GRANDI SCRITTORI STRANIERI DEL 900
JAMES JOYCE


 

Luigi De Bellis

 


 

  Dall'Irlanda all'Europa  
Un ignoto e splendido uccello marino
Il multiverso urbano La narrativa  
Ulisse 
Gente di Dublino
Dedalus
Un caso pietoso

E si dissi si voglio si
 
 

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DALL'IRLANDA ALL'EUROPA

  Joyce e il modernismo

Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 la letteratura di lingua inglese passa attraverso quella che è stata definita dalla critica The Great Divide, una frattura sentita come sconvolgente e unica nella storia tra passato e presente. Ne IL senso della fine il critico inglese Frank Kermode ricorda che solo nel 1900, anno della morte di Nietzsche, furono pubblicate L'interpretazione dei sogni di Freud, la Logica di Husserl e la teoria dei quanta di Planck. Ma ancora più rilevanti, almeno nel caso di Joyce e di altri narratori di lingua inglese, furono le teorie psicanalitiche di Freud, che postulano l'esistenza di un linguaggio dell' "inconscio" nei sogni, nei lapsus verbali, etc., e le osservazioni di Bergson sulla soggettività della percezione temporale. Se il decadentismo ha ancora una matrice ottocentesca, il "modernismo" cerca piuttosto di costruire nuovi modelli formali e conoscitivi, in grado di esprimere e di esplorare la realtà contemporanea, percepita come frammentaria e caotica.

In Inghilterra il "modernismo" produsse i suoi frutti più maturi, oltre che nella pittura, nella poesia e nella narrativa, grazie anche alle elaborazioni teoriche di T.E. Hulme e all'attività di grandi personalità americane, come Ezra Pound e T.S. Eliot. Suo momento fondamentale e caratteristico è il movimento vorticista di Wyndham Lewis, che si ispirò al futurismo di Marinetti. La stagione modernista inglese, che ebbe il suo periodo più intenso negli anni ' 10-'20 (in questo lasso di tempo Joyce pubblicò tutte le sue opere, eccetto La veglia di Finnegan, iniziata però negli anni '20), entrò definitivamente in crisi nel terzo decennio del secolo, anche per il discusso impegno politico di alcuni suoi esponenti, come Pound e W. Lewis, che non nascosero le loro simpatie per i regimi fascisti.

  Joyce e l'Irlanda

La formazione letteraria di Joyce affonda le sue radici nella cultura irlandese, si alimenta delle vicende della giovinezza passata a Dublino entro una numerosa famiglia, dominata dalla figura disordinata e geniale del padre e si rafforza attraverso l'educazione religiosa e filosofica tomista acquisita presso i Gesuiti del Clongowes Wood College (1888-1891) e del Belvedere College (1893-1898). Ma mentre si precisa in lui una prepotente vocazione artistica, cresce in Joyce il rifiuto per gli angusti spazi, provinciali e clericali, della terra natía. Portato alla ricerca di più vaste dimensioni linguistiche e culturali, attirato dalla letteratura francese e da quella italiana, Joyce non poteva che respingere le prospettive limitate che derivavano dalla riesumazione intellettualistica della tradizione gaelica. Dal 1904, esule non per motivi politici, ma piuttosto cittadino del mondo, abitante della Trieste austro-ungarica e di Roma, di Zurigo e di Parigi, Joyce incarna uno degli aspetti più alti di un cosmopolitismo europeo destinato a essere soffocato solo dalla seconda guerra mondiale. Un elemento comune è, semmai, nella vita come nell'arte, l'interesse per la città. La città per eccellenza, tanto più perché abbandonata, rimane Dublino. La capitale dell'Irlanda diventa il centro dell'universo narrativo joyciano, nello stesso tempo altamente concreto e fortemente simbolico. Da Gente di Dublino al Dedalus, dall'Ulisse a La veglia di Finnegan, Dublino e l'Irlanda sono, insomma, la materia e l'ispirazione primaria della ricerca linguistica di Joyce, la madre-patria-chiesa da cui è fuggito, ma a cui, inevitabilmente, ossessivamente, deve attingere, per rappresentare, nella polifonia espressiva, il mondo moderno.

In Joyce, fin dall'inizio, esplicita è la funzione anti-conformista e demistificatrice riconosciuta all'arte, che comunque costituisce un universo autonomo e non si mescola alla vita pubblica. Proprio perché sviluppa in sé potenzialità rivoluzionarie, il linguaggio dell'artista aspira a una rappresentazione totale e oggettiva della realtà, in cui autobiografismo e cronaca del mondo moderno, riflessione estetica e discussione politica vengono fuse in una struttura testuale non più delimitata da alcuna convenzione di "genere", da alcun intento moralistico. La visione dell'arte nasce all'interno dell'opera, in cui la figura dell'intellettuale - alter-ego di Joyce, ma anche personaggio fittizio che è parte di un più grande "gioco" narrativo - tende ad assumere connotati ora eroici, ora ironici. La ribellione, la solitudine, l'esilio riemergono nelle vicende del "romanzo dell'artista", il cui protagonista è Stephen Dedalus, sia nella prima versione, scritta tra il 1904 e il 1906 e solo in parte recuperata (Stefano eroe), sia nella versione definitiva del Dedalus: ritratto dell'artista da giovane (191516). Ma, appunto, la ricostruzione delle esperienze giovanili di Stephen, dalla nascita fino al momento della decisione di lasciare la patria e la famiglia, comprende necessariamente anche una chiarificazione dei presupposti teorici dell'arte "nuova", di cui Stephen vuol farsi interprete e che egli "forgia" nel corso del romanzo di cui è protagonista.

Come ha notato Umberto Eco in Opera aperta (1962), le letture di san Tommaso d'Aquino e del "ribelle" Ibsen, l'influsso delle poetiche simboliste e dell'estetismo decadente si manifestano in una serie di riflessioni e di dibattiti (ancora più espliciti nello Stefano eroe) che hanno al centro la figura di Stephen Dedalus, l'artista dedàleo, in cui l'antico mito demiurgico si reincarna alla luce della vita moderna, che deve osservare con occhio lucido e distaccato: «L'artista, come il dio della creazione, rimane dentro e dietro o al di là o al di sopra dell'opera sua, invisibile, sottilizzato fino a sparire, indifferente, occupato a curarsi le unghie» (Dedalus). Dunque l'artista che, come il giovane Stephen (S. Stefano è il primo dei martiri cristiani), ha pronunciato l'abiura del non serviam rifiutando ubbidienza a ogni principio religioso o politico, traduce la lontananza dalle sue creature in un linguaggio ironico, dove ogni dimensione eroica - perfino quella stessa del demiurgo - viene sottoposta al filtro corrosivo della sperimentazione formale. Messa in disparte la tradizione narrativa inglese dell'Ottocento (ma si salvano parzialmente Thackeray per la sua vis comica, e Dickens, il primo grande esploratore dell'immaginario urbano), lo scrittore irlandese guarda piuttosto - come ha mostrato Giorgio Melchiori - alla potente carica satirica di Swift, alla teoria e alla pratica eroi-comica di Fielding, alla scomposizione ludica del tessuto temporale attuata da Sterne nel Tristram Shandy. Anche l'amara ricerca dello spettro paterno nell'Amleto di Shakespeare opera in profondità soprattutto nell'Ulisse, mentre la trama del Giulio Cesare ritorna periodicamente nel magma verbale de La veglia di Finnegan.

L'estetica joyciana non si manifesta tanto come enunciato teorico, ma diviene parte integrante del discorso narrativo. All'interno della prima e della seconda stesura del Dedalus viene soprattutto sviluppato il concetto di «epifania», come «improvvisa manifestazione» spirituale che deriva dalla vista di un oggetto o dalla percezione di un'esperienza apparentemente insignificante. Nello Stefano eroe troviamo la definizione e un'esemplificazione di "epifania": «Una signorina stava ritta sui gradini di una di quelle scure case di mattoni che sembrano l'incarnazione della paralisi irlandese. Un giovanotto s'appoggiava alla ringhiera arrugginita del recinto davanti alla casa. Stephen passando udì un frammento di colloquio da cui ricevette una impressione così acuta da colpirlo. La Signorina (modulando discretamente): "Oh sì... sono stata... in... chie... sa...» . Il Giovane (sussurrando impercettibilmente): "Io..." (ancora più impercettibilmente) "io...". La Signorina (piano): "Oh... ma voi sie... te... mol... to... cattivo". Questa banale scenetta lo fece pensare alla possibilità di raccogliere insieme molti di quei momenti in un libro di epifanie. Per epifania intendeva Stephen un'improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, considerando ch'erano attimi assai delicati ed evanescenti». La critica ha mostrato l'origine religiosa del termine "epifania", che è folgorante presenza divina in san Paolo e in sant'Agostino. Su Joyce agisce anche l'estetica del decadentismo preparata da Walter Pater e attuata, tra gli altri, da Gabriele D'Annunzio, la cui prosa Joyce ammirò per la sua perfezione musicale. In un mondo non più dominato dai valori religiosi, l'epifania si trasforma nell'arma privilegiata dell'artista, egli stesso investito di funzioni sacerdotali, che, attraverso il linguaggio, penetra nella realtà più banale e ne rivela i significati reconditi.

Nell'Ulisse e poi ne La veglia di Finnegan Joyce affronta la complessità dell'universo urbano (o "multiverso", appunto perché rappresentato come babele di suoni e di impressioni simultanee e disorganizzate), scandaglia i movimenti minimi della psiche, descrive la materialità delle funzioni corporali e delle pulsioni sessuali, tratteggia l'innominata zona dell'inconscio, mentre si serve liberamente dei frammenti della tradizione letteraria, per scomporli e ricomporli secondo un sempre più accanito progetto di esplorazione dei confini e delle potenzialità del linguaggio. Come nel poema di T.S. Eliot, La terra desolata, pubblicato nel 1922 assieme all'Ulisse, il passato, con i suoi miti e i suoi riferimenti culturali, viene rivisitato alla luce del presente, manipolato ma per nulla dimenticato. Nel labirinto oscuro della Storia moderna, che è degradato ma pur sempre privilegiato palcoscenico della "commedia umana", appena percorso dalle armate della prima guerra mondiale e dalle masse della rivoluzione sovietica, l'incontro con il Minotauro assume i contorni allusivi e ironici di un viaggio nella coscienza frammentata, composita, volgare, della città.

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it