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« A Grassano cera un giovanotto
sui ventanni, un manovale robusto, Carmelo Coiro, dalla faccia
quadrata e bruciata dal sole, che veniva spesso, la sera, a bere un bicchiere di vino
allalbergo di Prisco. Faceva loperaio, lavorava a giornata nei campi, o nei
lavori stradali: ma la sua passione, il suo ideale sarebbe stato di fare il corridore
ciclista. Aveva letto delle imprese di Binda e Guerra, la sua fantasia sera accesa,
e, su una sua vecchia bicicletta sgangherata, passava tutte le ore libere, e le domeniche,
a correre, per allenarsi sulle tremende salite e sulle giravolte delle strade attorno al
paese: si spingeva talvolta, nella polvere e nel caldo, fino a Matera, o fino a Potenza, e
davvero non gli mancava né la forza, né la pazienza, né il fiato. Voleva andare nel
nord in bicicletta, e diventare corridore. Quando gli dissi che se si fosse deciso avrei
potuto indirizzarlo a un mio conoscente, giornalista sportivo, amico personale e biografo
del grande Alfredo Binda, Carmelo credette di aver raggiunto il colmo della felicità: e
lo vedevo sempre ricomparire, col viso pieno di speranza, nella cucina di Prisco.
In quei giorni, Carmelo lavorava, con una squadra di operai, a riattare la
strada che porta ad Irsina, lungo il Bilioso, un torrentaccio malarico
che corre fra le pietre per buttarsi più lontano dopo Grottole, nel Basento.
I badilanti usavano, nelle ore del maggior caldo, quando era impossibile lavorare,
ritirarsi a dormire in una grotta naturale, una delle molte che bucano, in quel vallone,
tutto il terreno, e che erano state, un tempo, il rifugio preferito dei briganti. Ma nella
grotta cera un monachicchio: lo spiritello bizzarro cominciò a
fare i suoi dispettucci a Carmelo e ai suoi compagni: appena si erano appisolati, mezzi
morti di fatica e di caldo, li tirava pd naso, li solleticava con delle pagliuzze, buttava
dei sassi, li spruzzava con dellacqua fredda, nascondeva le loro giacche o le loro
scarpe, non li lasciava dormire, fischiava, saltellava dappertutto: era un tormento. Gli
operai lo vedevano comparire fulmineo qua e là per la grotta, col suo grande cappuccio
rosso, e cercavano in tutti i modi di prenderlo: ma quello era più svelto di un gatto e
più furbo di una volpe: si persuasero presto che rubargli il cappuccio era cosa
impossibile. Decisero allora, per poter in qualche modo difendersi dai suoi giochi
fastidiosi, e prendere un po di riposo, e lasciare a turno uno di loro di sentinella
mentre gli altri dormivano, con lincarico di tenere almeno lontano il monachicchio,
se la fortuna non consentiva di afferrarlo. Tutto fu inutile: quellinafferrabile
folletto continuava i suoi dispetti come prima, ridendo allegramente della rabbia
impotente degli operai. Disperati, essi ricorsero allora allingegnere che dirigeva i
lavori: era un signore istruito, e forse sarebbe riuscito meglio di loro a domare il
monachicchio scatenato. Lingegnere venne, accompagnato dal suo assistente, un
capomastro: tutti e due armati col fucile da caccia a due canne. Al loro arrivo il
monachicchio si mise a fare sberleffi e risate, dal fondo della grotta, dove tutti lo
vedevano benissimo, e saltava come un capretto. Lingegnere imbracciò il fucile, che
aveva caricato a palla, e lasciò partire un colpo. La palla colpì il monachicchio, e
rimbalzò indietro verso quello che laveva tirata, e gli sfiorò il capo con un
fischio pauroso, mentre lo spiritello saltava sempre più in alto, in preda a una folle
gioia. Lingegnere non tirò il secondo colpo: ma si lasciò cadere il fucile di
mano: e lui, il capomastro, gli operai e Carmelo, senza aspettar altro, fuggirono
terrorizzati. Da allora quei manovali si riposano allaperto, sotto il sole,
coprendosi il viso col cappello: anche tutte le altre grotte dei briganti, in quei
dintorni di Irsina, erano piene di monachicchi, ed essi non osarono più
metterci piede.
Carmelo, del resto, con quella sua aria atletica e
ostinata, non era nuovo a questi strani incontri. Qualche mese prima, mi raccontò, egli
tornava, a notte fatta, dal Bilioso verso casa sua, su in paese. Era con lui suo zio,
sergente della guardia di finanza. Anchio lavevo conosciuto, questo buon
sottufficiale, quandera venuto in licenza.
Zio e nipote dunque risalivano la valle, lungo il sentiero ripido, dove io
andavo spesso, in quei giorni, a passeggiare e a dipingere. Era una sera dinverno,
faceva freddo, il cielo era coperto di nuvole e il buio era completo. Erano stati a
pescare nel Bilioso, lontano, sotto Irsina, si erano attardati, e la notte li aveva colti.
Ma lo zio aveva con sé la sua pistola automatica, una Mauser a ventiquattro colpi, e
perciò camminavano tranquilli, senza paura di cattivi incontri. Quando furono a mezza
salita, dove ci sono quelle due querce, vicino a una casa colonica, videro farsi loro
incontro, in mezzo al sentiero, un grosso cane. Lo riconobbero: era il cane
di un contadino loro amico, che abitava appunto li, nella masseria. Il cane abbaiava
minaccioso, non voleva lasciarli passare. Lo chiamarono per nome, cercarono di blandirlo,
poi di minacciarlo: non cera verso: quella bestia sembrava arrabbiata, e si
avventava con la bocca aperta per morderli.
I due se la videro brutta; e poiché non cera altro mezzo di salvarsi,
lo zio tirò fuori la sua arma, e lasciò partire tutta la scarica dei suoi ventiquattro
colpi. Il cane, ad ogni colpo, apriva smisuratamente la sua gran bocca rossa, ingoiava le
palle, ad una ad una, come fossero pagnotte, e ad ogni colpo cresceva di grandezza,
gonfiava, diventava enorme e sempre più si faceva loro addosso furioso. I due si
sentirono perduti: ma in quel momento si ricordarono di san Rocco e della Madonna di
Viggiano; e, chiamandoli in soccorso, fecero un gran segno di croce. Il cane, che era
ormai gigantesco, grande come una casa, si fermò di colpo: le ventiquattro palle, nel suo
stomaco, esplosero ad una ad una, con fragore spaventoso, finché la bestia scoppiò come
una bolla di sapone e si dileguò per laria. Il sentiero era libero, e zio e nipote
arrivarono presto a casa della madre di Carmelo.
La vecchia era una strega, e le avveniva spesso di conversare
con le anime dei morti, di incontrare monachicchi, e di
intrattenersi con dei veri diavoli, nel cimitero. Era una contadina
magra, pulita, e di buon umore.
Laria, su queste terre deserte, e fra queste
capanne, è tutta piena di spiriti. Ma non sono tutti maligni e bizzarri
come i monachicchi, né malvagi come i demoni. Ci sono
anche degli spiriti buoni e protettori, degli angeli.
Una sera, sullimbrunire, verso la fine
dottobre, venne da me un contadino per farsi rinnovare la medicatura di un ascesso.
Io buttai in terra, nel mio studio, le bende e il cotone sporchi, e chiamai la Giulia
perché li scopasse via. La Giulia aveva, in questo, labitudine gaglianese, di
buttare le spazzature, attraverso la porta, in mezzo alla strada. Tutti fanno così, e ci
pensano poi i maiali a far pulizia.
Ma quella sera mi avvidi che la donna radunava quei rifiuti in un mucchietto,
e lo lasciava in casa, vicino alluscio. Le chiesi perché li conservasse: non era
certo uno scrupolo igienico. - È già calata la sera, - mi rispose Giulia, - non
posso buttarli. Langelo, non sia mai, si sdegnerebbe -.
E mi spiegò, stupita che non lo sapessi: Al
crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli. Uno si mette
sulla porta, uno viene alla tavola, e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la
difendono. Né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare, per tutta la notte.
Se io buttassi le spazzature attraverso la porta, potrei buttarle sul viso
dellangelo, che non si vede; e langelo si offenderebbe, e non tornerebbe mai
più. Le porterò via domattina, dopo che langelo sarà partito, al sorger del
sole», brano tratto da Carlo Levi, CRISTO SI È FERMATO A
EBOLI, ed. Einaudi, Torino, 1990, pp.132-134 |
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