CRITICA LETTERARIA: IL DUE E IL TRECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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I volgarizzamenti del Due e Trecento

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La poesia giocosa del Due e Trecento

La poesia di Cecco Angiolieri






 


I volgarizzamenti del Due e Trecento
di C. SEGRE



Il Segre mette in rilievo il rapporto reciproco fra la prosa originale e la traduzione dei testi classici, che si nutrono e si arricchiscono a vicenda, a vantaggio della prosa sia letteraria, sia storica, sia di pensiero.

Questa complementarietà anche oggettiva dell'attività letteraria originale e del volgarizzamento è importante per la retta impostazione storica del problema delle traduzioni: perché ci invita a disegnare i loro rapporti con lo svolgimento della prosa con linee che seguano il piú docilmente possibile i momenti attivi e quelli passivi, i punti di forza e i rilassamenti. La storia dei volgarizzamenti è una striscia scindibile solo per comodità espositive dal fascio luminoso della prosa: la vicenda delle traduzioni risponde, al pari di quella delle opere originali, agli incitamenti di un gusto che si trovava in quegli anni in fase di effervescenza. E' utile e necessario rilevare il patrimonio di elementi fornito dall'esercizio della traduzione al prosatore che si sentiva dentro piú precisi e prepotenti i nuovi ideali; ma erano questi ideali, man mano che venivano alla luce della sua coscienza (manifestandosi sempre più limpidamente nelle sue opere) a suscitare il suo interesse per i classici, a sfumarne piú finemente i tratti prima abbozzati da una finalità pratica e approssimativa: per tradurre vi deve essere il desiderio di tradurre. E poi la traduzione portata a termine, la traduzione scritta, è una sola delle tante traduzioni che lo scrittore ha fatto per sé, leggendo, penetrando sempre piú a fondo nel mondo che vuole conquistare. Vorremmo dunque evitare di attribuire ai volgarizzamenti un'efficacia determinante ed univoca nei rispetti della letteratura originale; e considerarli piuttosto come un riflesso analizzabile della luce che si veniva gettando sul gran mare del mondo classico, attribuendo loro, invece che una precedenza, un ideale parallelismo con le altre espressioni del pensiero letterario. Sostituiremmo insomma la formula: volgarizzamento <-> prosa originale, all'altra superficiale e, se non corretta da infinite riserve teoriche, pericolosa: volgarizzamento -> prosa originale.

Il nome di Brunetto Latini è, come s'è visto, quello che con maggior diritto può ambire ad essere citato per primo a rappresentante del nuovo modo di vedere i classici e della nuova concezione del volgarizzamento. Bono Giamboni, che senza turbamenti teoretici ma con vera sensibilità linguistica compiva a Firenze, negli stessi anni, una feconda attività volgarizzatrice, sia per l'indole degli autori scelti, quasi tutti religiosi e medievali (ma Orosio e Vegezio avevano ancora un certo profumo di classicità), sia perché il suo modo di volgarizzare era piuttosto un rimaneggiare che un tradurre, va collegato con le correnti di gusto piú popolare e di forma piú divulgativa; la sua coscienza della latinità non è certo molto chiara e scaltrita. Ma appunto per questo, e per la costante mancanza di una corrispondenza puntuale col testo latino, il suo stile cosí maturo e sapiente è saggio notevole di una possibilità di amalgama tra le vive tendenze del volgare e quanto dei modelli latini poteva servire al suo maturarsi; saggio che è confortato significativamente da un esame del Libro de' Vizi e delle Virtudi, dove, assente ogni supporto diretto di un testo latino, la struttura sintattica non subisce alcun cedimento.

Nei volgarizzamenti della prima metà del Trecento vediamo concretarsi, attraverso il comportamento del traduttore rispetto al suo testo, quella visione della classicità che circoli letterari e uomini di gusto cercavano di conquistare sempre piú limpida cacciandone la polvere degli anni. Albertino Mussato celebrava gli scrittori latini e imitava Livio; Gíovanni del Virgilio esprimeva la sua vena naturalistica in esametri virgiliani che sarebbero stati trascritti dal Boccaccio, quasi a indicarci l'assimilazione, in Firenze, delle idee dei cenacoli preumanistici settentrionali; il Petrarca andava a caccia di codici che collazionava da buon filologo, e dava la spinta piú potente agli studi classici, mettendosi al centro di uno scambio culturale che nel ricordo della latinità ignorava le frontiere politiche. Col Boccaccio infine venivano a contatto, secondo queste nuove idealità, la prosa volgare e lo studio classico: l'andamento della lingua volgare fattasi adulta s'atteggiava immediatamente su un pensiero che già del contenuto classico aveva adottato, come e quanto gli servivano, le strutture.

Lo studio della classicità .ingenera nei volgarizzatori uno scrupolo che in precedenza avevano ignorato: mentre la loro stessa capacità stilistica e la loro cultura si sono sviluppate con rapidità da stupire (basta confrontare i prologhi dei volgarizzamenti: per esempio quello di Brunetto al Pro Ligario con quello di Alberto della Piagentina al suo Boezio o quello della quarta Deca di Livio), il testo ispira loro, si direbbe, un timore reverenziale prima ignorato. I primi traduttori erano piú disinvolti: Bono Giamboni rifaceva a modo suo girando al largo delle difficoltà; Brunetto cercava di tradurre con precisione, ma non temeva di incorrere in qualche anacronismo, né aveva scrupolo a trasportare la retorica ciceroniana nell'arringo comunale. Nel linguaggio penetravano di continuo parole e forme nuove, ma pianamente, senza lotta. Invece quanto piú chiaro appare, nel desiderio del possesso, il contrasto della nuova con la vecchia cultura, il traduttore si fa inquieto, teme che il suo linguaggio non sia all'altezza dell'originale, ne violenta lessico e sintassi. Inquietudini di un valore positivo, s'intende; e violenze in cui il volgare mostrerà la propria attitudine a foggiarsi secondo formule piú complesse; ma in un primo tempo sembra che la lingua si rifiuti, e le traduzioni hanno qualcosa di sforzato e ingenuo insieme, che ci colpisce, specie dopo un confronto con le piú antiche. E c'è altro, fra le cause di questo diverso modo di tradurre: c'è che nel Trecento vengono volgarizzati pure i testi poetici, Ovidio prima di tutto, e Virgilio e Lucano (altro, e ben notevole, segno dei tempi). Nel testo poetico il processo espositivo è tenuto insieme, piú che dalla progressione dei fatti e delle idee, dall'unità della visione: che è piú difficile da riprodurre in sé, e ricreare con la scrittura. Per questa difficoltà, presentatasi pure ai lettori, che erano avvezzi ad altro, ai lunghi romanzi di Francia - e per le durezze, forse, della traduzione - a questi volgarizzamenti arrise minore fortuna (tranne che per quelli di Ovidio, ce lo dice il numero dei codici); eppure essi rappresentano in un certo senso, per l'attenzione ai particolari peculiari e lo scrupolo di fedeltà nella traduzione, la punta massima di codesto sforzo di comprensione e di assimilazione.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it