono, da un monachicchio. Il tesoro appare in sogno, al contadino addormentato in tutto il suo sfolgorfo. Lo si vede, una catasta doro, e vede il luogo preciso, là nel bosco, vicino a quellalbero dilice con quel segno sul tronco, sotto quella gran pietra quadrata. Non cè che andare e prenderlo. Ma bisogna andare di notte: di giorno il tesoro sfumerebbe. Bisogna andarci soli, e non confidarsi con anima viva: se sfugge una sola parola, il tesoro si perde. I pericoli sono spaventosi, nel bosco si aggirano gli spiriti dei morti: ben pochi animi sono cosi arditi da mettersi al cimento, e da portarlo, senza vacillare, a buon fine. Un contadino di Gagliano (n.d.r. Aliano), che abitava non lontano da casa mia, aveva visto in sogno un tesoro. Era nella foresta di Accettura, poco sotto Stigliano. Si fece coraggio e partì nella notte: ma quando fu circondato dagli spiriti, nellombra nera, il cuore gli tremò nel petto. Vide fra gli alberi un lume lontano: era un carbonaio, un uomo senza paura, come tutti i carbonai, e calabrese: passava la notte nel bosco vicino alle sue fosse da carbone. La tentazione, per il povero contadino atterrito, fu troppo forte: egli non poté fare a meno di raccontare al carbonaio il suo sogno, e di pregarlo di assisterlo nella ricerca. Si misero dunque insieme a cercare la pietra vista in sogno, il contadino un po rinfrancato dalla compagnia, e il calabrese pieno di coraggio, e armato della sua roncola. Trovarono la pietra: tutto era esattamente come in sogno. Per fortuna erano in due: il masso era pesantissimo, e a fatica potevano smuoverlo. Quando furono riusciti ad alzarlo, apparve una grossa buca nella terra: il contadino si affacciò, e vide nel fondo luccicare loro, una straordinaria quantità di oro. Le pietruzze smosse del terreno battevano cadendo sulle monete, con un suono metallico che riempiva di delizia il suo cuore. Si trattava ora di calarsi nella fossa profonda e di prendere il tesoro, ma qui al contadino mancò di nuovo il coraggio, e disse al suo compagno di scendere e di porgergli il denaro, che lui, di sopra, avrebbe messo nel suo sacco: poi lavrebbero spartito. Il carbonaio, che non temeva né diavoli né spiriti, scese nella fossa: ma ecco, tutto quel giallo lucente si era fatto nero ed opaco, tutto loro, dun tratto, sera mutato in carbone. È molto più facile e meno delusivo che non seguendo le indicazioni dei sogni, trovare un tesoro quando si riesce a farsene insegnare il nascondiglio, e a farcisi accompagnare da uno dei piccoli esseri che conoscono i segreti della terra. I monachicchi sono gli spiriti dei bambini morti senza battesimo: ce ne sono moltissimi qui, dove i contadini tardano spesso molti anni a battezzare i propri figli. Quando mi chiamavano a curare qualche ragazzo, magari di dieci o dodici anni, la prima domanda della madre era: - Cè pericolo che muoia? Perché allora chiamerò subito il prete per battezzarlo. Non sè ancora fatto, finora: ma se dovesse morire, non sia mai -. I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti daria e fanùo volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, dànno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre laspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inaflerrabii. Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro: e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non labbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercare di aflerrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lagrime, scongiurandoti di restituirglielo. Ora, i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che cè sotterra, sanno il luogo nascosto dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentarlo fino a che non ti abbia accompagnato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà, ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e folli salti di gioia, e non manterrà la sua promessa. Questa specie di gnomi o di folletti si vedono frequentemente, ma acchiapparli è difficilissimo. La Giulia ne aveva visti, e la sua amica la Parroccola anche, e molti contadini di Gagliano: ma nessuno di loro aveva potuto afferrare il cappuccio, e obbligare il monachicchio ad accompagnarli al tesoro», brano tratto da Carlo Levi, CRISTO SI È FERMATO A EBOLI, ed. Einaudi, Torino, 1990, pp.128-132. |
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