CRITICA LETTERARIA: IL SETTECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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LA GRAZIA ELEGANTE DELLA LIRICA ARCADICA

di CARLO  CALCATERRA



L'Arcadia ha ridato valore alle voci del sentimento e al tono idillico e pastorale in polemica con l'ispirazione sensualistica e l'ingegnosità stilistica del Seicento; ma spesso questa contrapposizione, per povertà di sostanza poetica, generò un manierismo del sentimento. L'Arcadia raggiunse risultati di genuina poesia quando, superato l'atteggiamento polemico, espresse la sua vena sentimentale in forme limpide e impeccabili, nelle quali ogni sensualismo pare spiritualizzato nell'eleganza musicale della parola e del verso. Questi risultati possiamo cogliere in poeti come il Rolli e, soprattutto, nel Metastasio con il quale la lirica settecentesca espresse il suo fragile equilibrio di sentimento e galanteria, sincerità e giuoco.

L'Arcadia in ultima analisi non fu che un ridar valore alle voci intime del sentimento sul dominio dei sensi, che, inaridendo le sorgive dell'ispirazione, avevano condotto l'arte del verso al polverizzamento delle immagini e al mero suono; fu un affinamento della piccola idealità sentimentale della lirica amorosa e pastorale, che nella crassezza stilistica del Seicento era rimasta viva come un'oasi campestre e idilliaca e al termine del secolo pareva ormai l'unica forma poetica ancora radicata nell'anima di contro alla fantasmagoria delle iperboli vuote e insensate. Persino il Tesauro, che pure era stato un secentista al cento per cento, avvertendo che tutte le argutezze in ultima analisi erano fondate «in alcun de' Topici fallaci», aveva una volta mestamente concluso: «Ad udirle sorprendono l'intelletto, parendo concludenti di primo incontro; ma, esaminate, si risolvono in una vana fallacia: come le mele del Mar Negro, di veduta son belle et colorite; ma se le mordi, ti lasciano le fauci piene di cenere et fumo».
L'Arcadia volle reagire a quella vana fallacia, in nome della semplicità e del sentimento, ritrovare, sotto la retorica del « mirabile » diventato bislacco e matto, quella briciola d'umanità, che ancora rimaneva all'ispirazione. Ma a sua volta, per la povertà di intima sostanza poetica, come se l'anima fosse estenuata, si perdette nel sentimentalismo, vale a dire nel manierismo del sentimento; la delicatezza si mutò in leziosaggine; alla grossa retorica dei secentisti postmariniani segui una spiritualità eterea e vaga, priva di consistenza, un pastoralismo inguantato e profumato sotto un ammasso di trine, pizzi, fronzoli e veli. Per aver un palpito di poesia fu necessario superar la contrapposizione polemica all'«idra del Seicento» (la frase è del Crescimbeni): e questa condizione di serenità lirica, in cui sentimento e poesia parvero identificarsi, non fu raggiunta che dal Rolli, cantor soave e sospiroso 'di Venere e Zeffiro, lirico della tenerezza e della grazia.

                    O stagion degli amanti, primavera,

fu la nota fondamentale delle prime sue Elegie. La dolcezza accorata con cui tutti intonavano:

La neve è alla montagna,
l'inverno s'avvicina;
bellissima Nerina
che mai sarà di me?

fu la lusinga incantatrice delle sue canzonette d'amore, che per cinquant'anni formaron la delizia di dame e cavalieri in tutta Europa. Il sentimento espresso in una forma diafana e impeccabile, così da spiritualizzare il fremito sottile della contemplazione sensuale, apparve la bellezza nuova de' suoi endecasillabi, che raffigurano i momenti ineffabili della trepidazione, in cui l'affetto divien amore e ardore, e il poeta quasi teme che un desiderio troppo impetuoso appanni la parola alabastrina.

Deh fissa, o Lesbia, tutto amoroso
lo sguardo languido negli occhi miei
già fissi e tremulí a tue pupille;
come languiscono soavemente
l'una e l'altra anima!...

Il Rolli cercava di dar varietà d'intonazione e di movenze a' suoi ritmi e criticava come poeta di una sola corda il maggior suo emulo, il Metastasio, formatosi come lui alla disciplina del Gravina e salito a gran fama dopo che egli aveva già lasciato Roma per Londra. Ma in realtà il Metastasio ebbe vena più copiosa di quella del Rolli e maggior calore lirico. Non solo lo superò per fantasia e sentimento nei melodrammi, ma per affettività ispirata e fluidità vocale nella stessa poesia lirica. Le sue canzonette furono il capolavoro melico d'Arcadia. Nessuno espresse con forma cosí perfetta come la sua quell'accento originale della melica settecentesca, che al sentimento univa sempre la galanteria, al giuramento per l'eternità il brivido di chi non ignora che il cuore è trasmutevole, all'espressione solenne della fedeltà assoluta o del disdegno implacabile un nascosto e quasi impercettibile sorriso, per cui il poeta, il musico e gli ascoltatori, mentre s'inebriavano delle loro stesse immaginazioni, si dicevano nell'intimo che l'amore, gli abbandoni, i ritorni sono un dolce giuoco.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it