CRITICA LETTERARIA: IL QUATTROCENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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La scoperta dei codici

Concezioni e ideali dell'Umanesimo

L'Umanesimo e la filologia

Origine e diffusione della filologia umanistica

Il volgare italiano dopo la crisi dell'Umanesimo

La pacata prosa dell'Alberti

Intenzioni e caratteri dell'arte di Masuccio

La varia poesia del Pulci

Il gusto della vita attiva ed energica nell'Orlando Furioso

Lorenzo "dilettante" di genio

L' "ottava" del Poliziano

La lingua poetica del Poliziano

La polemica antiletteraria di Leonardo

La predicazione del Savonarola

Malinconia e idillio nell'Arcadia

 


L' UMANESIMO E LA FILOLOGIA

di EUGENIO  GARIN



«Umanesimo» non è ritrovamento di codici o imitazioni dei classici, ma la scoperta della dimensione della storia in cui quei codici e quei classici vanno collocati e studiati. La coscienza storica che cosí veniva a determinarsi significò anche una coscienza e una valutazione più sicure dell'agire umano, quindi un rinnovato concetto dell'uomo e della sua responsabilità civile e morale. Ciò che permise l'acquisto del senso della storia fu essenzialmente la «filologia», come appassionata ricerca e analisi dei documenti e dei testi e anche come rinnovata verifica dei fenomeni della natura.

Proprio l'atteggiamento assunto di fronte alla cultura del passato, al passato, definisce chiaramente l'essenza dell'umanesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento non va collocata in un singolare moto d'ammirazione o d'affetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben definita coscienza storica. I «barbari» non furono tali per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica. Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciò l'umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano essi Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: perché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, e ha cercato di spiegare Aristotele nell'ambito dei problemi e delle conoscenze dell'Atene del quarto secolo avanti Cristo. Onde non può né deve distinguersi, nell'umanesimo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell'uomo, perché furon tutt'uno; perché scoprir l'antico come tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con esso. Significò tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell'opera terrena e della responsabilità. Ché non a caso i maggiori umanisti furono in gran numero uomini di Stato, uomini attivi, usi al libero operare nella vita pubblica del tempo loro.
Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscienza fu l'accendersi di una discussione critica innanzi ai documenti del passato che, indipendentemente da ogni risultato specifico, permise di stabilire una nostra distanza rispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre - tanti ne contava Leonardo Bruni in cui ottenebrato era lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consapevolezza della storia come farsi umano. Quel punto di crisi si concretò e prese dimensioni precise appunto nella «filologia» umanistica, che è consapevolezza del passato come tale, e visione mondana della realtà e umana spiegazione della storia degli uomini.
Mentre i testi più venerabili sono affrontati nella loro realtà storica, mentre le carte degli antichi privilegi sono sottoposte al vaglio di una critica demolitrice, delle concezioni del cosmo che sembravano ugualmente intangibili si vanno rintracciando le basi in vecchie superstizioni e in lontani errori. Poliziano sorride perfino del codice delle Pandette mostrato in cappella a Palazzo Vecchio a lume di candela: quelle pergamene sono per lui un problema storico: sono sacre solo nella misura in cui è sacra ogni opera umana valida, destinata non a chiudere per sempre, ma ad aprire le vie degli uomini.
Questo è il senso della «filologia» umanistica: e ben si capisce che questi uomini fossero pedantissimi, sensibili come erano alla fecondità di un metodo. Perché v'è tanto commovente amore in quel desiderio esasperato di recuperare quanti più ricordi è possibile dell'umana fatica. Poliziano innanzi a un verso di Teocrito o di Stazio vuol ritrovare ogni sapore, ogni allusione. Poiché la verità aperta agli uomini è tutta in quest'opera, in questo poieìn infaticabile, in questo nostro mondo: ed afferrarne il senso è conquistare il senso di noi, dei nostri limiti, come delle nostre possibilità. Innanzi alle sue « miscellanee » Poliziano ha scritto pagine che non costituiscono solo una grande lezione di umanità: esse definiscono un metodo valido in ogni campo di indagine. Si capisce, leggendole, perché il Rinascimento non fu solo tempo d'artisti, ma anche di scienziati, di Toscanelli e di Galileo; si capisce perché gli sterili, anche se sottilissimi dibattiti dei fisici e dei logici medievali si fecero fecondissimi solo dopo la nuova lezione, che pur sembrava cosí lontana nel suo significato. Si capiscono i medici nuovi usciti dalle scuole di filologia; e innanzi a quella rigorosissima, e vorrei dir spietata istanza critica, si capisce il dubbio di Cartesio. E si capisce anche perché, per circa due secoli, la cultura italiana dominasse l'intera Europa, e l'Italia potesse sembrare terra feracissima di innumerevoli ingegni filosofici.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it