CRITICA LETTERARIA: IL SEICENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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AUTOBIOGRAFIA E STORIA NELLA POESIA DEL CAMPANELLA

di A.  SERONI



Le Poesie del Campanella sono profondamente radicate nell'esperienza vitale dell'uomo e del filosofo, che in esse si esprime cercandovi ora conforto e sfogo, ora uno strumento polemico di sdegno e di invettiva. Su questo fondamento si innestano le numerose influenze letterarie che il critico indica soprattutto in Dante, nel testo biblico, in Petrarca e Tasso, in Lucrezio e nei poeti satirici latini, in Leonardo. Tutta la poesia del Campanella riceve, infine, unità dalla costante immersione dell'ispirazione poetica e della tematica filosofico-religiosa nel terreno tormentato della storia del suo tempo.

Sono le Poesie il diario poetico di una personalità, la cui vita fu veramente una perenne e affannosa tragedia: riformatore, legato alla sua terra e alle sue tradizioni, cercò nella poesia assai spesso conforto e sfogo contro le avversità e gli avversari; a volte, stanco, si lasciò andare, forse - e son questi i momenti nei quali nascono quegli sprazzi di lirica che ai lettori moderni più fanno effetto e impressione; ma che non sarebbero senza quella «durezza» del suo filosofar poetando; non toccherebbero il nostro difficile e sofisticato gusto, se non uscissero insieme agli scoppi d'ira e agli sdegni e all'invettiva: dalla stessa base e dallo stesso fondo, dalla medesima sorgente.
Da questa natura e funzione, ecco, nelle Poesie, la possibilità di uno studio non astratto delle influenze letterarie. Prima, e più evidente, suggerita d'altronde dalle stesse formulazioni della poetica campanelliana, quella di Dante; del Dante dei trattati, in special modo del Convivio, per la intelaiatura stessa della Scelta e l'Esposizione in prosa; ma frequente è l'influsso delle «petrose», delle stesse canzoni dottrinarie, dei versi dottrinari della Commedia: a volte esplicitamente indicati dal Campanella, come nel sonetto Anima immortale, ove si sottolinea che «illuiare» e «incingersi» «son vocaboli di Dante, mirabili a questo proposito» (nella Poetica prima aveva dedicato qualche nota alla funzione dantesca nell'arricchimento della lingua); o come nel sonetto Che gli uomini seguono più il caso, ecc., dove un intero passo dantesco è citato a conforto nella esposizione; e cosí nella Canzon d'Amor, e via dicendo. Per quanto riguarda le moltissime riprese da passaggi biblici (particolarmente dai Salmi) par difficile, per una personalità come il Campanella, parlare di influenze letterarie, se non là dove il «salmo» è ripreso e riassunto anche come «forma». Non sappiamo poi se il Campanella conoscesse direttamente Guittone, e in genere la poesia dottrinaria predantesca; certo qualche punto ci ferma su questa quistione, come, unico esempio e sufficiente,

Co' monti e valli e fiumi e mar distingui
i paesi: altri impingui, altri fai macri,
e dolci ed acri, ...

Petrarca resta ancora, in qualche tono o accento, anche al di fuori delle giovanili e delle amorose; e presente è pure il Tasso delle Rime. Non si dice poi dei classici: Lucrezio in primo piano, e i satirici, da Orazio a Giovenale. Mentre un cenno particolare si vuol fare per Leonardo. Non è possibile accertare quanto degli scritti leonardiani il Campanella potesse conoscere, sia pure per via orale o indiretta; certo eran nell'aria quelle illuminazioni del Vinciano, non solo sul piano e nel clima della scienza, ma anche in quello dello stile. E diversi sono i passi campanelliani che a Leonardo ci fanno pensare, nella esposizione in prosa, specialmente là dove più secca e tersa si fa la scrittura:

Mira che i diversi climi per diverso calore variati, e gli diversi siti producono la diversità degli enti, onde noi .conosciamo la divina arte, di virtú multiplicissima.

Nota come del fummo si fa l'acque nelle caverne de' monti; e più dell'acqua del mare lambiccata come per spogna o per feltro.
Il vento, portando gli odori e 'l freddo e 'l caldo, tira gli animali a' diversi paesi, e di più le navigazioni; e invita a consulta il vento freddo e forte, che unisce i spiriti dentro. Ma il grosso australe fa dormire e in Libia atterra nel sabbione i passeggeri.
Fino allo stupendo e celebre passo dell'elegia Al Sole:

Le virtú ascose ne' tronchi d'alberi, in alto
in fior conversi, a prole soave tiri.
Le gelide vene ascose si risolvono in acqua
pura, che, sgorgando lieta, la terra riga.
I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo;
a' minimi vermi spirito e moto dài.
Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive:
invidio, misero, tutta la schera loro.
Muoiono in Irlanda per mesi cinque, gelando,
gli augelli, e mo pur s'alzano ad alto volo.

Ma dalla tessitura letteraria, dalla dottrina, dal giuoco metrico complesso e talora, nelle grandi composizioni, apertamente barocco, quell'unità spicca, quasi trionfa; e la «rozzezza» e l'«incondito» vogliono essere un invito all'austerità, alla severa attitudine, con l'esempio dei poeti-filosofi dell'antichità, da Empedocle e Parmenide a Lucrezio. Di qui appunto, quando la poesia balza fuori, è carica di sensi segreti («canto un occulto metro», dirà di sé), e un verso, che, staccato, piacerebbe a un moderno decadente (come «Desir immenso delle cose eterne») prende forza e luce dal travaglio stesso concettuale che l'ha prodotto. Così, di questo canzoniere tanto lusingato e non ancora studiato a fondo, può dirsi ciò che si afferma dell'alta e vera poesia: prendere con l'interesse storico e culturale, affascinare con la suggestione che ne promana. Purché non si perda il senso dell'unità dell'opera; che potrebbe essere, in fondo, celebrata e come ribadita da quell'egloga latina che il Campanella, negli estremi anni della propria vita, .indirizzò al re e alla regina di Francia per la nascita del futuro Luigi XIV, «suprema speranza del mondo cristiano»: le Muse di Calabria, che allattarono Virgilio, mi spoglino dalla vecchiezza e faccian sì che in me giovinezza si rinnovi, mentre m'accingo a cantare cose nuove. E ripeteva i versi augurali di Virgilio, «Redeunt Saturnia regna», e li commentava con la rivoluzione copernicana; aggiungeva presagi profetici per la identità del giorno della nascita del Delfino col giorno della propria nascita:

Quo die ego natus, venisti in luminis oras,
instaurare ego Musas, tu nova saecula rerum.

Immergeva, auspici. le Muse calabre di Ennio', l'autobiografia nella storia.
E la storia fu, in un'epoca di grandi rivolgimenti, il cozzo decisivo di due mondi, e il suo proprio isolamento: la provincia, il convento, il carcere, l'esilio; desolazione e dominazione spagnola; rifugio in una «missione» religiosa che lo spingerà poi, coscientemente, alla lotta contro i residui della scolastica e lo farà profeta inascoltato di un mondo nuovo; e la fine in esilio. La pigra e stantia istruzione dell'infanzia, dalla grammatica alla fisica aristotelica; un buttar via continuo, d'inutili esperienze, di formalismi costretti. Di qui il suo esser irregolare, contro le accademie, e l'aver consumato, come San Girolamo, più d'olio che i suoi avversari di vino. Infine, l'esperienza vera, quella della Natura, la esperienza leonardiana, che lo conduceva ad affermare «Io imparo più dall'anatomia d'una formica o d'una erba», nella natura, «il gran libro di Dio»; e il suo studiare nonostante tutto, il suo esser vissuto «ben seimila anni in tutto il mondo». Il desiderio di azione, il cozzo con la realtà e la società politica; e le contraddizioni che ne derivarono e gli amareggiarono la vita. Di tutto questo c'è nelle Poesie la traccia viva, il segno profondo.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it