MARCEL PROUST: PROUST E LA VERITA'

 

Luigi De Bellis

 
 
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Dai luoghi montani alla scoperta dello spazio interiore
Realtà e coscienza in Proust
Meccanismo del ritrovamento del tempo
Alla ricerca del tempo perduto
Combray
La Madeleine
Proust e la verità
Il salotto Verdurin
Il tempo ritrovato
 
 

Un critico, Ramon Fernandez, ha scritto che la Recherche è insieme storia di un'epoca e storia di una coscienza, osservazione e introspezione, studio del mondo e studio dell'io. Con più esattezza, bisognerebbe dire che la realtà e i dati di un'epoca, nel romanzo di Proust, sono resi nella loro valenza del tutto interiore, che lievitano in direzione di una costante sublimazione spirituale: il mondo, le cose, gli eventi, sembra dire l'autore, non sono fuori ma dentro di noi. Lo stesso Proust ha paragonato a volte la sua opera ad una vasta cattedrale o ad una sinfonia: intendeva dire che la varietà e molteplicità dei motivi, dei particolari, dei minuti spunti, sono unificate da un afflato aggregante, da una centrale e vibrante idea ispirativa.

Il mondo, abbiamo visto, è onnipresente nella Recherche, tenerezza e ironia s'intrecciano costantemente nell'evocazione di una vita sia familiare sia mondana che Proust ha lungamente scandagliato, e anche descritto nella sue Cronache spesso con l'acuto sguardo del moralista, del lettore attento di Saint-Simon e di La Rochefoucauld. Non c'è, in lui, l'intento sociale di un Balzac, che pure ammira, né dei tanti mediocri scrittori che si pretendono "realisti", e che egli detesta. Descrive, sostanzialmente, un ceto sociale, la nobiltà e la borghesia snob della Parigi dell'inizio del secolo, ma ignora la lotta di classe e lascia bell'ombra i condizionamenti strettamente economici. E tuttavia i suoi innumerevoli profili umani restano indelebilmente nella memoria del lettore perché di ognuno Proust sa cogliere e fissare la cifra essenziale, il segno più eloquente, si tratti di personaggi teneramente amati come la zia Léonie o la domestica Francoise o di altri in cui forse è da vedere ugualmente la traccia di un profilo reale, il diplomatico Norpois, Robert de Saint-Loup che forse ci propone il volto ed i modi dell'amico Caillavet, il barone Charlus dietro il quale forse si nasconde Robert de Montesquiou. Lo stesso valga per la straordinaria galleria di profili femminili, Odette, Gilberte, Albertine, di affascinante vitalità ed autenticità, ed occasione, anche, di un'analisi della passione amorosa che raggiunge gli abissi del più strenuo ed inesausto scandaglio. Paul Valéry ha scritto che Proust ha saputo compiere un'impresa che ha del portentoso, rendere profonda e straordinariamente significante l'immagine di una società di per sé frivola e superficiale.

Il fatto è che quella società e quella realtà valgono, nella Recberche, in quanto cifra ed immagine di ben altro, di valori interiori, di intime assunzioni e trasposizioni. Porsi sulla strada delle esatte identificazioni, dei precisi riconoscimenti di volti, persone e ambienti, dei puntuali rinvii, è del tutto fuorviante, e non solo perché chi racconta in prima persona ed in chiave apparentemente autobiografica è un io che non coincide necessariamente con l'io anagrafico dello scrittore Marcel Proust, ma anche e soprattutto perché, come già si è accennato, il mondo è rappresentato nella Recherche nella sua valenza squisitamente affettiva e fondamentalmente metaforica.

Non di rado l'io narrante conferma di vivere le «ore mondane» solo epidermicamente ed insiste, anzi, sulla sua refrattarietà a stabilire un rapporto autentico, diretto col mondo, sulla presenza di un diaframma, di un ostacolo, tra l'io più interiore e le cose: «Il mio pensiero - si legge in un suo brano - era come un asilo in fondo al quale sentivo che restavo rinchiuso, anche per osservare ciò che accadeva fuori di me. Quando vedevo un oggetto esterno, la coscienza di vederlo rimaneva tra me e lui, lo cingeva di un'esile orlatura spirituale che m'impediva di toccarne mai la materia direttamente; essa quasi si volatilizzava prima ch'io stabilissi un contatto, come un corpo incandescente che venga avvicinato a un oggetto bagnato non ne tocca l'umidità perché si fa sempre precedere da una zona di evaporazione». L'autocoscienza è dunque una barriera, una cortina invalicabile, si è sempre «circondati da se stessi» e ciò vieta una presa col reale, determina un senso penoso d'incomunicabilità. Onde anche la difficoltà di rapporti umani quali l'amicizia o l'amore: essi si rivelano sempre ingannevoli ed effimeri perché frutto non di una reale adesione ma di facoltà in qualche modo isolanti, la réverie, la fantasia, che frappongono tra noi e gli altri visioni, fantasmi e sogni. «Invalicabile», «inafferrabile», «inaccessibile»: quante volte questi aggettivi ricorrono nella pagina proustiana, traducono l'impossibile cattura di una verità esterna a noi. Dalla prima all'ultima pagina della Recherche, anche negli episodi di più aperto e disteso intento narrativo, grava la sottintesa allusione a un distacco, a uno scarto, a una cortina impenetrabile: «siamo sempre disgiunti dagli esseri» e il nostro «io superficiale» mai si adegua alle istanze più fonde del nostro «io interiore».

Ma se da un lato il contatto col mondo è deludente e impossibile, dall'altro lo spazio interiore si rivela, per chi voglia esplorarlo, della ricchezza più doviziosa. La distinzione tra « io superficiale», e « io interiore» o «io profondo» viene a Proust probabilmente dalla filosofia di Bergson, ma in ogni caso essa corrisponde alla dimensione più autentica dell'universo dell'autore della Recherche. Al dubbio perenne sulla realtà del mondo o per lo meno sulla possibilità di coglierne i dati oggettivi, corrisponde poi la gioiosa scoperta della traboccante profusione riscontrabile negli spazi interiori. Nessun autore, forse, ha celebrato con tanto entusiasmo il primato assoluto dell'io non solo o non tanto come rifugio e comoda evasione, ma come fonte di ricchezza e di scoperta. Il mondo non è che parvenza, immagine esterna cui solo la nostra interiorità dà alimento, e attendiamo dall'esterno una ragione di vivere. quando, scrive Proust, « il nostro fragile io è l'unico luogo abitabile»: parole, sia detto per inciso, che ricordano quelle di Rousseau («il paese delle chimere è l'unico degno di essere abitato») e che acquistano, alla luce di questa ascendenza, una precisa risonanza spirituale e immaginativa.

Nello spazio interiore, infatti, si sedimentano i ricordi o si colgono le risonanze e i veri significati delle cose, le loro impalpabili equivalenze. Tutta la realtà si trasferisce nell'alone spirituale che l'avvolge e l'illumina: « il giardino in cui siamo vissuti da bambini, non c'è bisogno di viaggiare per rivederlo, basta, per ritrovarlo, scendere al fondo di noi stessi»; casa Swann, come casa Guermantes , dice il narratore, non sono due luoghi circoscrivibili nello spazio, costituiscono «i giacimenti profondi del mio suolo mentale». Non siamo sperduti nel mondo perché il mondo intero è come rinchiuso in noi stessi, e i veri paradisi non sono quelli che ci attendono, bensì quelli perduti, ma sempre vivi nella memoria. La Recherche incanta il lettore innanzi tutto per l'evocazione e il tenero idoleggiamento con cui le gioie dell'infanzia sono ripercorse, persone e cose, il bacio della mamma e la casa di Illiers, la vecchia domestica e l'antico campanile, le ninfee della Vivonne e una certa siepe di biancospino. Da Chateaubriand, da Nerval, anche da Baudelaire, Proust ha ricavato i modelli per questa inclinazione d'altronde così sua, così irripetibile, ad un ricordo che si fa estasi e contemplazione, approdo a una recondita Verità. L'intelligenza, secondo Proust, ci aiuta poco in una conquista che è tutta affidata all'immaginazione e alla memoria involontaria, oltre che, preliminarmente, al caso fortunato di un'impressione, di una sensazione, che susciti nell'inconscio echi sotterranei e scopra misteriose analogie. È difficile seguire un critico per altro brillante come Gilles Deleuze, quando affermala totale inutilità, nella ricerca proustiana, della volontaria applicazione. S'incontra di continuo in realtà, negli episodi salienti, da quello della Madeleine a quello dei biancospini di Tassonville, dagli alberi solitari di Hudimesnil ai campanili di Martinville, fino all'episodio finale del selciato nel cortile dei Guermantes, una nozione di sforzo, quasi d'impegno mentale, non per far scattare la brusca, casuale illuminazione (questa, ovviamente, è del tutto involontaria), ma per intenderla, per spiegarla e tradurla. «Tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono inutili», dice l'autore alle soglie dell'episodio della madeleine; ma poi, in realtà, tutto il brano è la storia dello «sforzo», del faticoso impegno, non dell'intelligenza ma dello «spirito» (esprit), per intendere, per spiegare, per cercare quel che già si è trovato ma che ancora non si possiede in profondità, e cioè il valore assoluto di un ricordo d'infanzia, recuperato nella sua miracolosa presenza attraverso il sapore di un dolce e di un sorso di tè. Intelligenza e spirito, intelligenza e immaginazione: queste coppie di termini acquistano in Proust un valore antinomico. L'intelligenza avrà sempre una valenza almeno in parte negativa, sarà la facoltà che fa approdare a verità di mera constatazione. Lo «spirito» invece è una facoltà molto più ampia e complessa, che abbraccia anche la memoria e la fantasia e percorre vie sue, inattese ed imprevedibili. Nei momenti privilegiati dell'avventura e della scoperta, l'illuminazione iniziale, si è detto, è gratuita, involontaria, inattesa, ma essa rimarrebbe inesplicata se non seguisse l'impegno dell'esprit, impegno doloroso, faticoso, al quale spesso ci sottraiamo per pigrizia ed inerzia, e che sbocca tuttavia in attimi di rapita felicità.

È la felicità che scaturisce dalla vittoria sul tempo e, insieme, sull'insignificanza delle cose. Il meccanismo della memoria involontaria, messo in moto da una casuale sensazione, fa rivivere con trasparente nitidezza un momento del passato ed acquistare per questa via il senso dell'eterno, di un trionfo sul tempo e sulla morte: è il caso dell'episodio della madeleine, che fa affiorare il ricordo del tè bevuto da bambino nella camera della zia Léonie, o del selciato nel cortile dei Guermantes, che fa risorgere nella coscienza un preciso momento veneziano. Oppure: un'impressione mette in moto il meccanismo delle analogie, delle equivalenze, e fa scoprire mediante inequivocabili segni il senso nascosto delle cose, quasi la loro anima, e consente, in questo caso, una vittoria non tanto sul tempo quanto sull'opaca materia è il caso dell'episodio dei biancospini di Tassonville o di quello dei campanili di Martinville. Infine, una felicità che riassume in fondo le due precedenti si raggiunge nel rapito entusiasmo di una contemplazione estetica: la recitazione della Berma, l'arte di Bergotte, la pittura di Elstir, la musica di Vinteuil. In tutti e tre questi casi, il momento del «piacere», dell'estasi e del rapimento non è che il primo gradino di un processo ascensionale faticoso e complesso, al culmine del quale è un possesso che compensa ogni sforzo, appunto il possesso di una suprema Verità.

Certo, nessun banale ottimismo conforta Proust nella sua non facile ascensione. C'è, innanzi tutto, la labilità di ogni possesso: «prezioso» e «fragile» è il bacio che ogni sera il bambino ansioso ed insonne attende a Combray dalla madre, « trasparente» e «fragile» è la cameretta che ne conforta la solitudine, «delizioso» e «fragile» è il fascino della petite phrase della sonata di Vinteuil (una «frase» dietro la quale per altro è il ricordo di brani musicali a Proust molto cari, di Saint-Saéns e di Franck); e ancora: l'edificio immenso del ricordo poggia pur sempre su una piccola goccia, su un'impalpabile gouttelette, sull'effimera traccia di un sapore o di un odore, e nulla è durevole, nulla permane, poiché «la permanenza e la durata non sono concesse a nulla, neppure al dolore». C'è poi, a volte, l'effetto negativo di un ricordo, apportatore non di gioiose verità ma di affliggente desolazione, non di positive conquiste ma di un approdo al nulla, come nel caso del secondo viaggio a Balbec, quando l'improvviso affiorare di una banale reminiscenza porta con sé la disperante scoperta della morte della nonna. E c'è poi, come già si è detto, la difficoltà stessa dell'impresa, l'ostacolo opposto da segni indecifrabili, da un mistero che permane assoluto e che fascia ogni sensazione, ogni oggetto: la «grande notte» del nostro animo a tal punto ci sembra «impenetrata e scoraggiante», da poter essere scambiata per il vuoto ed il nulla: nel buio interiore ci muoviamo a tentoni, difficilmente cogliamo richiami e confortanti segnali e la «ricerca» non approda al possesso, è piuttosto segnata dall'angoscia di chi non sa uscire da un oscuro labirinto, sciogliere un grumo denso e inesplicabile. Gli esempi sparsi nella Recherche sono moltissimi: ricordiamo quello del settimino di Vinteuil, altra creazione musicale di sovrumana bellezza ma intessuta di «indecifrabili notazioni», di «geroglifici sconosciuti», vergati su «quaderni illeggibili», oppure l'esempio degli alberi di Hudimesnil, centrato sul tema dell'enigmatico messaggio.

Tuttavia, nonostante questa difficoltà di lettura, questa resistenza opposta dai geroglifici del mondo o meglio dalle risonanze inafferrabili che essi suscitano in noi, rimane pur sempre aperta, nella visione proustiana, una porta verso il possesso possibile, verso la scoperta di una Verità. L'estasi e il rapimento, contrariamente a quanto spesso si legge nell'esegesi proustiana, non sono determinati semplicemente dal recupero di un ricordo, né dalla scoperta di un senso. Questi sono soltanto i procedimenti, mediante i quali viene raggiunto l'estremo approdo. La sostanza più vera, la gioia rapita ed estatica, vengono da più lontano, dall'acquisita certezza cioè, di sapore quasi mistico, che lo spirito è l'unica realtà e che l'uomo può liberarsi, nei segreti percorsi della sua interiorità, da ogni vincolo costrittivo, sia temporale sia spaziale, e scoprire la lievitazione spirituale delle cose e del mondo. «Solo la percezione grossolana ed errata pone tutto nell'oggetto, quando tutto in realtà è nello spirito», dice Proust con parole che così da vicino ricordano quelle delle filosofie neoidealistiche che dominano, nei suoi anni, l'orizzonte filosofico europeo. Naturalmente, anche le differenze saltano agli occhi: lo spiritualismo di Proust è deviato dalla base pur sempre materiale e sensoriale delle sue sperimentazioni, oltre che dall'attenzione con cui egli guarda alle zone più oscure ed inconsce di uno «spirito» di cui parla non certo in termini di universalità, ma sempre richiamandosi alla vita segreta della coscienza individuale. E tuttavia, la costanza con cui rifiuta ogni opacità e persegue gli esiti della più immateriale trasparenza, conferma che Proust intende darci (sono del resto sue parole) «una lezione di idealismo».

Se l'arte e la creazione letteraria si pongono per lui ai vertici di ogni umana possibilità, non è, dunque, in ragione di un puro edonismo e formale estetismo, né solo perché la pagina scritta vince il tempo e fissa per sempre il ricordo e il senso, ma perché quella pagina diventa testimonianza di Verità, confermala vittoria dello spirito sull'opaca materia. Da posizioni di questo tipo, Proust condusse la sua battaglia, a volte anche aspra e risentita, da un lato contro una concezione parnassiana dell'arte per l'arte, dall'altro contro il realismo che pretende «descrivere le cose dandone solo un misero rendiconto di linee e superfici», e che quindi è il modo di far arte più lontano dalla realtà, «quello che più c'impoverisce e ci rattrista». Proust lottò, anche, contro l'eterno invito rivolto all'artista, perché esca dalla tanto deprecata torre d'avorio e si adegui al momento storico in cui vive, diffonda e propagandi verità ideologiche e politiche. L'arte vera - risponde Proust - non sa che farsene di tanti proclami e si compie nel silenzio, non tiene alcun conto delle ideologie più in voga e più effimere, «siano esse umanitarie o patriottiche, internazionaliste o metafisiche». Un'opera d'arte, egli aggiunge, in cui siano esposte delle teorie, è come un oggetto su cui si lasci il cartellino col prezzo. E se Barrès chiede all'artista, negli anni perigliosi del primo conflitto mondiale, di servire la patria, Proust risponde superbamente che l'artista non può servire la patria se non restando artista e cioè a condizione che, «nel momento in cui studia alcune leggi interiori, compie i suoi esperimenti e giunge a scoperte non meno delicate di quelle della scienza, non pensi ad altro, neppure alla patria, ma solo alla verità che gli sta dinanzi».

La letteratura, per Proust, è dunque la forma più alta di creazione umana, in quanto non descrive le cose, non si limita cioè a duplicarle, ma ne dice le segrete «corrispondenze», il senso ultimo, la lieve e aerea risonanza: in questo senso, «la vera vita, è la letteratura». Di qui la cura estrema della pagina di Proust, la perfezione del suo stile, la musicalità avvolgente ed intensa di una frase sempre ampia e sinuosa, fittamente analitica e tuttavia mai dispersa nell'accidentale e nell'episodico. Di qui, soprattutto, il geniale ricorso ad un linguaggio intensamente metaforico, aperto agli avvicinamenti più inattesi, a similitudini e a scoperte continue di segrete analogie. «Solo la metafora dà allo stile una sorta di eternità»: così nelle Cronache. Riappare, anche qui, il tema della vittoria sul tempo: la metafora è forse la più trasparente testimonianza, sul piano del linguaggio, della fede di Proust in un Assoluto che non è di natura confessionale e che vive tuttavia, immanente e terreno, nel cuore degli uomini e nel brivido della loro inquietudine
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