Un
critico, Ramon Fernandez, ha scritto che la Recherche è insieme
storia di un'epoca e storia di una coscienza, osservazione e
introspezione, studio del mondo e studio dell'io. Con più
esattezza, bisognerebbe dire che la realtà e i dati di un'epoca,
nel romanzo di Proust, sono resi nella loro valenza del tutto
interiore, che lievitano in direzione di una costante sublimazione
spirituale: il mondo, le cose, gli eventi, sembra dire l'autore, non
sono fuori ma dentro di noi. Lo stesso Proust ha paragonato a volte
la sua opera ad una vasta cattedrale o ad una sinfonia: intendeva
dire che la varietà e molteplicità dei motivi, dei particolari,
dei minuti spunti, sono unificate da un afflato aggregante, da una
centrale e vibrante idea ispirativa.
Il mondo, abbiamo visto, è onnipresente nella Recherche, tenerezza
e ironia s'intrecciano costantemente nell'evocazione di una vita sia
familiare sia mondana che Proust ha lungamente scandagliato, e anche
descritto nella sue Cronache spesso con l'acuto sguardo del
moralista, del lettore attento di Saint-Simon e di La Rochefoucauld.
Non c'è, in lui, l'intento sociale di un Balzac, che pure ammira,
né dei tanti mediocri scrittori che si pretendono
"realisti", e che egli detesta. Descrive, sostanzialmente,
un ceto sociale, la nobiltà e la borghesia snob della Parigi
dell'inizio del secolo, ma ignora la lotta di classe e lascia
bell'ombra i condizionamenti strettamente economici. E tuttavia i
suoi innumerevoli profili umani restano indelebilmente nella memoria
del lettore perché di ognuno Proust sa cogliere e fissare la cifra
essenziale, il segno più eloquente, si tratti di personaggi
teneramente amati come la zia Léonie o la domestica Francoise o di
altri in cui forse è da vedere ugualmente la traccia di un profilo
reale, il diplomatico Norpois, Robert de Saint-Loup che forse ci
propone il volto ed i modi dell'amico Caillavet, il barone Charlus
dietro il quale forse si nasconde Robert de Montesquiou. Lo stesso
valga per la straordinaria galleria di profili femminili, Odette,
Gilberte, Albertine, di affascinante vitalità ed autenticità, ed
occasione, anche, di un'analisi della passione amorosa che raggiunge
gli abissi del più strenuo ed inesausto scandaglio. Paul Valéry ha
scritto che Proust ha saputo compiere un'impresa che ha del
portentoso, rendere profonda e straordinariamente significante
l'immagine di una società di per sé frivola e superficiale.
Il fatto è che quella società e quella realtà valgono, nella
Recberche, in quanto cifra ed immagine di ben altro, di valori
interiori, di intime assunzioni e trasposizioni. Porsi sulla strada
delle esatte identificazioni, dei precisi riconoscimenti di volti,
persone e ambienti, dei puntuali rinvii, è del tutto fuorviante, e
non solo perché chi racconta in prima persona ed in chiave
apparentemente autobiografica è un io che non coincide
necessariamente con l'io anagrafico dello scrittore Marcel Proust,
ma anche e soprattutto perché, come già si è accennato, il mondo
è rappresentato nella Recherche nella sua valenza squisitamente
affettiva e fondamentalmente metaforica.
Non di rado l'io narrante conferma di vivere le «ore mondane» solo
epidermicamente ed insiste, anzi, sulla sua refrattarietà a
stabilire un rapporto autentico, diretto col mondo, sulla presenza
di un diaframma, di un ostacolo, tra l'io più interiore e le cose:
«Il mio pensiero - si legge in un suo brano - era come un asilo in
fondo al quale sentivo che restavo rinchiuso, anche per osservare
ciò che accadeva fuori di me. Quando vedevo un oggetto esterno, la
coscienza di vederlo rimaneva tra me e lui, lo cingeva di un'esile
orlatura spirituale che m'impediva di toccarne mai la materia
direttamente; essa quasi si volatilizzava prima ch'io stabilissi un
contatto, come un corpo incandescente che venga avvicinato a un
oggetto bagnato non ne tocca l'umidità perché si fa sempre
precedere da una zona di evaporazione». L'autocoscienza è dunque
una barriera, una cortina invalicabile, si è sempre «circondati da
se stessi» e ciò vieta una presa col reale, determina un senso
penoso d'incomunicabilità. Onde anche la difficoltà di rapporti
umani quali l'amicizia o l'amore: essi si rivelano sempre
ingannevoli ed effimeri perché frutto non di una reale adesione ma
di facoltà in qualche modo isolanti, la réverie, la fantasia, che
frappongono tra noi e gli altri visioni, fantasmi e sogni.
«Invalicabile», «inafferrabile», «inaccessibile»: quante volte
questi aggettivi ricorrono nella pagina proustiana, traducono
l'impossibile cattura di una verità esterna a noi. Dalla prima
all'ultima pagina della Recherche, anche negli episodi di più
aperto e disteso intento narrativo, grava la sottintesa allusione a
un distacco, a uno scarto, a una cortina impenetrabile: «siamo
sempre disgiunti dagli esseri» e il nostro «io superficiale» mai
si adegua alle istanze più fonde del nostro «io interiore».
Ma se da un lato il contatto col mondo è deludente e impossibile,
dall'altro lo spazio interiore si rivela, per chi voglia esplorarlo,
della ricchezza più doviziosa. La distinzione tra « io
superficiale», e « io interiore» o «io profondo» viene a Proust
probabilmente dalla filosofia di Bergson, ma in ogni caso essa
corrisponde alla dimensione più autentica dell'universo dell'autore
della Recherche. Al dubbio perenne sulla realtà del mondo o per lo
meno sulla possibilità di coglierne i dati oggettivi, corrisponde
poi la gioiosa scoperta della traboccante profusione riscontrabile
negli spazi interiori. Nessun autore, forse, ha celebrato con tanto
entusiasmo il primato assoluto dell'io non solo o non tanto come
rifugio e comoda evasione, ma come fonte di ricchezza e di scoperta.
Il mondo non è che parvenza, immagine esterna cui solo la nostra
interiorità dà alimento, e attendiamo dall'esterno una ragione di
vivere. quando, scrive Proust, « il nostro fragile io è l'unico
luogo abitabile»: parole, sia detto per inciso, che ricordano
quelle di Rousseau («il paese delle chimere è l'unico degno di
essere abitato») e che acquistano, alla luce di questa ascendenza,
una precisa risonanza spirituale e immaginativa.
Nello spazio interiore, infatti, si sedimentano i ricordi o si
colgono le risonanze e i veri significati delle cose, le loro
impalpabili equivalenze. Tutta la realtà si trasferisce nell'alone
spirituale che l'avvolge e l'illumina: « il giardino in cui siamo
vissuti da bambini, non c'è bisogno di viaggiare per rivederlo,
basta, per ritrovarlo, scendere al fondo di noi stessi»; casa Swann,
come casa Guermantes , dice il narratore, non sono due luoghi
circoscrivibili nello spazio, costituiscono «i giacimenti profondi
del mio suolo mentale». Non siamo sperduti nel mondo perché il
mondo intero è come rinchiuso in noi stessi, e i veri paradisi non
sono quelli che ci attendono, bensì quelli perduti, ma sempre vivi
nella memoria. La Recherche incanta il lettore innanzi tutto per
l'evocazione e il tenero idoleggiamento con cui le gioie
dell'infanzia sono ripercorse, persone e cose, il bacio della mamma
e la casa di Illiers, la vecchia domestica e l'antico campanile, le
ninfee della Vivonne e una certa siepe di biancospino. Da
Chateaubriand, da Nerval, anche da Baudelaire, Proust ha ricavato i
modelli per questa inclinazione d'altronde così sua, così
irripetibile, ad un ricordo che si fa estasi e contemplazione,
approdo a una recondita Verità. L'intelligenza, secondo Proust, ci
aiuta poco in una conquista che è tutta affidata all'immaginazione
e alla memoria involontaria, oltre che, preliminarmente, al caso
fortunato di un'impressione, di una sensazione, che susciti
nell'inconscio echi sotterranei e scopra misteriose analogie. È
difficile seguire un critico per altro brillante come Gilles Deleuze,
quando affermala totale inutilità, nella ricerca proustiana, della
volontaria applicazione. S'incontra di continuo in realtà, negli
episodi salienti, da quello della Madeleine a quello dei biancospini
di Tassonville, dagli alberi solitari di Hudimesnil ai campanili di
Martinville, fino all'episodio finale del selciato nel cortile dei
Guermantes, una nozione di sforzo, quasi d'impegno mentale, non per
far scattare la brusca, casuale illuminazione (questa, ovviamente,
è del tutto involontaria), ma per intenderla, per spiegarla e
tradurla. «Tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono
inutili», dice l'autore alle soglie dell'episodio della madeleine;
ma poi, in realtà, tutto il brano è la storia dello «sforzo»,
del faticoso impegno, non dell'intelligenza ma dello «spirito»
(esprit), per intendere, per spiegare, per cercare quel che già si
è trovato ma che ancora non si possiede in profondità, e cioè il
valore assoluto di un ricordo d'infanzia, recuperato nella sua
miracolosa presenza attraverso il sapore di un dolce e di un sorso
di tè. Intelligenza e spirito, intelligenza e immaginazione: queste
coppie di termini acquistano in Proust un valore antinomico.
L'intelligenza avrà sempre una valenza almeno in parte negativa,
sarà la facoltà che fa approdare a verità di mera constatazione.
Lo «spirito» invece è una facoltà molto più ampia e complessa,
che abbraccia anche la memoria e la fantasia e percorre vie sue,
inattese ed imprevedibili. Nei momenti privilegiati dell'avventura e
della scoperta, l'illuminazione iniziale, si è detto, è gratuita,
involontaria, inattesa, ma essa rimarrebbe inesplicata se non
seguisse l'impegno dell'esprit, impegno doloroso, faticoso, al quale
spesso ci sottraiamo per pigrizia ed inerzia, e che sbocca tuttavia
in attimi di rapita felicità.
È la felicità che scaturisce dalla vittoria sul tempo e, insieme,
sull'insignificanza delle cose. Il meccanismo della memoria
involontaria, messo in moto da una casuale sensazione, fa rivivere
con trasparente nitidezza un momento del passato ed acquistare per
questa via il senso dell'eterno, di un trionfo sul tempo e sulla
morte: è il caso dell'episodio della madeleine, che fa affiorare il
ricordo del tè bevuto da bambino nella camera della zia Léonie, o
del selciato nel cortile dei Guermantes, che fa risorgere nella
coscienza un preciso momento veneziano. Oppure: un'impressione mette
in moto il meccanismo delle analogie, delle equivalenze, e fa
scoprire mediante inequivocabili segni il senso nascosto delle cose,
quasi la loro anima, e consente, in questo caso, una vittoria non
tanto sul tempo quanto sull'opaca materia è il caso dell'episodio
dei biancospini di Tassonville o di quello dei campanili di
Martinville. Infine, una felicità che riassume in fondo le due
precedenti si raggiunge nel rapito entusiasmo di una contemplazione
estetica: la recitazione della Berma, l'arte di Bergotte, la pittura
di Elstir, la musica di Vinteuil. In tutti e tre questi casi, il
momento del «piacere», dell'estasi e del rapimento non è che il
primo gradino di un processo ascensionale faticoso e complesso, al
culmine del quale è un possesso che compensa ogni sforzo, appunto
il possesso di una suprema Verità.
Certo, nessun banale ottimismo conforta Proust nella sua non facile
ascensione. C'è, innanzi tutto, la labilità di ogni possesso:
«prezioso» e «fragile» è il bacio che ogni sera il bambino
ansioso ed insonne attende a Combray dalla madre, « trasparente» e
«fragile» è la cameretta che ne conforta la solitudine,
«delizioso» e «fragile» è il fascino della petite phrase della
sonata di Vinteuil (una «frase» dietro la quale per altro è il
ricordo di brani musicali a Proust molto cari, di Saint-Saéns e di
Franck); e ancora: l'edificio immenso del ricordo poggia pur sempre
su una piccola goccia, su un'impalpabile gouttelette, sull'effimera
traccia di un sapore o di un odore, e nulla è durevole, nulla
permane, poiché «la permanenza e la durata non sono concesse a
nulla, neppure al dolore». C'è poi, a volte, l'effetto negativo di
un ricordo, apportatore non di gioiose verità ma di affliggente
desolazione, non di positive conquiste ma di un approdo al nulla,
come nel caso del secondo viaggio a Balbec, quando l'improvviso
affiorare di una banale reminiscenza porta con sé la disperante
scoperta della morte della nonna. E c'è poi, come già si è detto,
la difficoltà stessa dell'impresa, l'ostacolo opposto da segni
indecifrabili, da un mistero che permane assoluto e che fascia ogni
sensazione, ogni oggetto: la «grande notte» del nostro animo a tal
punto ci sembra «impenetrata e scoraggiante», da poter essere
scambiata per il vuoto ed il nulla: nel buio interiore ci muoviamo a
tentoni, difficilmente cogliamo richiami e confortanti segnali e la
«ricerca» non approda al possesso, è piuttosto segnata
dall'angoscia di chi non sa uscire da un oscuro labirinto,
sciogliere un grumo denso e inesplicabile. Gli esempi sparsi nella
Recherche sono moltissimi: ricordiamo quello del settimino di
Vinteuil, altra creazione musicale di sovrumana bellezza ma
intessuta di «indecifrabili notazioni», di «geroglifici
sconosciuti», vergati su «quaderni illeggibili», oppure l'esempio
degli alberi di Hudimesnil, centrato sul tema dell'enigmatico
messaggio.
Tuttavia, nonostante questa difficoltà di lettura, questa
resistenza opposta dai geroglifici del mondo o meglio dalle
risonanze inafferrabili che essi suscitano in noi, rimane pur sempre
aperta, nella visione proustiana, una porta verso il possesso
possibile, verso la scoperta di una Verità. L'estasi e il
rapimento, contrariamente a quanto spesso si legge nell'esegesi
proustiana, non sono determinati semplicemente dal recupero di un
ricordo, né dalla scoperta di un senso. Questi sono soltanto i
procedimenti, mediante i quali viene raggiunto l'estremo approdo. La
sostanza più vera, la gioia rapita ed estatica, vengono da più
lontano, dall'acquisita certezza cioè, di sapore quasi mistico, che
lo spirito è l'unica realtà e che l'uomo può liberarsi, nei
segreti percorsi della sua interiorità, da ogni vincolo
costrittivo, sia temporale sia spaziale, e scoprire la lievitazione
spirituale delle cose e del mondo. «Solo la percezione grossolana
ed errata pone tutto nell'oggetto, quando tutto in realtà è nello
spirito», dice Proust con parole che così da vicino ricordano
quelle delle filosofie neoidealistiche che dominano, nei suoi anni,
l'orizzonte filosofico europeo. Naturalmente, anche le differenze
saltano agli occhi: lo spiritualismo di Proust è deviato dalla base
pur sempre materiale e sensoriale delle sue sperimentazioni, oltre
che dall'attenzione con cui egli guarda alle zone più oscure ed
inconsce di uno «spirito» di cui parla non certo in termini di
universalità, ma sempre richiamandosi alla vita segreta della
coscienza individuale. E tuttavia, la costanza con cui rifiuta ogni
opacità e persegue gli esiti della più immateriale trasparenza,
conferma che Proust intende darci (sono del resto sue parole) «una
lezione di idealismo».
Se l'arte e la creazione letteraria si pongono per lui ai vertici di
ogni umana possibilità, non è, dunque, in ragione di un puro
edonismo e formale estetismo, né solo perché la pagina scritta
vince il tempo e fissa per sempre il ricordo e il senso, ma perché
quella pagina diventa testimonianza di Verità, confermala vittoria
dello spirito sull'opaca materia. Da posizioni di questo tipo,
Proust condusse la sua battaglia, a volte anche aspra e risentita,
da un lato contro una concezione parnassiana dell'arte per l'arte,
dall'altro contro il realismo che pretende «descrivere le cose
dandone solo un misero rendiconto di linee e superfici», e che
quindi è il modo di far arte più lontano dalla realtà, «quello
che più c'impoverisce e ci rattrista». Proust lottò, anche,
contro l'eterno invito rivolto all'artista, perché esca dalla tanto
deprecata torre d'avorio e si adegui al momento storico in cui vive,
diffonda e propagandi verità ideologiche e politiche. L'arte vera -
risponde Proust - non sa che farsene di tanti proclami e si compie
nel silenzio, non tiene alcun conto delle ideologie più in voga e
più effimere, «siano esse umanitarie o patriottiche,
internazionaliste o metafisiche». Un'opera d'arte, egli aggiunge,
in cui siano esposte delle teorie, è come un oggetto su cui si
lasci il cartellino col prezzo. E se Barrès chiede all'artista,
negli anni perigliosi del primo conflitto mondiale, di servire la
patria, Proust risponde superbamente che l'artista non può servire
la patria se non restando artista e cioè a condizione che, «nel
momento in cui studia alcune leggi interiori, compie i suoi
esperimenti e giunge a scoperte non meno delicate di quelle della
scienza, non pensi ad altro, neppure alla patria, ma solo alla
verità che gli sta dinanzi».
La letteratura, per Proust, è dunque la forma più alta di
creazione umana, in quanto non descrive le cose, non si limita cioè
a duplicarle, ma ne dice le segrete «corrispondenze», il senso
ultimo, la lieve e aerea risonanza: in questo senso, «la vera vita,
è la letteratura». Di qui la cura estrema della pagina di Proust,
la perfezione del suo stile, la musicalità avvolgente ed intensa di
una frase sempre ampia e sinuosa, fittamente analitica e tuttavia
mai dispersa nell'accidentale e nell'episodico. Di qui, soprattutto,
il geniale ricorso ad un linguaggio intensamente metaforico, aperto
agli avvicinamenti più inattesi, a similitudini e a scoperte
continue di segrete analogie. «Solo la metafora dà allo stile una
sorta di eternità»: così nelle Cronache. Riappare, anche qui, il
tema della vittoria sul tempo: la metafora è forse la più
trasparente testimonianza, sul piano del linguaggio, della fede di
Proust in un Assoluto che non è di natura confessionale e che vive
tuttavia, immanente e terreno, nel cuore degli uomini e nel brivido
della loro inquietudine.
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