Tragedia pastorale
rappresentata per la prima volta nel marzo 1904. II giovane figlio
di Lazzaro di Roio, sta per andare a nozze con Vienda di Giave:
nella casa le sorelle e la madre e i parenti dello sposo assolvono i
doveri prescritti da un antico rituale (scelta della veste, doni,
benedizione). Questa atmosfera di arcaica solennità è turbata
dall'irrompere di Mila, figlia del mago Jorio, «bagascia di palo e
di frasca», che seguita da una torma di mietitori infoiati, per
sfuggirli si rifugia presso il focolare, tra lo sgomento delle
donne. Ma Aligi la difende e pone sulla soglia una croce di cera di
fronte alla quale i mietitori indietreggiano. Appare intanto Lazzaro
sostenuto da due uomini e insanguinato, essendo stato ferito in una
rissa per il possesso di Mila: il rito nuziale è profanato e
interrotto.
Aligi è ritornato col suo gregge in montagna; lo segue, compagna
casta e fedele, Mila. Tra i due presto, irresistibile, nasce
l'amore, come consonanza di anime e forza di natura: Mila lo sente
come una colpa, ma ha anche coscienza del suo riscatto («Rinata fui
quando l'amore nacque»). Arriva intanto Lazzaro di Roio bramoso dì
Mila, si scontra per questo col figlio Aligi, che alla fine lo
uccide. Quando il parricida è condannato dalla comunità ad essere
chiuso in un sacco con un mastino e buttato nel fiume, sopraggiunge
Mila che per salvarlo si assume la colpa di tutto, dichiarando di
averlo «affatturato» e spinto al delitto. Anche Aligi, a cui prima
del supplizio è stata data una pozione smemorante, crede alla
fascinazione di Mila. Questa affronta il rogo - cui il popolo come
«magalda» l'ha condannata - come sacrificio e purificazione («La
fiamma è bella!»).
Nella produzione teatrale dannunziana prevalgono complessivamente il
motivo superomistico e quella tipologia femminile perversa e fatale
di cui abbiamo offerto esempio col testo precedente. La fisionomia
de La figlia di Jorio in questa produzione è piuttosto particolare
e merita qualche sia pur rapida considerazione in vista di una
lettura integrale dell'opera.
Se si tiene presente l'opera nella sua integralità risulta evidente
che Mila ha i segni anche lei di quella femminilità rovinosa che
abbiamo già visto, scatena anche lei in quanti la circondano quel
l'"ossessione carnale" che D'Annunzio aveva a lungo
descritta e continuerà a descrivere, e che in questo caso specifico
genera il parricidio di Aligi e, dopo, la sua condanna a morte. Fin
qui saremmo quindi all'interno di una tematica non nuova nella
produzione dannunziana. Ma su questa viene inserito come elemento
nuovo - che ha conseguenze fondamentali nella caratterizzazione del
personaggio - l'amore che, arcano e per così dire smaterializzato,
sorge tra Mila e Aligi: un amore che farà di Mila un'eroina che
consapevolmente sceglie il sacrificio. E a lungo noto e quasi
«proverbiale è rimasto l'ultimo suo grido ("La fiamma è
bella!") quando, condotta al rogo, esaltata di sacrificio e di
amore, celebra la bellezza della fiamma come simbolo di
purificazione» (E. De Michelis).
Sul piano specifico delle forme teatrali l'opera si presenta come
una singolare contaminazione tra dramma sacro e favola pastorale, e
tutta la vicenda è proiettata su uno sfondo che, al di là di
qualche accenno al folklore abruzzese, è una sorta di mondo arcaico
nel quale vigono le eterne e metastoriche pulsioni del sesso, del
sangue e dell'amore. E per colorire di "primitivo", di
"natura" il mondo che rappresenta D'Annunzio si serve di
vari artifici formali: dall'adozione di un lessico impreziosito da
una sua patina dialettale (v. 43, coscina; v. 48, làmpana) o
arcaica (v. 16, origlieri; v. 22, partisco) alla particolare cadenza
da canto popolare («si cammina cammina lungo il mare»; «Lungo è
il cammino, ma l'amore è forte») che assumono gli endecasillabi. |