«Esser
uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa»:
in questi versi di Saba si potrebbe sintetizzare
lo spirito che anima questa lirica che va
considerata come un'esemplare realizzazione di una
costante di Saba, dell'aspirazione cioè ad
immettere la sua dentro la calda vita di tutti; ad
essere come tutti gli uomini di tutti i giorni.
Qui la cordiale rappresentazione di un angolo
popolare di Trieste non scade mai nel populismo -
è il pericolo quasi connaturato a simili temi -
perché il poeta non si china paternalisticamente
su quel mondo, non discende da un olimpo
letterario su di esso, ma ci vive dentro («il
popolo in cui muoio, onde son nato», dirà
altrove), lo sente come un mondo popolato da
creature simili a lui; nelle quali come in lui «si
agita il Signore». Dichiara lo stesso Saba che «la
folla rigurgitante nei vicoli e vicoletti della
città vecchia gli ispira pensieri di (non sapremmo
come altrimenti chiamarla) religiosa adesione».
Le osservazioni del Beccaria sono pertinenti anche
per questo testo, nel quale è contenuta
implicitamente - ci sembra - la motivazione etica
dalla quale nasce la scelta di un particolare
linguaggio. A parte questo, ci sembra utile,
perché con più evidenza risulti la novità o meglio
la singolarità di Saba, ricordare che questa
lirica fu scritta attorno al 1910, quando cioè nel
panorama italiano dominavano da un lato
l'estetismo dannunziano (I'Alcyone è del 1904) che
si concretava in una lingua poetica di sofisticata
letterarietà, dall'altro le velleità di tabula
rasa dei futuristi o l'accostamento al quotidiano
operato da Gozzano (i Colloqui sono del 1911) ma
con disposizione ironica, con incapacità di
aderire a quel mondo del quale egli non può fare a
meno di sottolineare il «pessimo gusto». In questo
panorama Saba era effettivamente «di un'altra
specie», come con lucida consapevolezza egli
stesso scrisse (Autobiografia).
Sulla funzione della rima in questa lirica
riportiamo alcune osservazioni di G. Bàrberi
Squarotti:
Parrebbe qui trattarsi della materia di un
violento, quasi espressionistico, realismo: e di
questo aspro realismo ci sono tutti gli elementi
consacrati, tradizionali: femmine, dragoni,
vecchi, bestemmie, marina, prostitute. E tuttavia
questa materia si compone in linee di severa, e
pur viva e limpida, poesia morale: si osservi come
la rima accortamente manovrata non soltanto tenga
il posto del legame logico necessario per
giustificare il passaggio, in una sintassi
veramente tradizionale, dalla visione realistica
alla meditazione largamente umana che la conclude;
ma come ugualmente attraverso la rima la parola
realistica perda di peso, di violenza, direi di
carnalità e di corposità, si allarghi
immediatamente su una prospettiva di analogie
morali di esperienze dell'anima espresse
attraverso segni sensibili. Si veda infatti il
gioco delle rime: lupanare - mare; detrito -
infinito; va - umiltà; friggitore - amore - dolore
- Signore; impazzita - vita; compagnia - via;
sempre l'avvicinarsi nella rima della parola
espressionistica della parola carica di sostanza
meditativa libera la prima da ogni nota
manieristica e da ogni peso di tradizionale
realismo, e la seconda da una sua troppo arida e
disseccata razionalità. In questo modo la parola
realistica si apre ad accogliere in sé l'eco
analogica, l'intervento, anzi, di un ordinamento
meditativo, subisce così, attraverso questo suo
allargarsi e aprirsi, proprio quella violenza
metafisica di cui si è tanto parlato in rapporto
col linguaggio della poesia del novecento; e lo
stesso avviene pure per la parola morale e
meditativa, anch'essa sollevata da una ferma
logicità a una mossa e inquieta atmosfera
analogica. Altri esempi è ugualmente facile
trovare: già, ad esempio, in La Capra, di Casa e
campagna (1909-1910: le date, come si vede, sono
molto significative). Anche qui la sintassi
semplicissima, a brevi proposizioni descrittive e
meditative, che è caratteristica dello stile di
Saba, assume un'apertura fantastica intensissima,
si carica di sottili rapporti analogici attraverso
i quali la semplice linearità, anzi la quasi
banale occasione descrittiva (la capra), raggiunge
la plausibilità assoluta di simbolo lirico della
condizione umana di dolore e di pianto:
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentivo querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita. |
Ancora si tratta di una situazione
estremamente semplice, realistica fino a sfiorare
il rischio, d'altra parte sempre presente,
sottinteso, in tutta la poesia di Saba, di
un'evidenza troppo umile e comune. Eppure si veda
come da questa situazione, da questi dati
realistici: la capra che bela, sazia d'erba e
bagnata, Saba sappia svolgere la sua intensissima
trasfigurazione del particolare descrittivo in
simbolo universale operando un'azione sulla parola
che gli è caratteristica: allargando, cioè, i
semplicissimi e lineari termini della sua sintassi
in una serie di rapporti intimi determinati e
rivelati dalla posizione e dalla funzione della
rima, che, ad esempio, dà una risonanza amplissima
a immagini come quella, chiave, «in una capra dal
viso semita», in cui ogni peso e residuo
descrittivo è veramente bruciato e trasfigurato
dal rapporto che la rima istituisce con l'altra
parola tematica di Saba: «vita». Lo stesso si può
dire in una minuta analisi per tutti gli altri
elementi e le altre immagini del componimento,
come per i nessi simbolici istituiti fra i dati
realistici: solitaria - varia; eterno - fraterno;
di qui, da questi sottili, leggerissimi eppur vivi
e vitali rapporti, tutto il componimento assume
quel persuasivo tono di equilibrio fra dato e
valore simbolico, per cui ogni elemento
realistico, ogni linea descrittiva appare
intensamente giustificata dal significato morale e
umano che viene ad accogliere e a esprimere:
insomma, così si attua la perfetta trasfigurazione
di un episodio georgico in un simbolo della
condizione universale di dolore immanente negli
uomini come nella natura. |