|
|
|
UN
IGNOTO E SPLENDIDO UCCELLO MARINO
Nelle ultime pagine del quarto capitolo
del Dedalus, dopo aver esorcizzato la
tentazione della vocazione religiosa,
l'anima di Stephen si esalta nella
rivelazione del proprio destino di
artista, che riverbera nei richiami dei
compagni e nelle variazioni di un nome
divenuto emblematico. La consapevolezza
acquisita trasfigura la realtà
circostante, eleva Stephen al di sopra e
al di là della cerchia degli amici e si
fonde con il paesaggio marino,
spettacolare scenario della metamorfosi
spirituale di Stephen. La concitazione
dionisiaca del linguaggio dà prova della
nuova sicurezza raggiunta da Stephen e
si accompagna alla creazione di una
vigorosa struttura simbolica, in cui il
mare diviene centro di vita e di
rigenerazione, sogno di un mutamento
incessante, come ne La Tempesta di
Shakespeare. Il turbinio delle immagini
e delle sensazioni si arresta di fronte
all'apparizione della fanciulla che
assomiglia a «un ignoto e splendido
uccello marino».
L'estasi del volo, che fa di Stephen un
nuovo Icaro prima della caduta, conferma
la dimensione mitologica dell'esperienza
epifanica del giovane artista e collega
la creazione artistica alla scoperta
della sessualità. Ma nella pulsione
estatica non si esaurisce la ricerca
formale, che infatti riprende all'inizio
dell'ultimo capitolo con la banale e
impoetica descrizione della vita
familiare, ben lontana anche dalle
affettuose percezioni infantili: «Vuotò
fino alle fecce la terza tazza di tè
chiaro e incominciò a masticare le
croste di pane abbrustolito sparpagliate
accanto a lui:..».
All'inizio del quarto capitolo, il più
corto fra tutti, lo slancio religioso si
è già tramutato in stanca routine e la
penitenza è diventata ridicola.
Stephen deve ricominciare la ricerca di
se stesso che sembrava conclusa e
rifiuta l'offerta del direttore di
dedicarsi al sacerdozio, offerta che
pure solletica il suo orgoglio, per
ritornare alla realtà che si presenta
squallida e ributtante.
L'alternativa che si offre a Stephen in
questo momento è tra un ordine (la
Chiesa) che è sterile e tra un disordine
(la famiglia e la patria) che è
ributtante e ostile all'artista.
Considerando la struttura drammatica dei
capitoli, Stephen deve qui apparire, nel
momento che precede l'epifania decisiva,
la visione, cioè, della ragazza sulla
spiaggia, come completamente in balia
delle cose, come rassegnato ad essere
sopraffatto da esse. Dopo aver evitato
il padre che lo aspetta all'Università,
Stephen si avvia alla spiaggia.
Le grida dei compagni, che lo salutano
come martire e eroe chiamandolo («Bous
Stephanoumenos! Bous Stephaneforos!»),
suonano in questo momento
particolarmente ironiche, e lo spingono
a cercare di riaffermare la propria
identità. Per questo si ispira alla
figura del «favoloso artefice» Dedalo,
il padre spirituale.
Stephen, abbandonata l'adolescenza, si
inoltra solo, con la sua anima, nel
mondo misterioso della giovinezza. Il
suo temperamento va in cerca di una
bellezza romantica, che si manifesta
nella visione della ragazza sulla
spiaggia.
La natura «anfibia» della ragazza,
essere di terra e di acqua, è simile a
quella di Stephen-Icaro, essere di terra
e di aria. La sensualità e la
spiritualità sono fuse nell'immagine
intensamente visiva e profana della
ragazza; Stephen è trasportato dalla
fantasia in un altro mondo.
Il tumulto del sangue e il languore sono
ora conseguenza dell'abbraccio della
forza materna della terra, in deliberato
contrasto con i precedenti abbracci
della prostituta e della Chiesa. I
termini «mortale» e «terreno» diventano
sinonimi di quella vitalità e energia
che sono all'origine dell'opera d'arte,
mentre perdono le connotazioni di
grossolanità e volgarità. Stephen dovrà
ora difendere la sua scoperta e
affermarla nel mondo.
Un efficace approccio di tipo
semiologico, in parte legato agli studi
del critico russo J.M. Lotman (La
struttura del testo poetico, Mursia,
Milano 1980), è applicato da Claudia
Corti che individua, nel brano che
segue, «un vero e proprio campionario
zoologico... pesantemente investito di
valenze simboliche», entro cui spiccano
le immagini taurine e ornitologiche che
emergono con particolare evidenza
nell'episodio del Dedalus qui riportato,
ricollegandolo, tra l'altro, all'incipit
del romanzo, dove, soggettivamente, la
"scoperta" della vita, per il piccolo
Stephen, si identifica con l'evocazione
di una mucca, protagonista della favola
raccontata dal padre: «C'era una volta
tanto tempo fa una muuuuucca che veniva
avanti lungo la strada, e questa
muuuuucca che camminava sulla strada
incontrò un simpatico ragazzetto a nome
confettino... Questa favola gliela
raccontava suo padre; suo padre lo
guardava attraverso il vetro del
monocolo: aveva una faccia pelosa. Era
lui confettino. La muuuuucca veniva
avanti lungo la strada dove abitava
Betty Byrne; Betty vendeva zucchero
filato al limone...» .
L'interesse specifico di queste note al
Portrait consiste nel rintracciare nel
testo quella lunga serie di categorie o
unità semiche - di «terreno», appunto,
animalesco - che fungono da paradigmi
operativi di un sistema semiotico e
semantico di vaste proporzioni, in cui è
depositata, a mio avviso, una parte
cospicua della significazione globale
del romanzo.
L'operazione critica che mi propongo di
compiere si presenta facile e difficile
a un tempo: facile, perché le
caratteristiche di coerenza e organicità
del sistema di scrittura joyciano,
consentono di mantenere, una volta la si
sia intrapresa, una determinata rotta
ermeneutica; difficile, poiché la
fittissima rete di rimandi letterari,
filosofici, mitico-religiosi ecc., che
si diparte, circoscrivendola, da ogni
singola immagine in quanto nucleo
parziale di significazione, obbliga a
continue e spesso faticose escursioni
intertestuali ed extratestuali.
In tali escursioni - lo vedremo subito
-, un percorso obbligato si dimostrerà
l'orientarsi verso quei sistemi
mitografici tramandati dalla tradizione
ermetica, dove l'elemento teromorfico
assume un ruolo (simbolico, allegorico,
sacrale) assolutamente preponderante.
[...]
Forme o qualità di uccelli vengono a
costituire, nel romanzo, uno
straordinario, esuberante campo di
aggregazioni metaforiche, probabilmente
stimolate anche dalla dimestichezza di
Joyce con la mitologia celtica, nel cui
deposito culturale-antropologico appare
dominante l'idea di un legame metafisico
fra creature volatili e anime
individuali. Infatti, nelle antiche
favole della tradizione britannica
pre-cristiana, figure specificamente
ornitomorfiche sono solite rappresentare
gli «spiriti migranti» sia dei morti che
dei vivi; esattamente come nella più
colta letteratura ermetico-occultista,
nella mitologia celtica le «anime
peregrine» hanno la possibilità di
assentarsi dai corpi fisici degli
uomini, rivestendosi di un'altra forma,
spesso animalesca, e più spesso ancora
ornitomorfica, per manifestarsi agli
occhi di chi è in grado di capire la
loro vera natura. E Stephen dimostra di
comprendere il nesso metafisico
esistente fra uomini e animali,
affermando direttamente: « We are all
animals. I also am an animal» ["Siamo
tutti animali. Anch'io sono un
animale"].
Se questa originale affermazione del
protagonista propone implicitamente una
chiave di lettura del testo, la
«cornice» del testo stesso,
statutariamente dotata, come tutti
sappiamo, di una precipua funzione
codificante e modellizzante, fornisce
elementi preziosi per convalidare una
scelta ermeneutica. Infatti, deve
invitarci a riflettere il fatto che così
come l'incipit del romanzo è la
raffigurazione di una mucca - «Once upon
a time and a very good time it was there
was a moocow coming down along the
road...» ["C'era una volta tanto tanto
tempo fa una muuuuucca, che veniva
avanti lungo la strada..."] -, le
immagini più significative del finale,
ovvero le più appariscenti, vistose
epifanie che sigillano il testo, sono
forme di uccelli: le rondini (cui si
accennava prima), il pipistrello, il
falco.
Poi, all'interno di questa interessante
cornice, si sviluppa una articolata e
variata serie metaforica di figure
animalesche, associate di volta in volta
sia a Stephen che ad altri personaggi
del romanzo, le quali compongono un
repertorio immaginifico estremamente
suggestivo: un vero e proprio
campionario zoologico investito di
peculiari valenze simboliche, del tipo
degli antichi «bestiari» ospitati nella
biblioteca personale di Joyce. E del
resto, esiste una frase del Portrait
assai significativa a questo proposito:
«The most profound sentence ever written
[...] is the sentence at the end of the
zoology». ["La frase più profonda mai
scritta [...] è la frase in fondo alla
zoologia"].
Se è vero che il falco e il pipistrello
costituiscono il nucleo ipersemiotico
dell'essenzialità simbolica di Stephen
Dedalus in quanto figura archetipica
dell'Artista, è altrettanto vero che la
più percettibile, forse perentoria forma
di trasposizione metaforica posta dal
testo riguardo all'eroe del romanzo, si
istituisce con un animale tutt'altro che
appartenente alla dimensione eterea;
anzi, un animale terrestre e «terreno»
(nel senso di un vitalismo materiale)
per tradizionale antonomasia: il toro.
La figurazione taurina è infatti non
solo la prima referenza simbolica del
personaggio Stephen, ma ne costituisce
addirittura una precipua
identificazione. Converrà rammentare che
nel finale del quarto capitolo, appena
prima della visione della fanciulla
nell'acqua che lo condurrà a una scelta
esistenziale definitiva, Stephen viene
chiamato per due volte consecutive,
dagli amici che stanno facendo il bagno,
con i nomi di Bous Stephanoumenos e Bous
Stephaneforos. Ma già l'inizio di quella
«epifanica» passeggiata in riva al mare
si presenta segnato da una suggestiva
implicazione taurina: avendo lasciato da
poco il decano dell'istituto, che gli ha
proposto di prendere gli ordini sacri, e
ormai certo di non poter accettare
quella proposta, Stephen imbocca la
propria strada metaforica verso la vita
artistica incamminandosi, anziché verso
il collegio gesuita, lungo il tracciato
del "Bull's Wall", ovvero semplicemente
"Tbc Bull" [il Toro], come dicono i
dublinesi..
|
|
|