Alla prima edizione, dedicata Alla Giovine Italia e che reca in epigrafe il
virgiliano Canamus, seguirono altre due edizioni (1907; 1913, postuma e
definitiva, a cura della sorella Maria), con aggiunte di testi e varianti. I
componimenti erano usciti in gran parte su riviste (soprattutto sulle due
pubblicazioni alle quali Pascoli collaborava più frequentemente in quegli anni,
«Il Convito» e «Il Marzocco»).
Il libro si divide in due sezioni: le «Odi» (34) e gli «Inni» (18), oltre a
un'«Appendice» (Il ritorno, Il sogno di Rosetta).
Più intime, raccolte e personali le «Odi», che risentono di una chiara vena
oraziana; impegnati nell'attualità storica e politica gli «Inni», che guardano
al modello greco di Pindaro. Tra le «Odi», spiccano quelle che con più evidenza
riprendono temi e forme delle raccolte precedenti (Myricae o i Canti di
Castelvecchio), e dove domina la consueta passione per un erbario umile e
domestico: L'ultimo frutto, L'agrifoglio, L'ederella, La rosa delle siepi;
Crisantemi. In queste poesie, dove il dialogo è sostituito dall'apostrofe alla
pianta, come fosse un creatura portatrice di affetti e valori, l'endecasillabo
della strofa saffica crea un forte pathos della nostalgia, che non teme
l'impiego di rime identiche: «Dove sono quelle viole? dove / la pendice tutta
odorata al sole? / dove, o bianche nuvole erranti, dove / quelle viole?»
(Crisantemi).
Ma l'enfasi memoriale o patetica non è l'unica costante delle «Odi».
L'orgogliosa rivendicazione morale di La picozza («Ascesi al monte senza lo
strepito / delle compagne grida. Silenzio. / Ne' cupi sconforti / non voce, che
voci di morti») si alterna al vigile stupore esistenziale di Il cane notturno,
alla colta rivisitazione di temi latini che celebra sommessamente il valore
duraturo dell'opera umana (Il vecchio), alla mesta religiosità di questi versi:
«Lasciate quell'edera! Ha i capi / fioriti. Fiorisce, fedele, / d'ottobre, e vi
vengono l'api / per l'ultimo miele» (Il sepolcro), messi alla sua morte, sulla
lapide commemorativa di Pascoli a Castelvecchio. Altri componimenti, più vicini
alla cronaca, esaltano il lavoro epico dei minatori (Gli eroi del Sempione),
cantano il cordoglio per i caduti di Adua (La sfogliatura) o sfortunate imprese
aviatorie: «Là, sulle incerte nebulose rade, / là, sull'immensità che gli
s'invola / di sotto, là, su l'alto cielo ei cade. // Cade, con la sua grande
anima sola / sempre salendo. Ed ora sì, che vola!» (Chavez).
Negli «Inni» il tono complessivo, che esprime gli ideali di un socialismo
corretto sempre più vistosamente dal patriottismo nazionalistico, è quello
declamatorio («Fratelli venite, v'imploro, / venite nel funebre chiuso», Pace),
con frequenti intenzioni mitologizzanti. Una parte delle liriche evoca i
protagonisti della leggenda risorgimentale: Garibaldi (Manlio), Mazzini (Inno
secolare a Mazzini) e Verdi (A Verdi); o i più recenti attori della storia
italiana: Al Re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni: Le sfortunate
imprese coloniali ispirano componimenti come A Umberto Cagni e Alle batterie
siciliane, dove l'orgoglio ferito e la rivendicazione dell'onore patrio prendono
la facile e martellante forma dei senari e dei novenari alternati: «Cannoni,
cannoni del monte, / cannoni che il piombo / scagliate da sopra le nubi». Non
mancano, nel disegno di una restaurazione artificiosa quanto sincera i recuperi
delle grandi figure, dei numi tutelari di un passato glorioso: Il ritorno di
Colombo, Inno degli emigrati italiani Dante.
I due poemetti conclusivi, pur nella loro apparente estraneità reciproca,
celebrano le opposte forme dell'assenza: il rimpianto del passato il sogno
dell'avvenire. Ulisse che torna vecchio a Itaca (Il ritorno) e non riconosce la
sua terra, la cucitrice che sogna un sogno d'amore coniugale (Il sogno di
Rosetta) rappresentano, con strumenti diversi - il rifacimento omerico nel
primo, la commistione di canti popolari nel secondo - tutto il fragile mondo
degli affetti in balia del tempo. All'ombra dello sposo che nel sogno vorrebbe
che tutto fosse già presente («E tira il vento, muove le foglie, / e l'aria
sente di primavera... / Vorrei che in casa fossimo, o moglie... / Vorrei che
fosse molto più sera...», Il sogno di Rosetta), sembra rispondere il coro che al
vecchio Ulisse raccomanda: «Vedrai le terre de tuoi ricordi, / del tuo patire
dolce e remoto: / là resta, e il molto dolce là mordi / fiore del loto: (Il
ritorno).
Alla sua uscita nel 1906 il libro accese polemiche politico-letterarie.
Francesco Pastonchi per esempio espresse forti riserve: «Così è Giovanni
Pascoli: un poeta descrittivo di piccol mondi, poeta perfetto ma frammentario»;
e a proposito del suo afflato epico: «Il cuore gli si smarrisce, la mente cerca
immagini grandi e cade nel forzato e nel confuso». Una difesa appassionata fu
quella di Sante Bargellini: «Ma del resto, a che parlare e discutere con chi
dopo aver letto l'inno a Verdi, ove è ripreso mirabilmente il concetto che
informa quasi sempre gli inni del Pascoli, il concetto dell'eroe che si perpetua
e continua attraverso il genio della patria italiana inno che è tutto un fremito
d'impeto lirico, non trova altra parola di critica e di prova della sua critica,
che questa: "è una cosa bislacca, dove una frase rimbalza su l'altra, e le idee
giuocano a nascondersi"». Tra i detrattori anche M. Taddei (1906), che - dopo
aver osservato: «II Pascoli, in questo volume è giunto a cogliere alcuni motivi,
alcuni spunti d'una poesia che l'anima sua prevede senza ancora affermarsi
sicuramente in essa» - passò a criticare una certa esteriorità
nell'esemplificazione delle figure eroiche: «Il trapasso dalla realtà
all'immaginazione avviene indipendentemente dalla realtà e dalla immagine le
quali si congiungono con un legame esterno, e non sono più realtà ed immagine,
ma due fatti di cui il poeta vuol cogliere le analogie».
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