CRITICA LETTERARIA: IL CINQUECENTO MINORE - TASSO

 

Luigi De Bellis

 
 
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LA SENSUALITA' DELLA POESIA TASSIANA

di MARIO  FUBINI



Partendo da un puntuale confronto con episodi della Commedia, il Fubini osserva come la nota sensuale, diffusa in tutta la poesia del Tasso, si ritrovi anche in quei momenti che meno parrebbero offrirne l'occasione. IL Tasso ha questo elemento in comune con certi aspetti dell'estetismo moderno. L'opera dove tale nota sensuale si rivela come dominante è l'Aminta, non solo nella rappresentazione dell'amore fra i protagonisti, ma anche nel commento che ne fanno maliziosamente Dafne e Tirsi.

Quel che colpisce anzitutto il lettore nelle opere tassesche, nelle maggiori come nelle minori, è una sensualità acuta e sottile, a cui sembrano adeguarsi soltanto modi . singolarmente raffinati. Non nei temi erotici soli: se Dante fa evocare da un dannato all'arsura eterna il paesaggio fresco di acque in cui visse e che, tornando alla memoria, accresce il suo tormento, il Tasso, ricordando quei versi nella descrizione della siccità, non si appaga della semplice evocazione dantesca, che ci mette innanzi quella terra cosí come essa è presente alla memoria di tutti e non a quella sola del suo dannato («Li ruscelletti che de' verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno, / facendo i lor canali freddi e molli...»), ma si sofferma sulle tormentose visioni dei suoi guerrieri, facendosi partecipe del loro non saziato desiderio che vien creando sempre nuove immagini dell'oggetto bramato.

S'alcun già mai tra frondeggianti rive
puro vide stagnar liquido argento,
o giù precipitose ir acque vive
per alpe, o 'n spiaggia erbosa a passo lento;
quelle al vago desio forma e descrive
e ministra materia al suo tormento...

La stessa sensualità si fa valere in un passo, fra i più schiettamente religiosi della Gerusalemme, la meditazione di Rinaldo nella mattina in cui compirà la grande prova della foresta incantata, non diverso per il contenuto dal monito del Virgilio dantesco:

Chiamavi 'l cielo e dintorno vi gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne,
e l'occhio vostro pur a terra mira...

Che sono al confronto con le «bellezze eterne» i beni terreni che il poeta neppure si degna di nominare? Ma il personaggio tassesco, mentre si eleva col pensiero al cielo, non dimentica del tutto la terra e, pur rinnegandola, evoca il fascino della bellezza terrena con parole che tradiscono un rimpianto, e il cielo stesso non abbraccia con un solo sguardo come Dante, il quale tutto ce lo pone innanzi nel suo significato materiale e spirituale con la potente e sintetica immagine « le bellezze eterne », dominatrice dell'intera terzina, bensí del cielo ad una ad una «vagheggia» le «belle luci», indugiando nella contemplazione delle «aurate stelle» e dall'« argentata luna» - e la novità e la preziosità degli aggettivi bene mettono in rilievo il carattere di quella contemplazione che non sa e non vuole trascendere i particolari sensibili.

Fra sé stesso pensava: oh quante belle 
luci il tempio celeste in sé raguna! 
Ha il suo gran carro il dì; l'aurate stelle
spiega la notte e l'argentata luna:
ma non è chi vagheggi o questa o quelle;
e miriam noi torbida luce e bruna
ch'un girar d'occhi, un balenar di riso
scopre in breve confin di fragil viso.

Così nella stessa meditazione religiosa si insinua come una punta di estetismo (s'intende che con questa osservazione non si vuole sminuire la bellezza di quei versi stupendi): pensiamo ad artisti moderni nei quali si fa sentire, e in forma artisticamente forse meno schietta, una persistente sensualità, pur là dove mirano a un mondo di spirituale purezza - tutto l'episodio di Rinaldo sul Monte Oliveto ha singolari analogie con l'Incantesimo del Venerdí Santo del Parsifal wagneriano -; come in genere all'arte moderna sensuale ed estetizzante ci fan molte volte pensare le cose del passo minore, in cui l'estetismo è più aperto e spiegato. Non hanno per noi alcunché di dannunziano non pochi versi di quella Corona, nella quale il poeta si compiace di raccogliere immagini belle e preziose per adornarne la donna celebrata e di vagheggiarle nei singoli versi che vogliono essere goduti e assaporati ognuno per se stesso prima che nell'insieme?

Cingete a Laura voi le trecce d'oro
de l'arboscello onde s'ha preso il nome... 
I bianchi cigni in fresche e lucid'acque...
Apra l'antica madre i novi fonti...

Ma vi è un'opera in cui la sensualità tassesca domina incontrastata e trova a un tempo la sua più perfetta espressione artistica, l'Aminta. La riconosciamo nello stesso intreccio, poiché accanto ai due giovani, ad Aminta che dalla fanciullezza ha coltivato in se stesso quel suo unico grande amore e a Silvia che dinanzi all'amore timorosa si arretra, il poeta ha collocato una ben diversa coppia, Tirsi e Dafne, dell'amore esperti e fin troppo esperti e fatti dalla loro esperienza alquanto scettici, i quali consigliano, esortano, spiano, commentano con malizia e insieme con non so quale nostalgia per quell'amore giovanile che sotto i loro occhi sboccia, trepida, trionfa. Che sarebbe, ove essi mancassero, il dramma? Ne nascono le caratteristiche situazioni dell'Aminta, nelle quali i moti schietti e talora inconsci di due anime giovanilmente semplici, sono rilevati dall'occhio vigile di quei personaggi che semplici non sono: ne nasce (o a dire il vero non è se non un altro aspetto della medesima ispirazione) il caratteristico stile, semplice e raffinato ad un tempo, o meglio semplice di una voluta semplicità, che è poi un'estrema raffinatezza.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it