STORIA E IDEOLOGIA
NEGLI "ANNALI D'ITALIA"
di
MARIO FUBINI
Gli Annali appaiono come la somma dell'erudizione muratoriana ma anche come il campo nel quale l'autore stabilisce un costante, anche se sfumato, raffronto fra i suoi principi e ideali e il corso delle vicende storiche italiane. La narrazione degli Annali si muove cosí in un tipico compromesso fra il rigore preciso, dell'informazione e la vivacità degli spunti critici, che si rispecchia nello stile medio ricco spesso di arguzia e di umori e che è il riflesso della personalità del Muratori nutrita di cristiana pietà e di borghese, illuminata prudenza.
In un'opera di cosí vasta mole, di carattere piuttosto informativo che propriamente storico, nella quale non ogni argomento poteva offrire un eguale interesse al
narratore, era facile che prevalesse, o in tutto o in più d'una parte almeno, il tono manualistico, impersonale di una compilazione: per non dire dell'età, in cui egli la stese, gli ultimi suoi anni. Ma non vi è negli Annali stanchezza senile: piuttosto si direbbe che giunto al termine della sua vita e del suo lavoro, lo studioso si rivolga alla materia che le lunghe fatiche gli han reso familiare e senta il bisogno di disporla dinanzi a sé, con ordine e con chiarezza, e a un tempo di enunciare il proprio giudizio su tanti avvenimenti, su tanti personaggi, un giudizio più che mai fermo, reso sicuro da una cosí lunga e vasta esperienza di studi e di uomini. Gli Annali sono perciò la somma dell'erudizione storica dell'autore, e sono insieme il campo, in cui la sua personalità morale, che era stata il fondamento di tutto il suo lavoro, si è provato in un continuo, anche se discreto e talora dissimulato, raffronto tra quelli che sono i suoi principi, i suoi ideali e la realtà storica, quale gli offrono le vicende dell'Italia dall'inizio dell'era volgare sino ai giorni suoi.
Non per questo, è noto, essi sono una storia «filosofica», come se ne comporrano nel secondo Settecento, la Storia di Milano di Pietro Verri, o il tuttora inedito Saggio sulla storia d'Italia del fratello di lui Alessandro, o il Risorgimento del Bettinelli: ché fine precipuo dell'opera muratoriana resta appurare la verità dei fatti, il vagliare le contrastanti testimonianze, l'esporre con precisione e copia di particolari, e senza perdere di vista l'insieme, le vicende politiche e militari di un cosí vasto spazio di tempo, non altrimenti delimitato che per un'estrinseca ragione cronologica. Ma, anche in questo caso ci soccorre il libretto del Buon gusto, riteneva il Muratori che lo storico, per utilità dei lettori, avesse da «aggiugnere» al racconto dei fatti «nuove riflessioni, ma con garbo e a tempo e con segreta accortezza», riflessioni, per altro, assai diverse da quelle «politiche o ingegnose», con cui certi storici del Seicento, avevano non « spruzzate ma affogate » le storie loro (e «quanto lo stile di costoro fu affettato e ridicolo, altrettanto insipide e mal'incastrate furono cotante sentenze») e negli Annali appunto si riserbò, diremo manzonianamente, un «posticino» per dire la propria opinione sui fatti che veniva esponendo, per fare delle considerazioni di tutt'altra natura, s'intende, di quelle degli storici «tacitisti», derisi nella pagina delle Riflessioni. Perciò poteva per poco interrompere la narrazione dei fatti del Barbarossa, per commentare con queste parole, notissime, la distruzione di Milano, che tanto prestigio aveva acquistato all'imperatore e infuso tanto sgomento ai suoi avversari: «Ma resterebbe da vedere se gloria vera s'abbia a riputare per un monarca cristiano, il portar l'eccidio ad un'intera insigne città, con distruggere e
seppellire tante sì belle fabbriche e memorie dell'antichità, che fino a' tempi d'Ausonio, quivi si conservavano. Ché in pena della ribellione si dirocchino tutte le mura ed ogni fortificazione, ciò cammina; ma poi tutto, chi può mai lodarlo e non attribuirlo piuttosto a un genio barbarico? A mio credere, i buoni príncipi fabbricano le città, e i cattivi le distruggono»; e osservazioni consimili, ricorderà il lettore, egli sparse negli Annali, e con queste sentenze più esplicite, incisi e persino semplici epiteti, nei quali «con segreta accortezza» riusciva a dar voce al suo giudizio riposto su sovrani e su pontefici, e alla preoccupazione sua costante della «pubblica felicità».
Ne viene agli Annali il loro sapore di cosa «tra lo stil de' moderni e il sermon prisco», una duplicità evidente, per la quale gli spiriti umanitari non informano di sé tutta l'opera, di natura prevalentemente espositiva ed esclusivamente. politica, ma han bisogno per affermarsi di quelle sentenze, di quegli incisi, di quegli epiteti: che è poi il segno caratteristico dell'età, che fu del Muratori, e di una mente, quale fu la sua, a cui era propria, sappiamo, in ogni questione, una posizione media, cosí incline sempre al compromesso fra opposte esigenze. Compromesso, in questo caso, tra il lavoro di estesa e coscienziosa informazione, e gli spunti di critica, che non si fanno ancora criterio di interpretazione, o aperta e tanto meno violenta polemica contro individui, costumi, istituti: compromesso fra le ragioni della pura politica e le ragioni dell'umanità, pur cosí fortemente sentite dal cristiano, dall'illuminista Muratori. Il quale conosceva troppo l'arte della prudenza avendola praticata, e non senza successo, egli stesso, per disconoscerla nel più grande teatro della politica, nei contrasti fra potenti: e troppo era compenetrato di una tradizione storica e politica, che si rifaceva al Rinascimento, per non essere disposto a esaminare e ad esporre le ragioni meramente politiche dei successi e degli insuccessi, la ragione della forza, che sola si può opporre ad un'altra forza. Ma la politica, la pura politica non era tutto per lui: non nel campo delle ricerche storiche, ove rivolgeva di preferenza la sua attenzione ad altro soggetto che non fossero le guerre, le paci, i trattati, il vario gioco insomma della diplomazia e delle armi, bensì a una materia più ampia che sarà il soggetto delle nuove storie settecentesche, la «storia della civiltà», sia in tante dissertazioni delle
Antichità italiane, sia caldeggiando, nelle Riflessioni, un'opera che «descrivesse esattamente lo stato presente della nostra Italia». Né era tutto la politica nemmeno negli Annali, che pur sono intesi a narrare, illustrandone le ragioni prossime, del sorgere e del declinare di potenze, di conflitti guerreschi e di maneggi di alta politica: ché di fronte alla materia della sua narrazione è palese nello scrittore un certo distacco, come di chi non concede tutto il suo cuore a quanto viene narrando, ai protagonisti di quelle illustri vicende. Importanti senza dubbio anche per lui quei fatti e degni di essere ricordati e studiati: ma non importanti essi soli, e non cosí importanti da farci dimenticare che essi non sono, come talora i politici si illudono, tutto.
Di qui le sentenze, di cui si è detto; di qui, più frequente, un sorriso, talora inavvertito dallo scrittore, con cui sono riferiti fatti strepitosi o disegni e macchinazioni politiche, e in genere quei modi familiari, a noi ben noti, e tante volte rinfacciati al nostro scrittore, come poco confacenti alla dignità della materia (l'esercito che «alza i tacchi», «mettere una pulce nell'orecchio» a un sovrano!), coi quali anche se il Muratori non se ne accorge, viene più d'una volta ad esprimersi un'effettiva, se pur relativa, svalutazione della pura politica, o, almeno della presunzione di quanti altro che la politica non riconoscono. Quel che non era o non poteva divenire ancora cosciente e sistematica opposizione di due mondi, quello della pura politica, e quello degli affetti e delle idee dello scrittore, si manifestava, prima che in questo o in quel pensiero qua e là enunciato, nello stile degli Annali, di cui fu detto, e bene, che sono «narrati come un saggio padre narrerebbe le proprie vicende ai suoi figlioli», e nei quali per questo la politica sembra perdere qualcosa del suo tradizionale prestigio: non è sempre lo stile il primo e più sensibile specchio di stati d'animo, che più tardi soltanto diverranno pensiero del tutto consapevole?
È in quello stile per noi il segno della presenza del Muratori che conosciamo, nella sua calma e pacata narrazione: rimane, sentiamo, di fronte a noi, mentre va dipanando le fila della politica e narra di quei suoi personaggi, delle loro gesta, delle loro ambizioni, felici o infelici, di clamorose vittorie e di clamorose catastrofi, la persona di lui, del modesto e sereno studioso, che non si lascia trasportare dal suo soggetto, saldo e fermo nella sua concezione di vita, col suo spirito umanitario di uomo del primo Settecento, di cristiano, ma anche, non spiaccia la parola, di borghese. Ché la svalutazione della ragione politica da noi avvertita nello stile stesso degli Annali, non ha origine tanto da uno spirito religioso, per il quale le vicende mondane sono costantemente raffrontate all'eterno (anche se questo motivo non può dirsi del tutto estraneo all'animo del Muratori), quanto da un interesse, da una sollecitudine pratica, non soddisfatta dalla pura politica, dalla sollecitudine per quella, che ancora una volta non sappiamo definire se non col titolo del libro muratoriano, la Pubblica felicità: e nella «pubblica felicità» sono comprese le ragioni più alte dell'umanità, ma anche quelle del più modesto, prosaico benessere, cosí che il Muratori, ispirandosi a quel suo ideale, può uscire in parole di nobile sdegno e di viva commozione per le sofferenze delle vittime di qualche «pubblica calamità», di prepotenze e di soprusi di sovrani e di conquistatori, ma lamentare altresí con pari vivacità danni di altra natura, come quando della «strabocchevole tassa di contribuzioni», imposta ai Genovesi dagli Austriaci occupanti («Non sarebbe a una città povera toccato un sì indiscreto salasso»), dice che «a molti può fare ribrezzo». Non meno importanti delle guerre e delle paci, possono sembrare a chi cosí consideri le cose umane, le vicende delle stagioni: né è senza significato, a me pare, anche se queste notizie meteorologiche rientravano nel «genere» annalistico, che gli Annali, dopo una rassegna, intelligente e precisa, delle condizioni degli Stati d'Italia alla fine della guerra di successione austriaca, si chiudano con la relazione delle vicende meteorologiche dello strano inverno e della strana primavera del 1749, altrettanto accurata quanto altre di maneggi diplomatici e di campagne militari e intonata tutta a una bonaria saggezza. Cosí il racconto di mille e settecento e più anni di storia può finire con la citazione di un proverbio popolare: « Né pioggia né gelo vuol restare in cielo: è proverbio de' contadini toscani ». E qua e là nel corso della narrazione può affiorare il dubbio che tutta la storia politica perseguíta con tanta diligenza di pagina in pagina, non sia se non un vario e strano gioco e talora soltanto una serie di sventure e di
dolori. |