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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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« A Grassano c’era un giovanotto sui vent’anni, un manovale robusto, Carmelo Coiro, dalla faccia quadrata e bruciata dal sole, che veniva spesso, la sera, a bere un bicchiere di vino all’albergo di Prisco. Faceva l’operaio, lavorava a giornata nei campi, o nei lavori stradali: ma la sua passione, il suo ideale sarebbe stato di fare il corridore ciclista. Aveva letto delle imprese di Binda e Guerra, la sua fantasia s’era accesa, e, su una sua vecchia bicicletta sgangherata, passava tutte le ore libere, e le domeniche, a correre, per allenarsi sulle tremende salite e sulle giravolte delle strade attorno al paese: si spingeva talvolta, nella polvere e nel caldo, fino a Matera, o fino a Potenza, e davvero non gli mancava né la forza, né la pazienza, né il fiato. Voleva andare nel nord in bicicletta, e diventare corridore. Quando gli dissi che se si fosse deciso avrei potuto indirizzarlo a un mio conoscente, giornalista sportivo, amico personale e biografo del grande Alfredo Binda, Carmelo credette di aver raggiunto il colmo della felicità: e lo vedevo sempre ricomparire, col viso pieno di speranza, nella cucina di Prisco.
In quei giorni, Carmelo lavorava, con una squadra di operai, a riattare la strada che porta ad Irsina, lungo il Bilioso, un torrentaccio malarico che corre fra le pietre per buttarsi più lontano dopo Grottole, nel Basento. I badilanti usavano, nelle ore del maggior caldo, quando era impossibile lavorare, ritirarsi a dormire in una grotta naturale, una delle molte che bucano, in quel vallone, tutto il terreno, e che erano state, un tempo, il rifugio preferito dei briganti. Ma nella grotta c’era un monachicchio: lo spiritello bizzarro cominciò a fare i suoi dispettucci a Carmelo e ai suoi compagni: appena si erano appisolati, mezzi morti di fatica e di caldo, li tirava pd naso, li solleticava con delle pagliuzze, buttava dei sassi, li spruzzava con dell’acqua fredda, nascondeva le loro giacche o le loro scarpe, non li lasciava dormire, fischiava, saltellava dappertutto: era un tormento. Gli operai lo vedevano comparire fulmineo qua e là per la grotta, col suo grande cappuccio rosso, e cercavano in tutti i modi di prenderlo: ma quello era più svelto di un gatto e più furbo di una volpe: si persuasero presto che rubargli il cappuccio era cosa impossibile. Decisero allora, per poter in qualche modo difendersi dai suoi giochi fastidiosi, e prendere un po’ di riposo, e lasciare a turno uno di loro di sentinella mentre gli altri dormivano, con l’incarico di tenere almeno lontano il monachicchio, se la fortuna non consentiva di afferrarlo. Tutto fu inutile: quell’inafferrabile folletto continuava i suoi dispetti come prima, ridendo allegramente della rabbia impotente degli operai. Disperati, essi ricorsero allora all’ingegnere che dirigeva i lavori: era un signore istruito, e forse sarebbe riuscito meglio di loro a domare il monachicchio scatenato. L’ingegnere venne, accompagnato dal suo assistente, un capomastro: tutti e due armati col fucile da caccia a due canne. Al loro arrivo il monachicchio si mise a fare sberleffi e risate, dal fondo della grotta, dove tutti lo vedevano benissimo, e saltava come un capretto. L’ingegnere imbracciò il fucile, che aveva caricato a palla, e lasciò partire un colpo. La palla colpì il monachicchio, e rimbalzò indietro verso quello che l’aveva tirata, e gli sfiorò il capo con un fischio pauroso, mentre lo spiritello saltava sempre più in alto, in preda a una folle gioia. L’ingegnere non tirò il secondo colpo: ma si lasciò cadere il fucile di mano: e lui, il capomastro, gli operai e Carmelo, senza aspettar altro, fuggirono terrorizzati. Da allora quei manovali si riposano all’aperto, sotto il sole, coprendosi il viso col cappello: anche tutte le altre grotte dei briganti, in quei dintorni di Irsina, erano piene di monachicchi, ed essi non osarono più metterci piede.

Carmelo, del resto, con quella sua aria atletica e ostinata, non era nuovo a questi strani incontri. Qualche mese prima, mi raccontò, egli tornava, a notte fatta, dal Bilioso verso casa sua, su in paese. Era con lui suo zio, sergente della guardia di finanza. Anch’io l’avevo conosciuto, questo buon sottufficiale, quand’era venuto in licenza.
Zio e nipote dunque risalivano la valle, lungo il sentiero ripido, dove io andavo spesso, in quei giorni, a passeggiare e a dipingere. Era una sera d’inverno, faceva freddo, il cielo era coperto di nuvole e il buio era completo. Erano stati a pescare nel Bilioso, lontano, sotto Irsina, si erano attardati, e la notte li aveva colti. Ma lo zio aveva con sé la sua pistola automatica, una Mauser a ventiquattro colpi, e perciò camminavano tranquilli, senza paura di cattivi incontri. Quando furono a mezza salita, dove ci sono quelle due querce, vicino a una casa colonica, videro farsi loro incontro, in mezzo al sentiero, un grosso cane. Lo riconobbero: era il cane di un contadino loro amico, che abitava appunto li, nella masseria. Il cane abbaiava minaccioso, non voleva lasciarli passare. Lo chiamarono per nome, cercarono di blandirlo, poi di minacciarlo: non c’era verso: quella bestia sembrava arrabbiata, e si avventava con la bocca aperta per morderli.
I due se la videro brutta; e poiché non c’era altro mezzo di salvarsi, lo zio tirò fuori la sua arma, e lasciò partire tutta la scarica dei suoi ventiquattro colpi. Il cane, ad ogni colpo, apriva smisuratamente la sua gran bocca rossa, ingoiava le palle, ad una ad una, come fossero pagnotte, e ad ogni colpo cresceva di grandezza, gonfiava, diventava enorme e sempre più si faceva loro addosso furioso. I due si sentirono perduti: ma in quel momento si ricordarono di san Rocco e della Madonna di Viggiano; e, chiamandoli in soccorso, fecero un gran segno di croce. Il cane, che era ormai gigantesco, grande come una casa, si fermò di colpo: le ventiquattro palle, nel suo stomaco, esplosero ad una ad una, con fragore spaventoso, finché la bestia scoppiò come una bolla di sapone e si dileguò per l’aria. Il sentiero era libero, e zio e nipote arrivarono presto a casa della madre di Carmelo.
La vecchia era una strega, e le avveniva spesso di conversare con le anime dei morti, di incontrare monachicchi, e di intrattenersi con dei veri diavoli, nel cimitero. Era una contadina magra, pulita, e di buon umore.

L’aria, su queste terre deserte, e fra queste capanne, è tutta piena di spiriti. Ma non sono tutti maligni e bizzarri come i monachicchi, né malvagi come i demoni. Ci sono anche degli spiriti buoni e protettori, degli angeli.

Una sera, sull’imbrunire, verso la fine d’ottobre, venne da me un contadino per farsi rinnovare la medicatura di un ascesso. Io buttai in terra, nel mio studio, le bende e il cotone sporchi, e chiamai la Giulia perché li scopasse via. La Giulia aveva, in questo, l’abitudine gaglianese, di buttare le spazzature, attraverso la porta, in mezzo alla strada. Tutti fanno così, e ci pensano poi i maiali a far pulizia.
Ma quella sera mi avvidi che la donna radunava quei rifiuti in un mucchietto, e lo lasciava in casa, vicino all’uscio. Le chiesi perché li conservasse: non era certo uno scrupolo igienico. - È già calata la sera, - mi rispose Giulia, - non posso buttarli. L’angelo, non sia mai, si sdegnerebbe -.

E mi spiegò, stupita che non lo sapessi: Al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli. Uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola, e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono. Né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare, per tutta la notte.
Se io buttassi le spazzature attraverso la porta, potrei buttarle sul viso dell’angelo, che non si vede; e l’angelo si offenderebbe, e non tornerebbe mai più. Le porterò via domattina, dopo che l’angelo sarà partito, al sorger del sole»,   brano tratto da Carlo Levi,  CRISTO SI È FERMATO A EBOLI, ed. Einaudi, Torino, 1990, pp.132-134

 

 

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Tesori, spiriti e briganti

 

 

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