È
il celebre "attacco" della Ricerca del tempo perduto. In
sintesi; il brano racchiude un ventaglio di temi e motivi che
l'opera, poi; svolgerà con più larga orchestrazione: l'esile
discrimine tra sonno e veglia, tra sogno e realtà, la funzionalità
primaria di un io che assiduamente e strenuamente si analizza e
s'interroga, la centralità cioè di una coscienza che è messa in
moto per altro dal meccanismo stimolante delle sensazioni, la «grazia
celeste» del ricordo e l'urgere gratificante delle memorie
d'infanzia, il tema metaforico dell'oscurità come spazio misterioso
e inaccessibile, e infine il posto centrale che occupa nella vita e
nell'opera di Proust la sua malattia.
La Recherche è la grande opera di un malato. È l'opera di uno
scrittore che ha affidato alla malattia alcune tra le più
strazianti scene del suo libro; che ci ha presentato severe e inermi
immagini di malati, che parla di malattie con un linguaggio anche
tecnico, di chi sa, di chi ha provato che cosa sia la consuetudine
con il male e che ha riempito con serenità e ironia l'immensa città
della propria fantasia di figure di medici, di terapeuti impassibili
o gelosi, circondati dallo snobismo della società mondana e dalla
venerazione cui hanno diritto i cosiddetti principi della scienza. L
l'opera di uno scrittore che ha visto il legame indissolubile che
esiste tra la malattia e la morte, e che ha spiato con amorevolezza
sublime il giorno in cui la malattia prende domicilio nel povero
corpo delicato della persona che amiamo prima di ucciderlo; che ha
avvertito la presenza della morte nel momento in cui la malattia
impone alla vita la strana novità delle restrizioni definitive; così
che noi ci vediamo morire non nell'istante in cui si muore, ma mesi,
a volte anni prima, quando, come uno straniero che va e viene e
sembra una sera partito e il giorno dopo ritorna, essa laidamente è
venuta ad abitare in casa nostra.
Ma quante opere di scrittori moderni, da Rousseau a Kafka, non sono
opere di malati? In quante di esse, dai Fratelli Karamàzov alla
Coscienza di Zeno, la malattia non si è imposta nella struttura
dell'opera per diventare oggetto di rappresentazione? Ma questo
rapporto dolce e terrificante dell'uomo con la malattia ha in Proust
delle connotazioni diverse. Molti di quegli scrittori erano riusciti
ad operare malgrado la loro malattia, combattendola quale forza
negativa da estromettere dal loro lavoro, da superare, da vincere.
In Proust la malattia è stata ammessa nell'organizzazione stessa
della propria vita di creatore. Non si tratta di chiedersi di fronte
alla malattia: «Come uscirne? come guarire?», ciò che fa appunto
il paziente col suo nemico. Bisogna allontanare l'idea della
guarigione, la speranza della guarigione. La tentazione della
guarigione falsa il tempo della nostra vita, creandone un altro
fittizio. Proust arriverà a dire che il medico, e in certe
affezioni il chirurgo più audace, devono chiedersi se privare un
malato del proprio vizio e liberarlo del proprio male sia davvero
una decisione ragionevole. Quando nell'organizzazione della nostra
vita spirituale, il corpo imprigiona lo spirito come in una
fortezza, bisogna far sì che la malattia anziché restringerlo,
allarghi estremamente l'orizzonte in cui il protagonista è
costretto a vivere. Come le crisi di follia di Nerval - egli disse -
divenivano punto di partenza e materia stessa dell'opera e
significavano lo sviluppo della sua originalità letteraria in ciò
che aveva d'essenziale, e l'artista poteva descriverle fino a tanto
che quella follia restava descrivibile (come chi nota,
addormentandosi, le tappe della sua coscienza che conducono dalla
veglia al sonno fino al momento in cui il sonno rende lo
sdoppiamento impossibile), così le sue crisi di malato entravano
nella sostanza dell'opera e ne erano per così dire il
prolungamento, ed egli evadeva da quelle crisi per ricominciare a
scrivere.
In tutta la sua vita di scrittore Proust fu colui che trasformò la
sua casa, il suo studio, il suo posto di lavoro in una piccola e
gigantesca clinica dove chi opera è il paziente: la clinica come
protezione, in cui chi lavora conosca anche il valore terapeutico,
calmante, quasi consolatorio dell'abitudine, operazione che consiste
nel porre sulle cose l'anima che ci è familiare invece della loro
che ci spaventa. Ma come giunse Proust a questa terapeutica
assoluta? Ci arrivò per gradi. E il cammino verso questa camera di
malato, così difficoltoso, questa metamorfosi della casa in una
clinica sui generis dove il malato, cominciando ad organizzarsi, è
tutto proteso non a salvarsi la pelle come in una clinica normale,
ma a gettare con tutte le proprie forze le fondamenta di un'opera
che sarà cuna chiesa o una specie di monumento druidico a sommo di
un'isola», è l'argomento delle pagine che seguono. E sarà un
cammino che parte da lontano, perché da molto lontano partì Proust
quando cominciò a pensare al suo libro.
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