CRITICA LETTERARIA: IL CINQUECENTO MINORE

 

Luigi De Bellis

 
 
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Coscienza letteraria e questione della lingua nel Bembo

Che cosa fu il petrarchismo

Michelangelo scrittore

Tradizione e novità nelle "Rime" del Della Casa

L'ideale del "Cortegiano"

Un nuovo rapporto con la realtà: le novelle del Bandello

Storia e narrazione nel "Vite" del Vasari

Polemica letteraria e realismo nel Berni

Ideale eroico e parodia nel "Baldus"

Le "Lettere" dell'Aretino

La "virtù" del Cellini

Forme e svolgimento del teatro del Cinquecento

La "naturalezza" del Ruzzante

TASSO

Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

La pazzia del Tasso

La religiosità del Tasso

Le "Rime" del Tasso

La sensualità della poesia tassiana

Atmosfera e personaggi della "Gerusalemme liberata"

Struttura e poesia nella "Gerusalemme liberata"

Vicende e aspetti di un personaggio: Clorinda

La poesia del Tasso e la pittura del Tintoretto

Caratteri e limiti del "Dialoghi" del Tasso

L'ispirazione religiosa dell'ultimo Tasso



 


LA "NATURALEZZA" DEL RUZZANTE

di CARLO GRAGHER



L'aspirazione, propria del mondo rinascimentale, a rappresentare la natura, si attua nel Ruzzante in modo concreto e immediato, applicandosi a una viva e corposa realtà contadina; tuttavia, egli non si riduce a un angusto ambiente dialettale, in quanto i suoi personaggi e le sue vicende rappresentano un universale modo di vita vissuta nell'istintivo contatto e nell'accordo primordiale con la natura. Anche il dialetto, lungi dall'essere elemento folcloristico, è lo strumento linguistico necessario a manifestare questo senso della vita.

Estremo, integrale fu nel Ruzzante l'ossequio alla natura e il bisogno di raggiungere quella naturalezza che il Rinascimento in genere e la sua letteratura, nel caso particolare, mirarono in vario modo ad attuare: da un Ariosto a un Aretino.
Premesso che di realismo non si può mai parlare in senso assoluto, ma solo per intendere un particolare gusto realistico, aggiungerò subito che la critica si è proprio e insistentemente fermata a rilevare nell'opera ruzzantiana la rappresentazione di un determinato ambiente sociale - quello dei contadini - e di un determinato luogo: la campagna dei dintorni di Padova. A convalidare questa interpretazione soccorrevano alcuni tra i pochi dati sufficientemente chiari nella biografia del poeta: i campi posseduti dalla famiglia Beolco, la vita condotta da Angelo in campagna, i terreni da lui presi in affitto, gl'incarichi di faccende agricole a lui affidati e dai fratelli e da Alvise Cornaro. Tutto questo senza dubbio fu una fecondissima esperienza, ma un'esperienza di valore universale, poiché l'artista in quell'ambiente campagnolo imparò a guardare gli uomini e la natura direttamente, lungi dagli «slibrazon», chiarendo e maturando la sua particolare vocazione alla poesia insieme a quella sua poetica del naturale, che lo spingeva a rappresentare la gente più semplice, più legata a uno stato di natura, e a usare il dialetto. Ma tutto ciò nel Ruzzante non conduce a un'arte dialettale e folkloristica. La regione e il dialetto qui sono soprattutto stimolo e strumento a una particolare concretezza rappresentativa che è la cosa a cui sostanzialmente si riduce il « realismo » del Ruzzante, poiché quella campagna e quei villani, ispirati certo dalla terra padana, diventano rispettivamente l'universale immagine della vita semplice condotta in seno alla natura e della gente povera, misconosciuta, candidamente istintiva nel bene come nel male: un mito della fantasia accesa da un profondo sentimento umano. Abbiamo dunque una rappresentazione apparentemente regionale innalzata da una larga visione della vita e, nei momenti più felici, dominata da motivi di alta poesia, quasi ignoti alla commedia cinquecentesca. Voglio richiamare un poco l'attenzione sul dialetto e sullo stile del Ruzzante. Assai più che l'ambiente e i personaggi, la lingua che egli usa è legata a un luogo e a un momento storico; ma, come avviene in tutti i poeti, diventa anch'essa in vario modo una personale creazione: non tanto per il complesso lessicale, non tanto per le parole inventate o deformate - onde adattarle ora alla ignoranza dei villani, ora a certe loro burlesche fantasie o anche a un estroso gusto del pittoresco, ma sempre evitando la tentazione di creare tipiche e regolate deformazioni di cui proprio Padova forniva un esempio estremo col maccheronico -, quanto per il complesso delle modulazioni di musica e d'immagini che il dialetto assume per seguire le intime sfumature delle idee e dei sentimenti. E certo personalissimo - e legato a questa intima aderenza - è lo stile: con quella sintassi per lo più grave, rallentata da pause e da incisi, come a segnare il cauteloso svolgersi di un pensiero che faticosamente si organizza per chiarirsi a chi parla e a chi ascolta - le creature semplici non hanno la disinvolta eloquenza di chi si è scaltrito sui libri -; talora improvvisamente sciolta e frizzante come in certe maliziose scene d'amore o in vivaci scorci di farsa; o addirittura snodata in filastrocche di birichine cantilene come nei versi della carnevalesca Betía. E, con la sintassi, varia e s'accorda anche l'effetto fonico dei periodi. Il dialetto in sostanza, e per virtú tutta interiore, è usato dal Beolco non già come negli scrittori puramente «dialettali» che lo sostituiscono alla «lingua», ma puntando sugli effetti del popolaresco regionale e spesso travestendo i più noti atteggiamenti della letteratura aulica; il dialetto per lui coincide con un suo modo di vedere e sentire la vita, coincide con l'ambiente e le creature che appartengono al suo sentimento e alla sua fantasia ben al disopra della regione; esso è contrapposto alla lingua non come un semplice dialetto, ma come la lingua stessa, necessaria, insostituibile, dei suoi poetici miti; in virtù, dei quali assurge alla dignità di un «volgare illustre».

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it