Si tratta
dell'opera poetica più notevole e più famosa di D'Annunzio; doveva
essere costituita da 7 libri quante sono le Pleiadi; consta invece
di soli 4 libri (o di 5, se si include il libro di Asterope).
Il primo libro Maia fu (probabilmente)
composto nel 1903 e pubblicato nello stesso anno; il sottotitolo ne
chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione, non
scevra da toni magniloquenti e oratori, dell'energia vitale; un
naturalismo pagano impreziosito (o sopraffatto) dai riferimenti
classici e mitologici.
Il secondo libro, Elettra, composto fra
il 1899 e il 1902 e pubblicato nel dicembre 1903 con data 1904,
celebra gli eroi della atrio (Notte di Caprera) e dell'arte (Per la
morte di Giuseppe Verdi) nella terza parte - difficilmente
collegabile con le altre - sono cantate 25 "città del
silenzio" (Ferrara, Ravenna ecc.); nella quarta è il famoso
Canto augurale per la Nazione eletta ché infiammò di entusiasmo i
nazionalisti nostrani.
Il terzo libro, Alcyone, fu pubblicato
assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del
D'Annunzio poeta (La pioggia nel pirneto, La sera fiesolana,
Madrigali dell'Estate, i Sogni di terre lontane).
Il quarto libro raccoglie canti celebrativi della conquista della
Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul « Corriere
della Sera» e poi in volume nel 1912.
Vengono considerati una continuazione di questi quattro libri i
Canti della guerra latina, composti e pubblicati fra il 1914 e il
1918 (costituiranno, in seguito, il volume intitola Asterope).
Alcyone: L'onda
È una delle più famose liriche di D'Annunzio (il che non
significa delle più valide); e, come si legge sul manoscritto
autografo, fu composta il 21 agosto 1902 e pubblicata per la prima
volta nell'Alcyone. Il lungo componimento ha una finalità fonica
più che descrittivi: il poeta si impegna virtuosisticamente per
gareggiare sul piano del linguaggio con lo spettacolo naturale «in
guisa che le parole paiono rendere in immediatezza di suoni i
fluttuanti giuochi del mare accolto in una cala tranquilla».
Una prima lettura di questo testo potrebbe essere fatta mettendone
in evidenza con una puntuale analisi la dimensione fonica (o meglio:
fonosimbolica) che è indiscutibilmente in esso prevalente. La
iterazione di suoni favorita dalla rima baciata e accentuata dalla
brevità dei versi (vv. 1-2 tranquilla: scintilla; 4-5: l'antica:
lorica; 16-1 i s'ammorza: rinforza ecc.); l'incalzante susseguirsi
di voci verbali legate da affinità fonica (vv. 63-66); il
riecheggiamento interno di certi gruppi fonici (25-26 ridonda: onda;
24-25 «Ma il vento riviene /rincalza, ridonda») sono gli artifici
tecnici ai quali il poeta ricorre per realizzare questa dimensione
fonica del componimento. Ma un esame di questo genere - nel quale
per la verità qualcuno è arrivato a sottigliezze piuttosto
eccessive - può solo costituire il punto di partenza per arrivare a
conclusioni più generali. Per arrivare, per esempio, a sottolineare
che quello che più interessa a D'Annunzio in questi cento versi è
il virtuosismo linguistico, una strenua lotta impegnata con la
lingua per sfruttarne tutte le valenze. Più che poeta della natura
(come ne La sera fiesolana) qui D'Annunzio è "poeta del
vocabolario". Una conferma di questa sostanziale
"freddezza" del componimento-che resta comunque una
straordinaria prova di virtuosismo (il Roncoroni parla di
«funambolismo verbale») - ci viene da quanto ha ampiamente
dimostrato il Praz e cioè che la lirica è tutta tramata di termini
e di immagini che si trovano nel Vocabolario marino e militare del
Padre Maestro Alberto Guglielmotti, alle voci "onda" e
"vento". Già per altre sue pagine D'Annunzio aveva fatto
ricorso al lessico tecnico di questo testo, ma, scrive il Praz, dopo
avere addotto moltissimi esempi, «il lessico non serve soltanto di
sussidio all'ispirazione dannunziana: talvolta un'intera poesia
sgorga da una concordanza di parole belle e bene sonanti. È il caso
della celeberrima Onda [...] D'Annunzio ha dunque trattato il
Guglielmotti a guisa di marmo michelangiolesco, rinnovandone il
soverchio, e cavandone una cosa d'arte».
I due versi conclusivi, poi, confermano il significato di esercizio
letterario, che si deve attribuire - ci sembra - a questo
componimento, che è inseribile fra l'altro nel gusto decadente per
il ricorso al termine desueto o di preziosistica derivazione latina
(intento, lorica, dismaglia, s'alluma, s'infiora) al materiale
prezioso (crisopazi e berilli). In tali versi l'inatteso
"ingresso" del poeta mira esplicitamente a lodare la
"strofe lunga", è un dichiarato compiacimento del
componimento realizzato. «L'Onda quindi - conclude il Roncoroni -
sarebbe anche una sorta di celebrazione, enfatica e ancora una volta
superomistica, dell'estrema duttilità dello strumento espressivo
impiegato dal poeta e, in ultima analisi, anche una sorta di
monumentale esaltazione della capacità creativa della poesia».
Stabat nuda Aestas
Anche per questa lirica, si può parlare, secondo il
suggerimento del Gargiulo, di "antropomorfismo", cioè di
quel procedimento frequente nell'Alcyone che consiste nel
rappresentare il paesaggio (o alcuni suoi elementi) in una
dimensione umana. Questa umanizzazione di stagioni, fenomeni
atmosferici, dati paesistici - che si può anche leggere come una
epifania del divino - è qui particolarmente felice perché si
risolve in una figura dotata di una propria autonomia e, nel
contempo, tramata di paesaggio, oggettivazione dei suoi elementi;
questa figura femminile che agile passa «su per gli aghi arsi dei
pini», immersa in una natura solare è una delle creazioni più
suggestive di D'Annunzio poeta. La lirica fu pubblicata per la prima
volta nell'Alcyone (1903).
Il testo è volutamente ambiguo. Descrive un inseguimento di cui si
palesa progressivamente la natura erotica. Il soggetto, colui che
dice io, intravede il «piè stretto», ma di chi? E chi è il
soggetto? Un fauno che insegue una ninfa, il poeta-avventuriero che
insegue una delle sue proverbiali amanti?
La natura sembra partecipare ansiosa all'evento: l'aria arde «con
grande tremito», le cicale tacciono improvvisamente, geme la
resina... Il soggetto raggiunge la sua "preda" in un bosco
di ulivi; di lei che fugge si colgono due dettagli, la «schiena
falcata» e i «capei fulvi» che ondeggiano silenziosi. La comparsa
in scena di questa figura femminile è accompagnata dal grido-richiamo
dell'allodola e del soggetto medesimo: qui appare chiaro che la
natura della "preda" è più che umana. I! grido è anche
una primitiva invocazione al divino che si manifesta. La ninfadea
riprende la corsa, si rinchiude nel falasco, a proteggersi
dall'insidiosa presenza dell'uomo, ma inciampa, cade in mare
mescolando i capelli alla schiuma del ponente e appare,
conclusivamente, nella sua immensa, panica nudità. La dea (lo
sappiamo dal titolo, le cui implicazioni sono però chiare solo
leggendo il testo) è l'Estate, personificata, e cioè umanizzata e
divinizzata al tempo stesso.
Il soggetto, ebbro di luce, di calura e di quel vitalismo panico che
già conosciamo in D'Annunzio, al cospetto di una natura pure
felicemente personificata, compie un inseguimento che è quasi un
tentativo di mistico abbraccio col divino e di annullamento in esso. |