Composti negli anni 1928-29, Preludio e fughe si
presentano come un'opera che pur articolandosi in
vari componimenti - un preludio, dodici fughe a
due voci (tranne la sesta a tre) e due congedi - è
dominata da una solida unità tematica. Chiarisce
lo stesso autore: «Le Fughe sono voci che si
parlano fra di loro, si inseguono per dirsi cose
ora contrastanti ed ora concordanti. Ma i 'loro
contrasti - come la vita colle sue lotte, a chi
potesse guardarla da sufficiente altezza,
apparirebbe univoca - sono solo apparenti. Le voci
sono, in realtà, la voce di Saba; l'espressione -
diventata poesia - del sì e del no che egli disse
alla vita, alla "calda vita", amata ed odiata al
tempo stesso e dalla stessa persona. Una voce
lieta ed una malinconica, una, di fronte alla
vita, "ottimista" e l'altra "pessimista", si
scambiano, per così dire, le parti; penetrano una
nell'altra». Deriva alla raccolta, da questa
originale struttura, una complessa architettura
musicale (il richiamo a Bach, è ovvio, ed è lo
stesso Saba a suggerirlo): all'inizio di ogni
componimento le due voci enunciano le rispettive
posizioni, quasi contrastanti temi musicali;
subito dopo, il componimento si snoda in una
specie di contrappunto che riprende e sviluppa il
contrasto iniziale e all'interno della stessa
lirica e da una lirica all'altra lo avvia a
soluzione, verso il superamento, «sì che le
collisioni interne e quelle tra il poeta e la
realtà vengano superate in una serena catarsi» (Muscetta).
Riportiamo il Preludio, che chiarisce
poeticamente la genesi e la struttura della
raccolta; e la Prima fuga, in cui lo scontro fra
tristezza e fiduciosa adesione alla vita trova
accenti indimenticabili.
La Fuga dà una certa idea delle modalità
poetiche di Preludio e fughe, ma ovviamente
incompleta. Con una certa approssimazione si può
dire che nelle dodici fughe da cui quest'opera è
costituita, all'immediata materia sentimentale, al
dramma contingente che costituivano i presupposti
della produzione precedente di Saba si sostituisce
una tendenza alla "generalizzazione
dell'esperienza", vale a dire una vocazione
riflessiva volta a individuare e cantare la legge
di fondo del destino umano, l'eterna dialettica
tra realizzazioni e sconfitte, tra pienezza e
scacco del vivere. In queste liriche quindi Saba
va oltre i confini della propria individualità. (o
per lo meno - volendo correggere la categoricità
di questa asserzione - supera questi confini in
maniera più decisa di prima). D'altra parte egli è
il poeta che ha scritto « È bella la nostra
solitudine. Ma pure /sento in essa echeggiar le
altrui sventure / più grandi». Ed ecco allora che
egli ascolta sì le due voci, esprime l'alternarsi
di esaltazioni e cadute, di fiducie e disperazioni
che occupa il suo animo, ma nella sua vicenda
riesce pure a riconoscere quella degli altri, di
tutto un popolo. (Si ricordi che, definendo la sua
poesia in un verso di Mediterranee, Saba scriveva:
«Pianse e capì per tutti / era il tuo motto».) Si
realizza cioè un passaggio dal piano esistenziale
a quello storico: e la sua voce diventa ora
tragico compianto per il destino di un popolo già
preda della dittatura, ora giudizio etico e
storico sui perseguitati e i persecutori («Amo
sol chi in ceppi avvinto / nell'orror di una
segreta / può aver l'anima più lieta / di chi a
sangue lo percuote», dirà nella Sesta
fuga). |