Un
critico, Gaétan Picon, ha scritto che Proust ha operato nel romanzo
una sorte di rivoluzione copernicana o kantiana: «Mentre una volta
il romanziere girava attorno al mondo, ora il mondo gira attorno al
romanziere»: al centro, nella nuova prospettiva, non è più il
reale da rappresentare e inventariare, ma la coscienza che indaga,
ed anzi interpreta e crea il mondo, ne memorizza le tracce incise
nello spazio interiore e le rende misteriosamente significanti.
Tale fu la novità della scrittura proustiana, che in un primo tempo
ben pochi ne intesero la più vera natura; gli editori rifiutarono
di dare alle stampe quei fitti mano scritti, i critici (compreso
Gide, che però in seguito ritrattò il suo primo giudizio) si
espressero con forti riserve, se non con sarcastiche allusioni. Poi,
quando i primi scritti cominciarono a circolare e i primi volumi
della Recherche ad imporsi al l'attenzione del pubblico, si diffuse
uno schema critico riduttivo, quello di un Proust «giovane principe
persiano dai grandi occhi di gazzella», appassionato frequentatore
dei salotti della Parigi del suo tempo, e quindi descrittore di un
costume di un'epoca, autore dilettante, elegante e mondano, che si
adegua al gusto di un fatua società, di un ceto frivolo,
privilegiato e inoperoso: il Proust già autore d un'opera dal
titolo I piaceri e i giorni, che riprendendo il celebre titolo del
poema di Esiodo, Le opere e i giorni, era parsa provocatoriamente
sostituire al lavoro il piacere. Sulla scia di quello schema
interpretativo, anche il grande ciclo narrativo, A la recherche du
temps perdu, (Alla ricerca del tempo perduto), iniziato nel '13 con
Dalla parte di Swann, venne letto come la cronaca minuta di un
ambiente e di un'epoca venne visto e studiato come il vivo,
mobilissimo affresco che coglie con minuta aderenza i caratteri
della società francese in una sua tarda belle époque, fissata per
l'eternità nell'affascinante eleganza delle sue riunioni mondane,
nei precisi riferimenti tutti sicuramente
rintracciabili, ai salons di un'aristocrazia e di un'alta borghesia
ignare, si direbbe, di non lontani cataclismi storici. Una lettura,
tutto sommato "realistica" del romanzo proustiano,
confermata e consolidata, tra il '20 e il '30, da volumi più
descrittivi e "narrativi" dell'opera, All'ombra delle
fanciulle in fiore, La parte di Guermantes, Sodoma e Gomorra, e
successivamente da quelli postumi; un lettura realistica e
descrittiva contro la quale lo stesso romanziere non mancò di
protestare quando scrisse, in una pagina famosa del Tempo ritrovato,
che le sue non erano le scoperte di chi mira al minuto particolare,
ma quelle di chi intende svelare le grandi leggi: «Si rallegrarono
con me perché, dicevano, avevo scoperto alcune verità al
microscopio, quando in realtà mi ero servito non di un microscopio
ma di un telescopio per scorgere cose piccolissime, sì, ma solo
perché situate a un'enorme distanza, e ciascuna delle quali era un
mondo; mi chiamavano "rovistatore di minuti particolari",
ed io invece cercavo le grandi leggi».
Proust memorialista e cronista
Queste leggi riguardavano i meccanismi complessi che regolano lo
spazio interiore; si chiamavano memoria involontaria, intermittenze
del cuore, universale analogia, valore assoluto dello spirito che
ogni dato reale sublima e idealizza, oppure dichiaravano la funzione
suprema della letteratura come modo di porsi al di fuori del
temporale e dell'effimero. La trascrizione critica del mondo, anche
in termini di fine ironia e di arguta satira, è tutt'altro che
assente dalle pagine di un Proust che è anche memorialista e
chroniqueur, capace di dedicare al ricevimento in casa di Mme de
Villeparisis o al pranzo dalla duchessa di Guermantes circa la
metà, complessivamente, de La parte di Guermantes, o alla serata da
Mme Verdurin diverse centinaia di pagine de La prigioniera, o al
ricevimento dalla principessa di Guermantes una buona metà del
Tempo ritrovato: ampi affreschi sociali e mondani gremiti di
ritratti e di schizzi ispirati a volte a ferocia, a volte a
un'indulgente tenerezza, e che coinvolgono e divertono senza mai
generare stanchezza o fastidio; essi danno risalto ad un codice, a
un sistema di segni, a un linguaggio, o rappresentano con pungente
efficacia il costante divario tra l'essere e l'apparire, tra
l'autentica verità che si ha nell'animo e il volto che mondanamente
si assume, la maschera che s'indossa. La Recherche è tutta
intessuta di queste gemme, frammenti di verità colti e fissati in
una grandiosa e mai tentata rappresentazione di vita familiare e
mondana; e tuttavia, se nell'opera proustiana non ci fosse che
questo, noi avremmo, dopo Balzac e dopo Zola, e sia pure con più
estro, più fantasia, e un minor grado di preoccupazioni
socio-economiche, l'ennesimo romanzo ciclico, una nuova e più
colorita comédie humaine. In realtà, lo stesso Proust definisce
quel tipo di notazioni «verità dell'intelligenza», utili a
strutturare un romanzo ma pur sempre legate, troppo scopertamente,
al mondo esterno, al vissuto. L'unità della Recherche si situa
altrove; sullo sfondo di quel tessuto narrativo, come ha scritto
Maurice Blanchot, i nodi salienti, immaginativi e poetici,
scintillano come fulgide stelle sulla densa, compatta curvatura di
un cielo notturno. Su questa linea, lo scrittore non cerca il
pulviscolo delle minute verità sociali e mondane, ma cerca,
com'egli stesso dice: la Verità:
« È proprio alla scoperta della Verità che sono partito»: così
scrive Proust a Jacques Rivière in una lettera del 1914. Proust
immette nell'orizzonte letterario un nuovo ordine di problemi e di
interessi, sconvolge gli schemi romanzeschi più usuali, propone lo
scavo in terreni dimenticati, getta luce su frammenti d'interiorità
che si rivelano, all'analisi, grandi come mondi, fiammeggianti come
comete. Soprattutto egli fa del romanzo il luogo di un'abissale
discesa negli spazi della più segreta interiorità, il luogo del
recupero degli strati più fondi della memoria. La creazione
germoglia, nella prospettiva proustiana, entro spazi circoscritti,
si nutre di reclusione e di rinuncia. Anche per lui, come per altri
del passato - Saint-Simon, Rousseau o Dostoevskij - il momento
dell'oscura penombra, l'orizzonte conchiuso della cella, della
stanza, dell'isola o della prigione, sono i tempi e i luoghi in cui
l'io più segreto si schiude come un fiore notturno. Solo dalla sua
arca Noè scopre la bellezza del mondo. Solo il diluvio e l'oblio
consentono il pieno recupero del nostro fragile io, « l'unico luogo
abitabile». Soltanto la malattia, l'isolamento, la stanza imbottita
di sughero in cui lo scrittore si rifugia negli ultimi strenui anni
della sua creazione e della sua vita, gli permettono una sorta di
supremo affinamento, l'approdo a un lido di eletta spiritualità.
Non a caso la Recherche inizia con lo splendido attacco che evoca un
ansioso notturno. Proust, ha scritto un critico, Giovanni Macchia,
è l'inimitabile poeta del buio, dell'inconscio, della notte, e la
sua opera è l'opera di un malato che abilmente piega il suo male a
strumento di creazione e riscatto. Come il gufo, il poeta vede
chiaro (sono immagini proustiane) solo entro un alone di tenebra.
Egli attende che dal cielo discenda l'Angelo della poesia, l'angelo
che attraverso la notte « ci conduce nel regno della luce».
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