I singoli componimenti erano apparsi precedentemente in diverse pubblicazioni; i
primi nove, con il titolo Myricae, erano usciti nel 1890 sulla rivista «Vita
nuova» (ma le poesie più antiche, poi notevolmente modificate, Rio Salto e Il
Maniero, erano state pubblicate su «I Nuovi Goliardi» nel 1877). In seguito
furono accorpati in ben nove edizioni sempre più fitte. Oltre al numero dei
componimenti, Pascoli mutò incessantemente il loro ordine, la struttura, per non
dire delle varianti e della punteggiatura. Tutte le edizioni furono stampate dal
libraio Raffaello Giusti, tranne la sesta, stampata dal tipografo di Lucca
Alberto Marchi, che rientrò nel piano delle Opere complete presso Zanichelli
(Bologna), pur risultando formalmente edita sempre da Giusti. Alla sesta
edizione il poeta aggiunse, in apertura, una «Nota bibliografica», in cui
riassunse la storia del libro. La prima edizione, in occasione delle nozze
dell'amico Raffaello Marcovigi, uscì in cento copie ed ebbe due tirature, una
fuori commercio con apposita copertina per gli sposi. In epigrafe, l'emistichio
virgiliano arbusta iuvant humilesque myricae indica la scelta di una "voce'
dimessa che parli di cose quotidiane.
La composizione del libro, suddiviso in trentuno sezioni, è stata laboriosa; non
così si può dire del suo tono complessivo, già definito fin dall'inizio. Terzine
di settenari, strofe saffiche di endecasillabi, madrigali e sonetti, ogni
elemento metrico e prosodico di questo primo grande libro pascoliano aderisce
perfettamente a un nucleo ben maturo di contenuti emotivi e morali, esemplati
nel poemetto introduttivo Il giorno dei morti, rievocazione del padre ucciso, a
cui il libro è dedicato. Come spesso in altre poesie, sono molte le reminiscenze
virgiliane e dantesche in questo dialogo con i morti, dove l'ossessiva
ripetizione del verbo chiave («Io vedo...vedo...vedo») conferisce al
componimento un alone di funereo romanticismo. L'uso spregiudicato della
ripetizione (anafora, epanalessi), l'onomatopea spinta all'estremo di calchi
sempre più sofisticati (dai banali «chiù», «cu...cu», «dan...dan», ai più
enigmatici «viro», «scilp», «vitt...videvitt» ), reticenze e punti di domanda
costellano ogni pagina imprimendo il sigillo di una cantilenante lamentazione.
La leggendaria capacità mimetica, che si applica preferibilmente alla minuta
realtà naturale e familiare, non disdegna rare personificazioni metafisiche come
in Scalpitio, dove una fuga di piani deserti e un galoppo sinistro riproducono
l'approssimarsi della morte. Anche nei suoi momenti più alti, dove il dolore
della lontananza sembra risolvere la materia del ricordo in un dato puramente
ideale, come in Romagna (le famose quartine di endecasillabi dedicate all'amico
Severino Ferrasi), Pascoli non smette di inventariare la realtà. E se l'incipit,
«Sempre un villaggio, sempre una campagna», e la successiva apostrofe all'amico
lasciano pensare a un'operazione di nostalgia e memoria libera da scorie o
dettagli, la folta presenza di piante e animali riconduce a una più concreta
dimensione. L'esigenza di un lemmario accurato serve per mitigare i sentimenti,
come nel paesaggio di I puffini dell'Adriatico, dove il «rigo di carmino»,
«l'oro» e il «mar liscio di lacca» sembrano tocchi pittorici e calligrafici.
Accanto alle tentazioni gnomiche, che nella sezione «Pensieri» sfruttano la
contaminazione con i classici, stanno tranquillamente (composizione e
pubblicazione spesso sono coeve) i quadri naif della sezione «Creature». I
contorni fiabeschi («Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca», Orfano) sono
concepiti per accogliere le mutevoli e vibratili suggestioni dell'arcano; molli
tenebre si fendono all'improvviso per lasciar irrompere il riso sgangherato di
una strega (La civetta). Proprio l'esiguità dei nuclei emotivi (il dialogo con i
morti, la fanciullezza, lo scoramento esistenziale) costringe a una continua e
rinnovata bravura nella modulazione.
Nell'«Ultima passeggiata» - forse la sezione in cui il raccordo tra i
componimenti appare dosato con maggior sapienza - spiccano due tra le poesie
maggiori: Arano e Lavandare. Nella prima, composta da due terzine e una
quartina, la semplice posposizione del verbo principale «arano», all'inizio
della seconda terzina, ha come effetto di ritardare la prospettiva al cui centro
si muovono lentamente i contadini, e tutto viene seguito dagli occhi di un
passero, forma viva e muta per cui il lavoro umano è solo un'occasione di furba
rapina. Nella stessa forma metrica, in Lavandare, l'umano viene assimilata alla
realtà del non umano, secondo un procedimento sottile quanto ambiguo: il
paragone tra la/le lavandaie e l'aratro abbandonato nel campo, in un primo
momento solo suggerito dalla assimilazione delle donne al rumore del loro
lavoro, viene ripreso esplicitamente nel canto d'amore che intonano. Esempio di
virtuosismo puro è Miracolo (della sezione «Le gioie del poeta»), dove ciascuna
delle strofe è giocata, come e più del modello rimbaudiano, sulla sinestesia
suono-colore delle cinque vocali.
Se la natura occupa quantitativamente la parte maggiore dell'opera, una sezione
intera, «Finestra illuminata», è composta da madrigali che ritraggono una serie
di interni. Mezzanotte sembra riprendere il tema caro a Baudelaire della
finestra accesa nella notte, che «brilla» come una marmorea «pupilla aperta». In
un altro componimento, La solitudine, l'intreccio di natura e storia viene còlto
nelle sue più tenui manifestazioni: nel silenzio di un pendio, un uomo si lascia
avvolgere dai suoni e dalle immagini di uccelli in volo, cavallette, moscerini,
e dal ronzio dei fili del telegrafo: «Qui quel ronzio. Le cavallette sole /
stridono in mezzo alla gramigna gialla; / i moscerini danzano nel sole; / trema
uno stelo sotto una farfalla».
Nella sezione «Elegie», che si apre con la prosopopea della felicità (Felicità),
figura dell'assenza in forma di donna, compare X Agosto, la poesia più nota.
Pubblicata nel 1896, composta di quartine di endecasillabi e novenari in ricordo
dell'uccisione del padre, ritrae nel modo più scoperto il trauma dell'infanzia.
Il tema del nido che attende invano il ritorno della rondine termina con una
stoica invocazione al cielo. Il paesaggio toscano, che costituisce uno degli
elementi costanti di queste poesie, domina incontrastato la sezione «In
campagna». La natura, interpretata o, meglio, vissuta come luogo dello
smarrimento, dove niente distrae dalla inesorabile nudità delle cose,
restituisce all'io una sorta di privilegio (Nella macchia) al rovescio: l'io
torna alla panica desolazione delle creature («Io siedo invisibile e solo / tra
monti e foreste: la sera / non freme d'un grido, d'un volo»), per diventare il
cieco bersaglio di un canto di capinera. E di nuovo l'identificazione, non
simbolica, di una monaca e di un passero (Il passero solitario), sembra quasi
enfatizzare, più che il comune destino, una condizione di assoluto abbandono,
come quella, alta e trasfigurata, che governa una delle liriche più belle, L'assiuolo.
Al chiarore della luna che già cede alla luce di un'alba velata da nubi e lampi,
il verso dell'assiuolo incarna ogni muta disperazione, e il frinire delle prime
cavallette evoca il suono rituale dei sistri devoti a Iside. Quasi alla fine
della sezione, in Ultimo canto, la poesia-bozzetto riesce a trasformare,
dall'interno di un esile stornello, il sentimentalismo in sentimento: «Canta una
sfogliatrice a piena gola: / Amor comincia con canti e con suoni / e poi finisce
con lacrime al cuore». Nella poesia Il bacio del morto, la presenza dei morti si
dispiega in commossi novenari, segnando il doppio trapasso dal sonno alla veglia
e dalla notte all'alba. Nell'apostrofe alla cara ombra del defunto, l'intenso
pathos grammaticale delle interrogative dà corpo a un'invocazione senza
risposta.
Nella lirica La sirena, in una delle ultime sezioni, «Tramonti», la bravura
compositiva raggiunge uno dei vertici dell'intera opera pascoliana. In una sera
brumosa il fischio della nave diviene per metamorfosi canto di una Sirena
(sfruttando, come spesso accade, l'ambivalenza semantica della parola), con
accordi delicati di assonanze, allitterazioni e rime, sul ritmo cadenzato del
novenario dattilico. Il componimento che chiude la raccolta, Ultimo sogno,
compendia nelle sue quattro quartine di endecasillabi, le ragioni del libro: la
commistione tra apparenza e realtà l'evanescenza dei segni, l'impossibile
dolcezza di ogni regressione, l'incombere della fine come estrema lontananza. Il
risveglio da un sogno confuso è anche l'imprevista guarigione da una malattia,
il quieto ritrovarsi accanto alla rassicurante figura della madre. Ma un lontano
sussurro di alberi e d'acqua annuncia, forse nel sogno stesso che non si è mai
interrotto, l'approssimarsi della morte.
Definito «classico-romantico» da Carducci, il Pascoli di Myricae fu lodato
dall'anonimo recensore della «Nuova Antologia» (1892) per la sua freschezza ma
anche rimproverato per una certa oscurità di linguaggio, una sorta di ermetismo
in anticipo sui tempi. Sulla faticosità lessicale, in gran parte attribuita
all'uso del dialetto e di termini scientifici, insistette anche Ruggero Bonghi
(1895), e alle scelte lessicali, all'involuzione sintattica, mosse obiezioni
Domenico Gnoli (1897), che denunciò, come difetto maggiore dell'opera, «la
preoccupazione di chi teme di farsi intendere, di chi ha orrore delle vie
battute». Costantino Nigra (1894) mise in rilievo l'intreccio tra classicità e
modernità, esaltando l'autenticità del sentimento; altri, come Alberto Cioci
(1894), scesero in polemica con Pascoli sulle arditezze metriche, intese come
scorrettezze o veri e propri errori. Il lettore più acuto del libro fu Gabriele
d'Annunzio, che aveva scritto di Pascoli nel 1888, e che nel 1892 dichiarò:
«Giovanni Pascoli è assoluto signore dello strumento metrico e, a differenza
degli altri poeti, varia su quello con molta abilità le sue ricerche». Ma
all'esaltazione dell'artefice, e quasi volendo limitarne una possibile
appartenenza al più vasto ambito del simbolismo europeo, aggiunse: «Nella sua
poesia rare volte si sente l'Indefinito. Dirò alla fine, sperando d'esser meglio
inteso, che in questa poesia manca il mistero». Recensore d'eccezione fu anche
Luigi Pirandello (1897), che respinse «la sottigliezza troppo studiata» delle
liriche pascoliane, per ammirarne «il vivissimo, profondo sentimento della
natura... e sempre la finezza, sempre una vaga diffusa soavità melanconica».
|