CRITICA LETTERARIA: IL SEICENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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LA VIRTU' POETICA DEL CHIABRERA

di E.  N. GIRARDI



Pur dispersa nell'eccessiva varietà dei generi, la vena poetica del Chiabrera si ritrova costante quando è impegnata a rappresentare analiticamente gli aspetti della realtà naturale, che tende ad accumulare, con insistenza e con sovrabbondanza tipicamente barocche. Un accurato esercizio tecnico presiede a questa rappresentazione: la varietà dei metri, i frequenti diminutivi e vezzeggiativi, la rapidità delle rime sdrucciole, e altri elementi ancora che costituiscono la novità perseguita del poeta, rispondono appunto all'intenzione di raffigurare un movimento agile e giocoso di forme e di oggetti.

Chi abbia la pazienza di cercarne i segni fra la congerie delle sue composizioni liriche - non solo tra queste, più celebrate, di genere melico, ma anche, frammentariamente, fra le canzoni eroiche e lugubri, tra i poemetti, ed i sermoni - dovrà pertanto riconoscere nel Chiabrera una virtù poetica che l'ambizione tutta secentesca di percorrere ogni campo della poesia, impegnandosi anche in prove superiori alle sue reali possibilità, non ha potuto interamente soffocare.
Occorrerà però lasciar da parte, nella lettura critica, il modulo romantico e psicologistico della «sincerità», in base al quale la poesia del Chiabrera dovrebbe celebrarsi nei contenuti civili, religiosi, moralistici o erotici ch'egli è venuto via via più o meno opportunamente assumendo nel corso delle sue prove. Da questo punto di vista non si salvano neppure le migliori delle canzonette che il Poeta ha definito «amorose» e nelle quali in verità non trovi, come i critici più attenti hanno riconosciuto, né un palpito d'amore, e neppure, a mio parere, un moto di schietta sensualità.
La musa del Chiabrera non solo non è eroica o religiosa o moraleggiante, ma neppure veramente sentimentale, patetica; è invece edonisticamente rivolta al mondo «fisico», gode della realtà fenomenica, delle cose in quanto sono materialmente sensibili, visibili, e quindi poeticamente rilevabili nella loro consistenza e rappresentabili nella loro apparenza e nel loro moto. (Una musa abbastanza secentesca, in fondo).
È significativo, a questo proposito, quanto egli scrive nella Vita sugli unici due, tra i maggiori poeti italiani, ai quali non risulta che abbia mai mosso alcun appunto di poca «arditezza»: «a Dante Alighieri dava gran vanto per la forza del rappresentare e particolareggiar le cose, le quali egli scrisse; ed a Lodovico Ariosto similmente». Ma questa disposizione a rappresentare e particolareggiare le cose - intese, naturalmente, nei limiti che si son detti, come consistenze e apparenze fenomeniche, siano oggetti, o fenomeni di natura: refolo di vento, cresta d'onda marina o nuvola temporalesca, o siano atteggiamenti umani traducibili in mimica o in spettacolo - questa disposizione è anche sua, e nei momenti in cui riesce a prevalere, fra tanta velleità di «tuoni» e «maniere» fittizi, in quelli avverti l'accensione del sentimento poetico.
Si giudichi in questa prospettiva la lingua del Chiabrera. Che quando il Poeta non si costringa a scegliere le parole in base a pure esigenze di rima o d'effetto sonoro, rende esattamente il piacere, se anche spesso secentescamente prezioso, dell'oggetto e del fenomeno.
Non per questo diremo che la poesia del Chiabrera vive là dove tacciono o son meno presenti le ragioni della tecnica, quasi che le più serie e plausibili tra tali ragioni non traessero origine da quello stesso gusto oggettivo e figurativo che è caratteristico del Poeta. A quel gusto appunto deve rispondere, secondo la sua stessa intenzione, l'endecasillabo sciolto («... ha più di libertà nel posarsi a suo grado e nel trascorrere, e più comodamente può esprimere le cose e particolareggiare»); ed in esso trovano la loro ragion d'essere, per altro verso, anche le altre più importanti caratteristiche della «riforma» chiabreresca: le strofette e i versi brevi, le rime tronche e sdrucciole, i ribattimenti di rime e le coloriture lessicali, in quanto cioè si tratti di rappresentare con immediatezza mimica e fonica, non più singoli oggetti o fenomeni o atteggiamenti, bensì il loro disporsi in un movimento aggraziato o giocosamente rapido, il loro «trascorrere» quasi in danza, ove il composto ritmico e lessicale o corrisponde ad una oggettività più rarefatta, preziosa e mossa:

 

Corte, senti il nocchiero
che a far cammin n'appella;
mira la navicella
che par chieda sentiero:
un aleggiar leggero
di remi, in mare usati
a far spume d'argento,
n'adduce in un momento
a' porti desiati.

o riproduce, a modo di armonia imitativa, impressioni di natura:

 

Omai per aria corrono turbini
e nubi gravide versano grandini,
né sostengono i campi
omai l'orribil impeto.

vibra lo scherzo e 'l gioco,
né mai diviso
mirasi il riso
dal vostro dolce foco.

Al posto del sentimento d'amore o del piacere sensuale hai lo spettacolo pirotecnico di una fantasmagoria d'amorini e di vive faville.
La musa del Chiabrera melico non è malinconica («uomo pensoso io stimo che sia acconcio a poetare; il melanconico non stimo acconcio né a ciò, né ad altro»); non ama indugiare, e ripiegarsi sulle sue note; è vivace e allegra; tutta volta all'esterno, si vale soprattutto del suono delle parole e dei ritmi per descrivere le cose che le danno piacere ed il suo stesso gioioso «trascorrere» per esse
.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it