Due
sonetti dell'Autobiografia
I quindici sonetti dell'Autobiografia uscirono
nel 1923 su un numero della rivista Primo tempo» -
fra i cui redattori c'era Giacomo Debenedetti, che
da allora avviò col poeta un profondo rapporto di
amicizia -, e poi, nel 1926, furono inclusi
assieme ad altre liriche nella raccolta Figure e
canti.
In questi sonetti Saba ripercorre dall'infanzia le
tappe essenziali della sua vita, ricorda
l'esperienza del servizío militare, i contatti,
difficili, con gli intellettuali della «Voce»,
l'amore per Lina («e fu
di Lina / dal rosso scialle il più della mia
vita») e per Trieste («Trieste è la città, la
donna è Lina») e conclude con la
descrizione del suo giornaliero lavoro («Una
strana bottega d'antiquario / s'apre, a Trieste,
in una via secreta [...] / Vive in quell'aria
tranquillo un poeta»).
Quando nacque mia madre... - Mio padre è stato per
me...
È posto in questi due sonetti il dato
fondamentale a cui sono da ricondurre tanti
aspetti della personalità (e della poesia) di
Saba: il suo rapporto conflittuale con i genitori,
o meglio le conseguenze che il comportamento della
madre («che il dolore struggeva») e l'assenza del
padre hanno avuto per lui.
Nel 1929 Saba si sottoporrà ad un trattamento
psicanalitico. In una lettera del 13 settembre
1929 a Giacomo Debenedetti lo scrittore informa
l'amico di aver «avuto una crisi nervosa che per
la sua intensità non aveva nulla a che fare con le
precedenti già tanto gravi», e di aver quindi
iniziato l'analisi col dottor Weiss; e aggiunge:
«Un mondo nuovo apparve davanti al mio spirito
[...]. Devi sapere che alla radice della mia
malattia stava la mancanza del padre: ma come, in
qual senso e con quali conseguenze è cosa
incredibile e vera».
AI di là comunque dei complessi problemi che
la personalità di Saba solleva, va sottolineato
che in questi due sonetti è posto con chiarezza un
tema che ritornerà più volte nel Canzoniere: la
compresenza di «voci discordi» che Saba avverte
nel suo intimo, quella «leggera», disponibile alla
vita, «gaia», che costituisce l'eredità paterna, e
quella severa, «austera», della madre,
responsabile della sua educazione, da lui sentita
come limitante e costrittiva. La progressiva
liberazione da questo Super-Ego introiettato
attraverso la madre - che, non si dimentichi, era
ebrea - negli anni ha provocato in Saba un
accentuato distacco dal mondo e dalla cultura
ebraica - una presenza notevolissima nella vita
triestina - che si è espresso talvolta in modi
alquanto discutibili. Su questa problematica si
possono leggere le testimonianze e le osservazioni
di Giorgio Voghera, protagonista e acuto studioso
di cose triestine, in Anni di Trieste,
(soprattutto il cap. «L'antisemitismo nevrotico di
Umberto Saba»). |