Il sottotitolo è « Prolegomena: La costruzione morale del Poema di Dante».
Anticipata sulla rivista «Il Convito» nel 1895 e nel 1896, l'opera uscì in
volume con una dedica al senatore Gaspare Finali.
Nella dedica, Pascoli scrive con orgoglio: « Sì: io era giunto al Polo del mondo
Dantesco, di quel mondo che tutti i sapienti indagano come opera d'un altro Dio!
Io aveva scoperto, in certo modo, le leggi di gravità di questa altra Natura e
quest'altra natura, la ragione dell'Universo Dantesco, stava per svelarsi
tutta!». Tutta l'opera è un commento, molto sottile e spregiudicato, del testo
dantesco, della sua struttura letterale e della sua forza allusiva, che
prescinde, quasi totalmente da ogni riferimento storico-filologico. Il metodo
pascoliano è tutto nella ricerca, spesso intuitiva, di una coerenza interna,
mettendosi sulle piste, da poeta, di un altro poeta. Partendo dall'ingresso di
Dante nella città di Dite (Inferno, IX), Pascoli ripercorre l'intricata mappa,
letterale e allegorica, del sistema delle pene nella Commedia. Fuori di Dite
viene punita l'incontinenza (che comprende i tre peccati capitali: lussuria
gola, avarizia e il suo contrario la prodigalità). Dentro Dite vengono punite la
malizia e la matta bestialità (violenza, frode, tradimento). Nella palude stigia
sono punite l'ira e l'accidia. Ma come mai non vengono puniti gli altri due
peccati capitali: l'invidia e la superbia: Si passa quindi ad analizzare la
divisione de Purgatorio: le colpe sono riducibili all'amore che sbaglia oggetto
(superbia, invidia, ira) o che è debole (accidia) o è eccessivo (avarizia, gola
lussuria).
L'argomentazione è volta a individuare i peccati capitali mancanti nell'Inferno,
confrontando l'ordine infernale con quello, più esplicito, del Purgatorio. Si
tratta di uno sforzo che tende a razionalizzare il poema, preoccupato dunque di
trovare conferme nelle apparenti smagliature di un sistema apertamente
dichiarato; e, al tempo stesso, si tratta di un esercizio, spesso funambolico,
di ermeneutica. È esemplare la lunga e faticosa giustificazione secondo cui gli
usurai sarebbero dei violenti, condotta sul filo di definizioni aristoteliche e
tomiste che porterebbero a equiparare l'usura alla vendetta, per il disprezzo
divino verso coloro (gli usurai appunto) che agiscono contro natura: «Di vero
gli usurieri par che adontino, come di un'ingiuria, del castigo giustamente dato
da Dio agli uomini "di nutrirsi del pane loro nel sudore del loro volto", e si
fanno ghiotti della vendetta».
Punto irrinunciabile dell'indagine è che alla base del viaggio dantesco c'è
l'uomo, il quale, per ottenere la salvezza, deve purificare e liberare la
volontà: «Del Poema di Dante io posso dunque ora dire di conoscere un punto che
era poco o mal conosciuto: la costruzione morale. Il soggetto ne è l'uomo,
secondo che bene o mal meritando è esposto al premio o alla pena. Ma non può
meritare bene o male se non chi libera la volontà; sì che il Poema può dirsi il
dramma della volontà umana e della divina giustizia». Segue un'analisi
scrupolosa delle corrispondenze fra le tre cantiche in cui s'incarnano precise
concezioni filosofiche e teologiche. Nell'«Appendice», Pascoli affronta e
discute la difficile figura allegorica del messo celeste, che arriva a
identificare con Enea («Enea, l'eroe del suo maestro, che gli serviva d'esempio
sin dal Convivio»), e l'apparente anomalia del conte Ugolino che dovrebbe
trovarsi nella Caina (come traditore dei parenti) e invece si trova
nell'Antenora (traditori della patria): «il conte Ugolino non è al suo posto
nell'Antenora, poiché è nella buca destinata a un altro [Ruggieri]...L'aver egli
il capo tutto fuori dalla Ghiaccia, sì che con esso sopravanza quello
dell'altro, fa comprendere ch'egli dovrebbe essere nella Caina, dove i rei
sporgono il capo».
L'Accademia dei Lincei (1896) così commentò il nucleo degli scritti che
sarebbero apparsi in volume due anni dopo e ai quali negò un premio di 10.000
lire: «Giovanni Pascoli nella Minerva Oscura si propone di esporre e
rappresentare la costruzione morale del poema di Dante. Egli vuole ignorare il
molto che è stato scritto sulla Divina Commedia, e le si pone di fronte solo,
con poderose citazioni tomistiche, scolastiche, di santi padri, convitando quasi
i lettori ad assistere al modo onde il processo della costruzione si è generato
e svolto nella sua mente [...] l'acceso ingegno gli fa ignorare, o gli dissimula
molti stacchi e salti del suo disegno. Il libro del Pascoli pullula d'ipotesi
ingegnose e suggestive; è ricco anche di non pochi semi di verità: ma non tutta
la faccia dell'oscura Minerva è illuminata. È scritto con austera eleganza». Il
giudizio è probabilmente di Carducci, che faceva parte della commissione
giudicatrice.
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