CRITICA LETTERARIA: IL QUATTROCENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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IL VOLGARE ITALIANO DOPO LA CRISI DELL'UMANESIMO

di
BRUNO MIGLIORINI



All'esaltazione del latino propria della prima età umanistica, fa seguito una posizione più equilibrata, che si manifesta anzitutto con le opere italiane dell'Alberti; intese a offrire rinnovati esempi di prosa d'arte in volgare. Di qui muovono le successive più alte esperienze del secolo, come quella del Poliziano, di Lorenzo, del Sannazzaro, che giustificano l'adozione dell'italiano col richiamarsi ai grandi modelli del Trecento.

Lo sforzo di Leon Battista Alberti per risollevare il volgare, dalle basse condizioni in cui era caduto, al livello delle lingue classiche, per mezzo dei propri scritti e del Certame coronario, può essere considerato un importante avvio all'umanesimo volgare, il quale giungerà a maturazione con Lorenzo e col Poliziano, col Boiardo e col Sannazzaro.
Il Landino (nell'Orazione inaugurale) riconosceva all'Alberti questo merito:
Ma huomo che più industria abbia messo in ampliare questa lingua che Batista Alberti certo credo che nessuno si trovi. Leggete priego i libri suoi e molti e di varie cose composti. Attendete con quanta industria ogni eleganzia composizione e degnità che appresso ai Latini si trova si sia ingegnato a noi trasferire.
A noi la grafia, la sintassi, il lessico dell'Alberti danno l'impressione di una troppo scoperta intrusione di elementi latini: ma era pur necessario passare per questa fase per giungere a una più matura fusione.

All'altezza d'arte di Lorenzo de' Medici e del Poliziano fa. riscontro la sicura consapevolezza che essi avevano dei meriti della lingua. La raccolta di liriche mandata nel 1476 da Lorenzo a Federico, figlio di Ferdinando d'Aragona (dove predomina il gusto stilnovistico) è preceduta da un'epistola critica, scritta con ogni probabilità dal Poliziano. in cui si celebrano le lodi del toscano:
Né sia più nessuno che quella toscana lingua come poco ornata e copiosa disprezzi. Imperocché, se bene giustamente le sue ricchezze e ornamenti saranno estimati, non povera questa lingua, ma abbondante e politissima sarà ritenuta. Nessuna cosa gentile, florida, leggiadra, ornata, nessuna acuta, ingegnosa, sottile, nessuna ampia, copiosa, nessuna altra magnifica e sonora, nessuna altra finalmente ardente, animata, concitata si potrà immaginare, della quale... con quegli due primi, Dante e Petrarca... i chiarissimi esempi non risplendano...
Più meditate lodi dà Lorenzo alla «materna lingua», «comune a tutta Italia» nel Comento sopra alcuni de' suoi sonetti, che dev'essere di poco posteriore al 1476. Egli viene «considerando quali siano quelle condizioni che danno degnità e perfezione a qualunque idioma e lingua» e le riduce a quattro: la più vera lode della lingua è quella d'«essere copiosa ed abbondante, ed atta ad esprimere bene il concetto della mente»; poi «la dolcezza e armonia»; poi l'essere scritte in quella lingua «cose sottili e gravi e necessarie alla vita umana» (cioè il possedere un'importante letteratura); infine «l'essere prezzata per successo prospero della fortuna» (cioè l'avere un'ampia espansione territoriale). Ci guarderemo bene da anacronistici confronti con i criteri della moderna linguistica funzionale. Importa invece vedere la sicura persuasione dell'alta dignità della lingua, in cui i tre grandi fiorentini hanno espresso «ogni senso». E più ancora si può aspettare dall'avvenire: ché la lingua è appena nella sua adolescenza, «perché ognora più si fa elegante e gentile».
Già i tre grandi fiorentini avevano costituito il principale argomento per i difensori del volgare nella prima metà del secolo; nelle parole del Magnifico si ha una pagina d'esaltazione incondizionata dei tre, ai quali è aggiunto (né la cosa ci stupisce, conoscendo i gusti stilnovistici di Lorenzo) Guido Cavalcanti.
Non è qui il luogo di tracciare la storia della fama di Dante, Petrarca e Boccaccio durante questo secolo o di soffermarci su quel particolare capitolo della storia della fama che è la loro accettazione come modelli scolastici.
Ricordiamo solo quel verso dell'iscrizione che Bernardo Bembo, padre di Pietro, fece apporre nel 1483 alla tomba di Dante:

               Nimirum Bembus Musis incensus Ethruscis:

in essa il patrizio veneziano definisce non soltanto se stesso, ma tutto l'umanesimo volgare.
Negli ultimi decenni del secolo, insomma, il volgare accoglie in sé le esperienze umanistiche, e riacquista fiducia in sé affilandosi ai tre grandi scrittori trecenteschi. Essi avevano sempre costituito l'argomento principale per i difensori del volgare; un segno della loro fama crescente è la loro accettazione come modelli scolastici.
Strettamente connessa con la celebrità dei tre grandi è la fama di Firenze per la dolcezza, l'abbondanza, l'eleganza del dire: e frequenti sono i giudizi di questo tenore dati dai fautori del valgore. Un Siciliano, probabilmente l'Aurispa, verso il 1420 diceva d'aver scordato il siciliano e il greco per la dolcezza del toscano e del latino:

Inter tam dulcis quales fert Tuscia linguas
dediaici Graecam, dedidici Siculam.

Tra i volgari, il Filelfo giudicava «elegantissimus et optimus» il fiorentino e asseriva che «ex universa Italia ethrusca lingua maxime laudatur». Il b. Bernardino da Feltre, predicando a Firenze, si scusa: «non starò a dir secondo l'arte del dir che sta a Fiorenza, ma secundum evangelium».
Quanto al nome della lingua, ancora si adoperano promiscuamente e quasi indifferentemente i termini di volgare, fiorentino, toscano, italiano: non sono ancora nate le dispute a chiarire le differenze (o, piuttosto, a invelenire la questione senza chiarirle).
Una delle caratteristiche dello spirito d'espansione dell'umanesimo volgare è la riconquista di «generi» che le lingue classiche avevano posseduti, e il volgare non ancora: la tragedia, l'egloga, la satira hanno i primi esempi in italiano proprio in questo scorcio di secolo.
Naturale corollario dell'umanesimo volgare è lo sforzo di fissare delle regole per la lingua.
Abbiamo notizia che l'Augurello andava cercando le regole della lingua nel Petrarca. Dei primi tentativi di fissar regole, l'unico documento quattrocentesco che ci rimane è la grammatichetta che apparteneva nel 1495 alla Libreria Medicea privata col titolo di Regule lingue florentine o Regole della lingua fiorentina: l'originale è andato perduto, ma una copia fu fatta nel dicembre 1508 e si conserva ora nella Biblioteca Vaticana. Le Regole sono anonime; l'identificazione dell'autore non è sicura, ma molti indizi fanno pensare all'Alberti.
Appartengono al Quattrocento anche le prime raccolte lessicografiche: glossarietti parte metodici parte alfabetici in cui la voce italiana (veneta) è interpretata in. tedesco (bavarese), il Vocabolista in cui Luigi Pulci raccolse alcune centinaia di latinismi, l'elenco di vocaboli milanesi fatto per curiosità da Benedetto Dei, un glossarietto furbesco, il primo vocabolario italiano-latino, quello di Nicodemo Tranchedino.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it