GABRIELE D'ANNUNZIO: LAUDI DEL CIELO DELLA TERRA E DEGLI EROI

 

Luigi De Bellis

 
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Si tratta dell'opera poetica più notevole e più famosa di D'Annunzio; doveva essere costituita da 7 libri quante sono le Pleiadi; consta invece di soli 4 libri (o di 5, se si include il libro di Asterope).
Il primo libro Maia fu (probabilmente) composto nel 1903 e pubblicato nello stesso anno; il sottotitolo ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione, non scevra da toni magniloquenti e oratori, dell'energia vitale; un naturalismo pagano impreziosito (o sopraffatto) dai riferimenti classici e mitologici.
Il secondo libro, Elettra, composto fra il 1899 e il 1902 e pubblicato nel dicembre 1903 con data 1904, celebra gli eroi della atrio (Notte di Caprera) e dell'arte (Per la morte di Giuseppe Verdi) nella terza parte - difficilmente collegabile con le altre - sono cantate 25 "città del silenzio" (Ferrara, Ravenna ecc.); nella quarta è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta ché infiammò di entusiasmo i nazionalisti nostrani.
Il terzo libro, Alcyone, fu pubblicato assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del D'Annunzio poeta (La pioggia nel pirneto, La sera fiesolana, Madrigali dell'Estate, i Sogni di terre lontane).
Il quarto libro raccoglie canti celebrativi della conquista della Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul « Corriere della Sera» e poi in volume nel 1912.
Vengono considerati una continuazione di questi quattro libri i Canti della guerra latina, composti e pubblicati fra il 1914 e il 1918 (costituiranno, in seguito, il volume intitola Asterope).


Alcyone: L'onda

È una delle più famose liriche di D'Annunzio (il che non significa delle più valide); e, come si legge sul manoscritto autografo, fu composta il 21 agosto 1902 e pubblicata per la prima volta nell'Alcyone. Il lungo componimento ha una finalità fonica più che descrittivi: il poeta si impegna virtuosisticamente per gareggiare sul piano del linguaggio con lo spettacolo naturale «in guisa che le parole paiono rendere in immediatezza di suoni i fluttuanti giuochi del mare accolto in una cala tranquilla».

Una prima lettura di questo testo potrebbe essere fatta mettendone in evidenza con una puntuale analisi la dimensione fonica (o meglio: fonosimbolica) che è indiscutibilmente in esso prevalente. La iterazione di suoni favorita dalla rima baciata e accentuata dalla brevità dei versi (vv. 1-2 tranquilla: scintilla; 4-5: l'antica: lorica; 16-1 i s'ammorza: rinforza ecc.); l'incalzante susseguirsi di voci verbali legate da affinità fonica (vv. 63-66); il riecheggiamento interno di certi gruppi fonici (25-26 ridonda: onda; 24-25 «Ma il vento riviene /rincalza, ridonda») sono gli artifici tecnici ai quali il poeta ricorre per realizzare questa dimensione fonica del componimento. Ma un esame di questo genere - nel quale per la verità qualcuno è arrivato a sottigliezze piuttosto eccessive - può solo costituire il punto di partenza per arrivare a conclusioni più generali. Per arrivare, per esempio, a sottolineare che quello che più interessa a D'Annunzio in questi cento versi è il virtuosismo linguistico, una strenua lotta impegnata con la lingua per sfruttarne tutte le valenze. Più che poeta della natura (come ne La sera fiesolana) qui D'Annunzio è "poeta del vocabolario". Una conferma di questa sostanziale "freddezza" del componimento-che resta comunque una straordinaria prova di virtuosismo (il Roncoroni parla di «funambolismo verbale») - ci viene da quanto ha ampiamente dimostrato il Praz e cioè che la lirica è tutta tramata di termini e di immagini che si trovano nel Vocabolario marino e militare del Padre Maestro Alberto Guglielmotti, alle voci "onda" e "vento". Già per altre sue pagine D'Annunzio aveva fatto ricorso al lessico tecnico di questo testo, ma, scrive il Praz, dopo avere addotto moltissimi esempi, «il lessico non serve soltanto di sussidio all'ispirazione dannunziana: talvolta un'intera poesia sgorga da una concordanza di parole belle e bene sonanti. È il caso della celeberrima Onda [...] D'Annunzio ha dunque trattato il Guglielmotti a guisa di marmo michelangiolesco, rinnovandone il soverchio, e cavandone una cosa d'arte».
I due versi conclusivi, poi, confermano il significato di esercizio letterario, che si deve attribuire - ci sembra - a questo componimento, che è inseribile fra l'altro nel gusto decadente per il ricorso al termine desueto o di preziosistica derivazione latina (intento, lorica, dismaglia, s'alluma, s'infiora) al materiale prezioso (crisopazi e berilli). In tali versi l'inatteso "ingresso" del poeta mira esplicitamente a lodare la "strofe lunga", è un dichiarato compiacimento del componimento realizzato. «L'Onda quindi - conclude il Roncoroni - sarebbe anche una sorta di celebrazione, enfatica e ancora una volta superomistica, dell'estrema duttilità dello strumento espressivo impiegato dal poeta e, in ultima analisi, anche una sorta di monumentale esaltazione della capacità creativa della poesia».


Stabat nuda Aestas

Anche per questa lirica, si può parlare, secondo il suggerimento del Gargiulo, di "antropomorfismo", cioè di quel procedimento frequente nell'Alcyone che consiste nel rappresentare il paesaggio (o alcuni suoi elementi) in una dimensione umana. Questa umanizzazione di stagioni, fenomeni atmosferici, dati paesistici - che si può anche leggere come una epifania del divino - è qui particolarmente felice perché si risolve in una figura dotata di una propria autonomia e, nel contempo, tramata di paesaggio, oggettivazione dei suoi elementi; questa figura femminile che agile passa «su per gli aghi arsi dei pini», immersa in una natura solare è una delle creazioni più suggestive di D'Annunzio poeta. La lirica fu pubblicata per la prima volta nell'Alcyone (1903).
Il testo è volutamente ambiguo. Descrive un inseguimento di cui si palesa progressivamente la natura erotica. Il soggetto, colui che dice io, intravede il «piè stretto», ma di chi? E chi è il soggetto? Un fauno che insegue una ninfa, il poeta-avventuriero che insegue una delle sue proverbiali amanti?
La natura sembra partecipare ansiosa all'evento: l'aria arde «con grande tremito», le cicale tacciono improvvisamente, geme la resina... Il soggetto raggiunge la sua "preda" in un bosco di ulivi; di lei che fugge si colgono due dettagli, la «schiena falcata» e i «capei fulvi» che ondeggiano silenziosi. La comparsa in scena di questa figura femminile è accompagnata dal grido-richiamo dell'allodola e del soggetto medesimo: qui appare chiaro che la natura della "preda" è più che umana. I! grido è anche una primitiva invocazione al divino che si manifesta. La ninfadea riprende la corsa, si rinchiude nel falasco, a proteggersi dall'insidiosa presenza dell'uomo, ma inciampa, cade in mare mescolando i capelli alla schiuma del ponente e appare, conclusivamente, nella sua immensa, panica nudità. La dea (lo sappiamo dal titolo, le cui implicazioni sono però chiare solo leggendo il testo) è l'Estate, personificata, e cioè umanizzata e divinizzata al tempo stesso.
Il soggetto, ebbro di luce, di calura e di quel vitalismo panico che già conosciamo in D'Annunzio, al cospetto di una natura pure felicemente personificata, compie un inseguimento che è quasi un tentativo di mistico abbraccio col divino e di annullamento in esso.

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