CRITICA LETTERARIA: IL SEICENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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I LIMITI DELLA "SECCHIA RAPITA"

di A.  MOMIGLIANO



Secondo il Momigliano, il poema del Tassoni gode di una fama eccessiva: alla felice invenzione del genere eroicomico e alle suggestive promesse dell'inizio segue uno svolgimento di maniera, ricavato dai modelli dell'Ariosto e del Tasso ridotti a dimensioni anguste da una tendenza al bozzetto e alla macchietta. Soltanto le Filippiche rivelano nel Tassoni uno scrittore e un uomo di autentico vigore e impegno.

Alessandro Tassoni ebbe una fortuna ambigua. Cantò l'eroicomica lotta per una secchia con l'intenzione, dicono, di deridere le rivalità campanilistiche, e risvegliò, sul principio del nostro secolo, un culto per la sua memoria, in cui non si può negare una leggera esagerazione campanilistica. Fu giudicato dal De Sanctis e da tutti quelli che non si disperdono in curiosità particolari un uomo di scarsa vita interiore, e continua a occupare nelle storie letterarie e nelle indagini critiche un posto sproporzionato. Molta letteratura del suo secolo ci sembra oziosa: eppure nei nostri manuali riserbiamo ancora una pagina per i suoi Pensieri diversi e per le sue Considerazioni sopra le rime del Petrarca, dove le futilità hanno certo un peso assai maggiore che i cenni di sana ribellione contro gli idoli della cultura e della poesia.
Come si spiega che il Tassoni, uomo di rispettabile statura soltanto in un'opera che gli fu contestata - Le Filippiche -, ingegno balzano e leggero, poeta di poco superiore ai burleschi del Sei e del Settecento, attiri su di sé tanta attenzione?
Le ragioni sono estranee alla storia dell'arte. Il Tassoni si vantò fondatore d'una «nuova sorte di poesia mista d'eroico e comico, di faceto e grave»; e molti, riconoscendogli questo vanto di creatore d'un genere letterario, in certo modo si lasciarono imporre dalle sue stesse parole il criterio con cui giudicarlo, e gli attribuirono a gloria l'aver cominciato una pagina solennemente per finirla con una buffonata, l'aver mescolato a capriccio i due toni, e l'aver messo insieme fatti del Due e del Trecento. Non c'è un'ottava del poema dove, comicamente o seriamente, risuoni un accento di passione paragonabile alla descrizione sprezzante della Spagna arida e degli spagnoli pitocchi che, «avvezzi a pascersi di pane cotto al sole e di cipolle e radici e a dormire al sereno, con le scarpe di corda e la montiera parda da pecoraro, vengono a fare il duca nelle nostre città». Se lo scrittore delle Filippiche si è avvicinato al tono dei grandi patrioti della nostra storia letteraria, quello della Secchia è rimasto al tono misero che è comune a tutta la letteratura eroicomica del Seicento. L'orizzonte spirituale del poema è angusto: vi ritroviamo quel fondo tra satirico, burlesco, libellistico e bizzarro che ha cacciato nell'oblio una gran parte della poesia e della prosa del tempo; e in quel gusto, in quella mania di allusioni a costumi e a uomini contemporanei, sentiamo - assai più spesso che lo stimolo morale - qualcosa di pettegolo e di ozioso in cui, ancora, si riflette un po' della fisionomia del secolo.
Proprio da quest'angustia sono nate le poche ottave belle del poema; e perché sono nate da un angusto atteggiamento dello spirito, conservano un valore assai modesto. La Secchia si risolve tutta in una serie di macchiette, in cui si tradisce l'attitudine a cogliere, per semplice spasso, gli aspetti triviali della vita e degli uomini. Quello che non è macchietta - ed è moltissimo -, è facilità narrativa imparata dall'Aríosto, fasto imparato dal Tasso, impoveriti, come succede quando l'arte diventa mestiere.
Il Tassoni aveva avuto una mossa felice nella proposizione dell'argomento: «Vorrei cantar quel memorando sdegno...»; perfetta dosatura di canzonatura e di scemenza. L'Ariosto incomincia, risoluto e impetuoso: «Le donne, i cavallier, Tarme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto»; il Tasso, risoluto e grave: «Canto l'armi pietose e 'l capitano...»; il Tassoni si affaccia dal tendone del palcoscenico con una pittoresca esitazione di giullare che vuol fare il poeta e teme una scarica di mele marce. Ottima promessa: ma il Tassoni aveva la vena necessaria per mantenerla
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2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it