MARCEL PROUST: COMBRAY

 

Luigi De Bellis

 
 
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Dai luoghi montani alla scoperta dello spazio interiore
Realtà e coscienza in Proust
Meccanismo del ritrovamento del tempo
Alla ricerca del tempo perduto
Combray
La Madeleine
Proust e la verità
Il salotto Verdurin
Il tempo ritrovato
 
 

È il celebre "attacco" della Ricerca del tempo perduto. In sintesi; il brano racchiude un ventaglio di temi e motivi che l'opera, poi; svolgerà con più larga orchestrazione: l'esile discrimine tra sonno e veglia, tra sogno e realtà, la funzionalità primaria di un io che assiduamente e strenuamente si analizza e s'interroga, la centralità cioè di una coscienza che è messa in moto per altro dal meccanismo stimolante delle sensazioni, la «grazia celeste» del ricordo e l'urgere gratificante delle memorie d'infanzia, il tema metaforico dell'oscurità come spazio misterioso e inaccessibile, e infine il posto centrale che occupa nella vita e nell'opera di Proust la sua malattia.

La Recherche è la grande opera di un malato. È l'opera di uno scrittore che ha affidato alla malattia alcune tra le più strazianti scene del suo libro; che ci ha presentato severe e inermi immagini di malati, che parla di malattie con un linguaggio anche tecnico, di chi sa, di chi ha provato che cosa sia la consuetudine con il male e che ha riempito con serenità e ironia l'immensa città della propria fantasia di figure di medici, di terapeuti impassibili o gelosi, circondati dallo snobismo della società mondana e dalla venerazione cui hanno diritto i cosiddetti principi della scienza. L l'opera di uno scrittore che ha visto il legame indissolubile che esiste tra la malattia e la morte, e che ha spiato con amorevolezza sublime il giorno in cui la malattia prende domicilio nel povero corpo delicato della persona che amiamo prima di ucciderlo; che ha avvertito la presenza della morte nel momento in cui la malattia impone alla vita la strana novità delle restrizioni definitive; così che noi ci vediamo morire non nell'istante in cui si muore, ma mesi, a volte anni prima, quando, come uno straniero che va e viene e sembra una sera partito e il giorno dopo ritorna, essa laidamente è venuta ad abitare in casa nostra.

Ma quante opere di scrittori moderni, da Rousseau a Kafka, non sono opere di malati? In quante di esse, dai Fratelli Karamàzov alla Coscienza di Zeno, la malattia non si è imposta nella struttura dell'opera per diventare oggetto di rappresentazione? Ma questo rapporto dolce e terrificante dell'uomo con la malattia ha in Proust delle connotazioni diverse. Molti di quegli scrittori erano riusciti ad operare malgrado la loro malattia, combattendola quale forza negativa da estromettere dal loro lavoro, da superare, da vincere. In Proust la malattia è stata ammessa nell'organizzazione stessa della propria vita di creatore. Non si tratta di chiedersi di fronte alla malattia: «Come uscirne? come guarire?», ciò che fa appunto il paziente col suo nemico. Bisogna allontanare l'idea della guarigione, la speranza della guarigione. La tentazione della guarigione falsa il tempo della nostra vita, creandone un altro fittizio. Proust arriverà a dire che il medico, e in certe affezioni il chirurgo più audace, devono chiedersi se privare un malato del proprio vizio e liberarlo del proprio male sia davvero una decisione ragionevole. Quando nell'organizzazione della nostra vita spirituale, il corpo imprigiona lo spirito come in una fortezza, bisogna far sì che la malattia anziché restringerlo, allarghi estremamente l'orizzonte in cui il protagonista è costretto a vivere. Come le crisi di follia di Nerval - egli disse - divenivano punto di partenza e materia stessa dell'opera e significavano lo sviluppo della sua originalità letteraria in ciò che aveva d'essenziale, e l'artista poteva descriverle fino a tanto che quella follia restava descrivibile (come chi nota, addormentandosi, le tappe della sua coscienza che conducono dalla veglia al sonno fino al momento in cui il sonno rende lo sdoppiamento impossibile), così le sue crisi di malato entravano nella sostanza dell'opera e ne erano per così dire il prolungamento, ed egli evadeva da quelle crisi per ricominciare a scrivere.

In tutta la sua vita di scrittore Proust fu colui che trasformò la sua casa, il suo studio, il suo posto di lavoro in una piccola e gigantesca clinica dove chi opera è il paziente: la clinica come protezione, in cui chi lavora conosca anche il valore terapeutico, calmante, quasi consolatorio dell'abitudine, operazione che consiste nel porre sulle cose l'anima che ci è familiare invece della loro che ci spaventa. Ma come giunse Proust a questa terapeutica assoluta? Ci arrivò per gradi. E il cammino verso questa camera di malato, così difficoltoso, questa metamorfosi della casa in una clinica sui generis dove il malato, cominciando ad organizzarsi, è tutto proteso non a salvarsi la pelle come in una clinica normale, ma a gettare con tutte le proprie forze le fondamenta di un'opera che sarà cuna chiesa o una specie di monumento druidico a sommo di un'isola», è l'argomento delle pagine che seguono. E sarà un cammino che parte da lontano, perché da molto lontano partì Proust quando cominciò a pensare al suo libro
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