Saba descrive con commossa partecipazione una
rappresentazione popolare alla quale, nel clima
della riconquistata libertà, assistette a Firenze,
dopo che i nazisti erano stati costretti ad
abbandonare la città (settembre 1944).
Ha scritto su questa lirica Carlo Muscetta: «La
grazia di questa lirica, che è tra le pochissime
poesie degne di sopravvivere a tanta retorica
della liberazione europea, è nell'alone di
tristezza che accompagna il momento della
vittoria: tutte le tristezze e le rovine che fanno
l'amaro valore di quella gioia e sembrano come
presagire immancabili amarezze future. Ottimismo
della fantasia nella rappresentazione, pessimismo
dell'intelligenza storica nell'alta coscienza
dello scrittore».
Si rifletta, per cogliere tale «alone di
tristezza», sulla pregnante polivalenza di «timido
ancora» (v. 8); sulla facile battuta del Prologo (vv.
9-10) e sul riso della povera platea, delle donne
e dei fanciulli (dati, questi, che il poeta
registra con affettuosa simpatia); sulla
suggestione del v. 16, «si scalda a lui come chi
ha freddo al sole»; sull'intensità della
conclusione, «e Firenze/ taceva, assorta nelle sue
rovine».
Ha scritto su questa lirica Umberto Saba, in
Storia e cronistoria del Canzoniere:
"Teatro degli Artigianelli", un duro macigno che
il tempo ci metterà a scalfire, passò per essere
una poesia volutamente comunista. Lo è per
l'"ambiente" e per il verso iniziale:
Falce
martello e la stella d'Italia
emblema che il poeta vide per la prima volta,
in luogo dei fasci e della croce uncinata, sulle
bianche nude pareti della povera sala. In realtà
Saba si commosse assistendo, dopo la lunga
orribile prigionia, ad una rappresentazione
popolare, dentro la cornice di uno di quei
teatrini suburbani sempre cari alla sua Musa,
amante degli umili, «del popolo in cui muoio, onde
son nato». Questa volta la sua commozione,
favorita da tante circostanze, arrivò (come in
"Cucina economica"), per scale già scavate nella
sua anima, fino al pianto e al canto.
(A proposito del verso citato «Falce martello
ecc.», diremo che quando Saba lo lesse per la
prima volta ad un suo amico - il pittore Carlo
Levi - questi lo avvisò che era incorso in un
errore. La stella a cinque punte dipinta accanto
alla falce e al martello non era, allora, la
stella d'Italia, ma quella dei Sovietici, che è
pure a cinque punte. Saba rimase male. Lo aveva
commosso il fatto che, contrariamente a quanto
accadeva al tempo della sua giovinezza, quando i
socialisti [i comunisti allora non esistevano]
negavano, o quasi, il concetto di patria, essi ne
riconoscessero adesso l'insopprimibile realtà nel
cuore dell'uomo. Rimase male, ma non modificò il
verso. Quando poi il P.C.I. inserì nel suo emblema
la stella d'Italia, il verso di Saba risultò, a
posteriori, esatto; ebbe cioè tutto il significato
che gli aveva dato il poeta quando lo scrisse.)
"Teatro degli Artigianelli" è di nuovo -
direbbe un nemico di Saba - una poesia prosastica.
È invece una poesia "epica", in quanto dipinge un
ambiente e narra fatti che in quell'ambiente
accadono; è lirica per l'intensità colla quale il
poeta canta, attraverso la propria dolorosa
esperienza e sensibilità, la felicità amara di
quelle prime giornate di libertà. [...] È un
ritorno alla maniera giovanile di Saba, passata
attraverso Parole ed Ultime Cose. Tutta la poesia
è una delle sue costruzioni più solide. Le cose
diventano spontaneamente parole, le parole
concorrono, come per forza propria, a formare il
verso, ed i versi la strofa [...].
Benché, scrivendo "Avevo" e "Teatro degli
Artigianelli", Saba non si proponesse, com'è
naturale, altra cosa che scrivere delle poesie,
esse rimangono, l'una e l'altra, come
l'espressione sintetica di un momento storico. Gli
italiani che leggono possono, nella loro
maggioranza, per qualche tempo ancora, ignorarle;
ma verrà sicuramente il giorno nel quale le
ricorderanno e le avranno care. |