CRITICA LETTERARIA: IL QUATTROCENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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IL GUSTO DELLA VITA ATTIVA ED ENERGICA
NELL' "ORLANDO INNAMORATO"


di EMILIO  BIGI



Il Bigi indica nell'esaltazione della vita attiva il motivo fondamentale che muove il Boiardo nell'intrecciare le complicate vicende del suo poema: alla concezione feudale e religiosa propria della cavalleria nella sua realtà storica, il poeta sostituisce la celebrazione dell'eroismo individuale, del desiderio di primeggiare sia nella « cortesia », sia nell'amore, sia nelle armi, in rapporto con il nuovo senso di vitalità proprio del mondo umanistico.

Il motivo che più intensamente occupa la fantasia del Boiardo, individuandosi in frammenti di poesia, è proprio quel gusto della vita attiva ed energica, che nel suo stadio di grezzo e pratico appassionamento per la forza fisica e per l'avventura, si stende nelle sue dilatazioni narrative ad occupare la parte di gran lunga più ampia del poema. Questo motivo si presenta al Boiardo anzitutto nella sua forma più immediata, come impulso di attività, senza altro contenuto determinato che l'esplicazione della propria energia individuale, sentimento diffuso nell'Umanesimo, ma colto qui dal Boiardo proprio nell'acerbità aurorale del suo primo affermarsi, come ragione di vita, come nascente ideale. La «virtú» nei cavalieri e negli eroi dell'Orlando innamorato è già forte attività umana, che costantemente si oppone all'avversa fortuna e la vince: non solo ne troviamo degli accenni sentenziosi e chiarissimi e insistenti; ma alla lotta fra la Virtú, intesa in questo senso attivo, e la Fortuna, si riferisce il più complesso dei pochissimi tentativi allegorici del poema (II IX), dove Orlando, .che qui è il simbolo dell'eroe «forte» e «animoso» , in cui tutte le qualità umane sono esaltate, insegue e raggiunge attraverso infiniti affanni la Fata Morgana che gli fugge dinanzi, e che rappresenta appunto la Fortuna.
Questo gusto della vita attiva è sentito più o meno da quasi tutti gli eroi dell'Orlando innamorato, sia cristiani che pagani.
A questo gusto umanistico di una vita attiva e individualistica bisogna riaccostare il cosiddetto « sentimento cavalleresco » del Boiardo che è stato oggetto di tanti equivoci da parte dei critici. Ora qui bisogna anzitutto distinguere: se per cavalleria si intende quel complesso di istituzioni civili e religiose, su cui seriamente poetarono gli scrittori medioevali, bisogna risolutamente negare che , il Boiardo abbia voluto esserne il cantore, o pedantesco o nostalgico. L'equivoco ha la sua origine principalmente nell'aver considerato astrattamente la « materia » cavalleresca del Boiardo quasi fosse fornita di un suo particolare contenuto sentimentale medioevale, che dovesse essere subíto dal poeta. Ora invece, possiamo dire che la materia cavalleresca dei due cicli era gustata dal Boiardo e dai suoi ascoltatori proprio nei suoi elementi più distanti dalla religiosità medioevale: cioè in quell'individualismo guerriero e amoroso dei cavalieri, che faceva preferire appunto le leggende arturiane a quelle carolinge, il cui sostrato religioso ormai non poteva più rivivere in quegli spiriti quattrocenteschi.
Quindi la narrazione delle passate gesta cavalleresche non è fatta con quel senso di rimpianto per il passato di chi sente il presente ormai come distaccato da sé, che è sentimento assai complesso, e nato col romanticismo, ma anzi con la serena gioia di chi vi trova il trionfo di quei sentimenti che vivono nella sua presente società. Se il Boiardo ha talvolta accenni ai tempi presenti in confronto del passato, si tratta sempre di accenni ottimistici. Nel celebre proemio del primo canto del secondo libro è esplicitamente dichiarata questa identità fra il tempo in cui fioriva la virtú negli antichi signori e cavalieri, e «con noi stava allegrezza e cortesia», e la vita contemporanea in cui «il mal vento e il verno è compiuto / e torna il mondo di virtú fiorito». Né mi sembra che nelle parole del Boiardo ci sia una nascosta amarezza; anzi il tono di fresca letizia che domina nel proemio è comprovato da quella gioiosissima apertura di paesaggio primaverile con cui il canto si inizia. La polemica è verso i tempi immediatamente passati, e sembra quasi appositamente suscitata per ravvivare l'impressione presente di allegrezza. Una sola volta c'è un chiaro movimento di rimpianto per l'antico valore (di Alessandro e di Cesare) rispetto. al mondo odierno che è tale «che più di fama o di virtú non cale» (II XXII 1); ma anche lì si noti come la virtú che egli vorrebbe nel mondo d'oggi, sia tutta attiva e umanistica («l'uno e l'altro corse con vittoria / dal mar di mezzo all'ultimo oceano »).
Cosí il concetto che il Boiardo e i suoi cavalieri hanno dell'onore cavalleresco perde il suo contenuto religioso e si riempie dell'esigenza tutta umanistica e individualistica di primeggiare, di sentirsi i più forti. Difatti l'onore è sentito come il premio e il nutrimento della «virtù», e il principale elemento della «gloria» (si ricordi Gradasso, che proclamava che il buon signor gentile e valoroso «la gloria cerca e pascesi d'onore»): l'onore è la ricompensa di Rinaldo che si accinge a una difficile impresa: «Mala difficoltà quant'è maggiore / più gli par grata e più degna d'onore»; infatti - come afferma Orlando disprezzando le infinite ricchezze di Morgana - «di periglio e di fatica l'onor di cavalier sol si nutrica»; l'onore è la sola mira dei cavalieri che combattono fra loro: dice Ferraguto all'Argalia: «Io feci questa guerra sol per gloria / non tua morte cercai ma mia vittoria»; e Astolfo a Brandimarte: «Teco giostrai per vittoria e per fama / mio sia l'onor e tua sia questa dama». Cosí anche la lealtà diviene una fiera manifestazione di superiorità sull'avversario: risponde Agricane al messo di Truffaldino che gli propone il tradimento: «Vincer voglio per forza e per ardire / ed a fronte scoperta farmi onore» c'è il nuovo orgoglio dell'individuo che sa e vuole bastare a se stesso.
Anche la cortesia perde quel significato medioevale di «curialitas», di liberalità propria del signore verso i gentiluomini della sua corte, ancora vivo in Dante e nel Boccaccio stesso: la cortesia dei cavalieri boiardeschi si avvicina armai al senso moderno di rispetto per la personalità altrui, divenendo, nella serena coscienza del proprio valore, stima e rispetto per quello degli altri, anche dei nemici. Cortese è Ruggiero quando prende nelle braccia Oliviero da lui stordito in leale duello, e quando aiuta «ridendo» Turpino a sollevarsi dal fosso dove è caduto, nel vano tentativo di rubargli il cavallo. Cortese è re Agramante che accetta la sfida di Brandimarte, e per quanto mal ridotto dal prode avversario, si sforza in ogni modo di fargli onore. È vero che il concetto di cortesia è ancora un po' oscillante nel Boiardo e talora sembra inteso nell'antico senso di liberalità munifica, come quando ad es. si chiama cortese Prasildo che «si diletta in dolce compagnia, / spesso festeggia e fa molti conviti, / giostra sovente ed entra in torniamenti / con gran destrieri e ricchi paramenti». Ma anche qui questa munificenza non è che un mezzo per affermare la propria individualità tra gli altri («molta ricchezza di che egli abbondava / dispendea tutta quanta in farsi onore»), diversa dalla liberalità medioevale, qualità inerente al grado gerarchico:
Si forma quindi in conclusione come una nuova e più ampia religiosità fondata ancora sulle antiche virtú cavalleresche dell'onore, della lealtà, della cortesia, ma intese come umane manifestazioni «di forza e di ardire»: religiosità più ampia nel senso che supera l'angusto individualismo iniziale tipo Rodamonte, che nella sua lirica passione di attività vede soltanto ostacoli da vincere e da superare, e diviene una più riflessa visione di vita, in cui anche gli avversari sono veduti positivamente.
Anch'essi degni di rispetto e di lode e ricchi di merito, in quanto anch'essi mirano ai medesimi alti scopi coi medesimi mezzi forti e leali.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it