La prima edizione del 1904 seguita da quella definitiva del 1905, è dedicata
all'amico Adolfo De Bosis e reca in epigrafe l'emistichio virgiliano Non omnes
arbusta iuvant. Il titolo della raccolta viene dalla rivista, diretta da De
Bosis, «Il Convito», su cui Pascoli aveva pubblicato nel 1895 i primi tre
poemetti: Gog e Magog, Alexandros, Solon. Nella lunga «Prefazione», il poeta
ricorda all'amico la sua permanenza a Roma nel 1895, la fraterna amicizia con
D'Annunzio e ironizza su una sua pretesa vena arcade, difendendo caparbiamente
il valore dei propri scritti danteschi.
Il tono generale dei diciassette poemetti è dato dall'uso dei grandi temi
mitologici, riscritti con gusto parnassiano e un linguaggio arcaizzante,
attraverso i quali si esprimono mature riflessioni sui grandi problemi
dell'esistenza. Il verso, disposto in vario modo, è l'endecasillabo. Nel primo,
Solon, una specie di introduzione generale, s'inneggia all'immortalità della
poesia: «E il poeta fin che non muoia l'inno, / vive, immortale». Ma dal
fraintendimento del vecchio Solone dopo le parole della cantatrice, traspare
anche l'ambigua identità di amore/morte: «La Morte è questa! il vecchio esclamò.
Questo, / ella rispose, è ospite, l'Amore». Segue una sezione omerica, aperta da
Il cieco di Chio (dedicato appunto alla figura di Omero che riceve il dono del
canto in cambio della vista) e divisa in due cicli: il primo, ispirato da
Achille (La cetra d'Achille, Le Memnonidi), legato a sentimenti primitivi e
intriso dell'attesa della morte; il secondo, ispirato da Odisseo, in cui
compaiono affetti più intimi (Anticlo, Il sonno di Odisseo, L'ultimo maggio). A
L'ultimo viaggio appartiene Calypso, forse la più intensa di queste liriche,
dove si canta il ritorno di Ulisse, non da Penelope ma da Calypso, non vivo ma
morto. Il mare abbandona ai piedi della dea le spoglie dell'uomo amato, davanti
alle quali ella prorompe in uno straziato lamento: «Non esser mai! non esser
mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!». Con Il poeta degli iloti,
da uno sfondo cosmogonico affiora, nel finale, il valore morale del lavoro: «Ora
il lavoro canterò, né curo / ch'io sembri ai re l'Aedo degli schiavi».
La Grecia classica, nel suo fulgore speculativo, è al centro dei platonizzanti
«Poemi di Ate» sulla giustizia. Nel Sileno la classicità è ritratta in una sorta
di iniziazione all'arte dello scultore greco Scopa, sullo sfondo di suoni sacri,
cembali, timpani, sistri, da cui emerge la natura, incontaminata materia
dell'arte dello scultore: «come in un sogno, come nel gran sogno / di quelle
rupi candide di marmo / dormenti nella sacra ombra notturna». Il senso della
morte, come ritorno alla natura o stoico commiato esemplificato nella figura di
Socrate, pervade i «Poemi di Psyche» e assume un sinistro presagio in I gemelli
(«Qui non c'è fiori per il tuo digiuno! / Tu sei nel prato ove non c'è
nessuno!»), mentre solo la discendenza sembra assicurare, in I vecchi di Ceo,
una qualche forma di immortalità.
Alta metafora del destino umano, Alexandros canta l'esperienza della ventura, lo
smarrimento di chi, come il condottiero greco, giunto all'estremo orizzonte
(«Giungemmo: è il fine. O sacro Araldo, squilla!»), se ne ritrae sgomento. Il
senso di ogni cosa sta nell'indugio, nel tragitto che conduce con fatale cadenza
al disincanto: «Azzurri, come il cielo, come il mare, / o monti! o fiumi! era
miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: // il sogno è
l'infinita ombra del Vero». Dopo un fosco e romantico ritratto della nascita
dell'imperatore (Tiberio), e la premonizione, non scevra da richiami
all'attualità politica della calata dei barbari in Gog e Magog («S'affacciò
l'Orda, e vide la pianura, / le città bianche presso le fiumane, / e bionde
messi e bovi alla pastura. // Sboccò bramendo, e il mondo le fu pane»), il libro
si chiude con La buona Novella, dove la purezza dell'alba cristiana illumina gli
oscuri e sanguinari recessi della romanità decadente.
Ettore Romagnoli (1904), dopo aver accennato al gusto ellenico di Pascoli, si
chiese: «Alessandrino il Pascoli? Sì, in qualche minuzia formale, in qualche
troppo erudita allusione, in qualche sottigliezza talora come nascosta
maliziosamente. Il Pascoli, invece, attinge qui, come sempre, alle inesauribili
polle della natura e dell'anima umana: ed inventa tutti i suoi miti».
Ma Romagnoli riconosceva anche, oltre al debito con la cultura greca, quello con
la letteratura moderna, e dopo aver fatto il nome di Poe, osservava: «Perché il
nostro poeta, simile in ciò, quasi, alla madre del suo mito, immergendosi nei
ceruli fonti dell'ellenismo, vi ha bevuto l'oblio d'ogni volgarità moderna; ma
non ha dimenticate alcune maniere d'arte onde i poeti più recenti, e non i soli
poeti, espressero i loro sogni». Anche Filippo Tommaso Marinetti accolse l'opera
con entusiasmo, definendola: «la rivelazione più bella di questo nuovissimo
genio italiano» (1905).
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