La raccolta di undici componimenti è la continuazione dei Primi Poemetti, ed è
dedicata agli studenti dei licei e delle università in cui Pascoli insegnò. In
epigrafe reca l'emistichio virgiliano paulo maiora.
Tutti i componimenti, a eccezione di uno, sono in terzine dantesche e riprendono
la storia dell'amore tra Rigo e Rosa (già cantata nei Primi Poemetti) che, dopo
la dichiarazione d'amore del giovane (L'usignolo), alla fine si sposano. Il
testo più singolare della raccolta è certo La morte del Papa, lungo poemetto che
si sofferma sulle ultime ore di una vecchia contadina, nata lo stesso giorno del
papa (Leone XIII), la quale attende di chiudere la propria vita insieme con
l'augusto coetaneo. Il poemetto, intessuto di espressioni dialettali lucchesi,
termini arcaici e gergo legato al mondo del lavoro rurale, accompagna il mesto
ma dignitoso commiato della donna dai suoi cari e dalle sue povere cose, oltre
che dalla domestica realtà dei campi. L'inserzione nel finale di una sorta di
visione, in cui la vecchia crede che il papa stesso le venga incontro in un
tripudio di stelle, rimane il segno più sicuro dell'arte pascoliana, capace di
vertiginose impennate, dove la terzina dantesca torna alla sua esemplarità: «Per
quella via... Ma quella era la via / dell'Universo, l'alta sui burroni /
dell'Infinito ignota Galaxia: // e prima d'essa Cani Idre Leoni / raggianti
nelle tenebre celesti / gelide: stelle, costellazioni: // Soli: sciami di Soli,
anzi, con mesti / pianeti ognuno, dove il fuoco primo / par che si spenga e che
l'amor si desti».
Anche in La vertigine, un tema scientifico, la gravità terrestre, suggerisce un
curioso spaesamento notturno, afflitto questa volta da un vago terrore
pascoliano: «Oh! se la notte, almeno lei, non fosse! / Qual freddo orrore
pendere su quelle / lontane, fredde, bianche azzurre e rosse, // su
quell'immenso baratro di stelle». Non mancano paesaggi campestri e meridiani
ritratti al vivo, accompagnati da una sensibilità che non esita davanti
all'immedesimazione, ben oltre l'impegno civile per un'improbabile restaurazione
contadina: «Il grano biondo sussurrava al vento. / Qualche fior rosso, qualche
fior celeste, / tra i gambi secchi sorridea contento» (Tra le spighe). Ma è in
Il Chiù, che l'intera vicenda dell'amore tra i due giovani, Rosa e Rigo,
chiarisce le sue implicazioni biografiche. Di nuovo in una notte scandita dal
verso dell'uccello, la sorella di Rosa, Viola (i cui sentimenti sono la chiara
trasposizione di quelli dello stesso poeta e della sorella Maria davanti al
matrimonio dell'altra sorella Ida), esprime tutto il suo addolorato stupore per
quello che vive come un inspiegabile tradimento: «E Violetta si chiedea sommesso
/ dov'era quella che non c'era più. / Col dolce verso sempre mai lo stesso // le
rispondeva di lontano il chiù». In Piada l'identificazione si fa ancora più
esplicita: «Sul liscio faggio danzi corra voli, / Maria, lo staccio! Siamo soli
al mondo: / facciamo il pane che si fa da soli!».
Il libro si conclude con un lungo poemetto, Gli emigranti nella luna, in cui
poveri contadini russi apprendono da un misterioso forestiero che la luna è
abitabile. In sogno sbarcano sul bianco satellite dove credono di risolvere i
loro problemi, che invece si riproducono come sulla terra. Simmetricamente alla
chiusa dei Primi Poemetti, anche i Nuovi Poemetti terminano con un inno
all'Italia, Pietole (lasse di endecasillabi liberi), dove avviene l'incontro tra
un contadino che vuole abbandonare la patria e Virgilio, nuovo e antico cantore
della virtù dei campi, profeta nostalgico di un popolo che ha radici nella madre
terra: «Ritorni ai campi, o già dai campi uscito, / uscito in riva all'infecondo
mare».
Emilio Cecchi è stato forse il più attento a cogliere le modulazioni e le
motivazioni della poesia pascoliana in un lungo articolo del 1909: «La poesia
del Pascoli, disperazione di critici e di contradditori di critici, ci apparirà
risultato naturale, conseguenza necessaria e perciò non più qualcosa di
avversabile nelle sue limitatezze, sibbene da ricercare e rigodere nelle sue
forme espressive, dopo averne compresa e dominata l'intima ragione, se
riusciremo a determinare di che sorta sia ciò che ne costituisce il fondamental
contenuto; e poiché questo contenuto è dolore, di qual sorta sia il dolore di
questo poeta». Cecchi, nel tentativo di precisare la particolare forma del
dolore pascoliano, confrontandolo con Leopardi e Carducci, concludeva dicendo:
«Qualunque scala serve a Giovanni Pascoli per salire alla finestra donde il suo
sguardo spazii sull'oscuro deforme mistero».
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