Joyce e il modernismo
Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900
la letteratura di lingua inglese passa
attraverso quella che è stata definita
dalla critica The Great Divide, una
frattura sentita come sconvolgente e
unica nella storia tra passato e
presente. Ne IL senso della fine il
critico inglese Frank Kermode ricorda
che solo nel 1900, anno della morte di
Nietzsche, furono pubblicate
L'interpretazione dei sogni di Freud, la
Logica di Husserl e la teoria dei quanta
di Planck. Ma ancora più rilevanti,
almeno nel caso di Joyce e di altri
narratori di lingua inglese, furono le
teorie psicanalitiche di Freud, che
postulano l'esistenza di un linguaggio
dell' "inconscio" nei sogni, nei lapsus
verbali, etc., e le osservazioni di
Bergson sulla soggettività della
percezione temporale. Se il decadentismo
ha ancora una matrice ottocentesca, il
"modernismo" cerca piuttosto di
costruire nuovi modelli formali e
conoscitivi, in grado di esprimere e di
esplorare la realtà contemporanea,
percepita come frammentaria e caotica.
In Inghilterra il "modernismo" produsse
i suoi frutti più maturi, oltre che
nella pittura, nella poesia e nella
narrativa, grazie anche alle
elaborazioni teoriche di T.E. Hulme e
all'attività di grandi personalità
americane, come Ezra Pound e T.S. Eliot.
Suo momento fondamentale e
caratteristico è il movimento vorticista
di Wyndham Lewis, che si ispirò al
futurismo di Marinetti. La stagione
modernista inglese, che ebbe il suo
periodo più intenso negli anni ' 10-'20
(in questo lasso di tempo Joyce pubblicò
tutte le sue opere, eccetto La veglia di
Finnegan, iniziata però negli anni '20),
entrò definitivamente in crisi nel terzo
decennio del secolo, anche per il
discusso impegno politico di alcuni suoi
esponenti, come Pound e W. Lewis, che
non nascosero le loro simpatie per i
regimi fascisti.
Joyce e l'Irlanda
La formazione letteraria di Joyce
affonda le sue radici nella cultura
irlandese, si alimenta delle vicende
della giovinezza passata a Dublino entro
una numerosa famiglia, dominata dalla
figura disordinata e geniale del padre e
si rafforza attraverso l'educazione
religiosa e filosofica tomista acquisita
presso i Gesuiti del Clongowes Wood
College (1888-1891) e del Belvedere
College (1893-1898). Ma mentre si
precisa in lui una prepotente vocazione
artistica, cresce in Joyce il rifiuto
per gli angusti spazi, provinciali e
clericali, della terra natía. Portato
alla ricerca di più vaste dimensioni
linguistiche e culturali, attirato dalla
letteratura francese e da quella
italiana, Joyce non poteva che
respingere le prospettive limitate che
derivavano dalla riesumazione
intellettualistica della tradizione
gaelica. Dal 1904, esule non per motivi
politici, ma piuttosto cittadino del
mondo, abitante della Trieste
austro-ungarica e di Roma, di Zurigo e
di Parigi, Joyce incarna uno degli
aspetti più alti di un cosmopolitismo
europeo destinato a essere soffocato
solo dalla seconda guerra mondiale. Un
elemento comune è, semmai, nella vita
come nell'arte, l'interesse per la
città. La città per eccellenza, tanto
più perché abbandonata, rimane Dublino.
La capitale dell'Irlanda diventa il
centro dell'universo narrativo joyciano,
nello stesso tempo altamente concreto e
fortemente simbolico. Da Gente di
Dublino al Dedalus, dall'Ulisse a La
veglia di Finnegan, Dublino e l'Irlanda
sono, insomma, la materia e
l'ispirazione primaria della ricerca
linguistica di Joyce, la
madre-patria-chiesa da cui è fuggito, ma
a cui, inevitabilmente, ossessivamente,
deve attingere, per rappresentare, nella
polifonia espressiva, il mondo moderno.
In Joyce, fin dall'inizio, esplicita è
la funzione anti-conformista e
demistificatrice riconosciuta all'arte,
che comunque costituisce un universo
autonomo e non si mescola alla vita
pubblica. Proprio perché sviluppa in sé
potenzialità rivoluzionarie, il
linguaggio dell'artista aspira a una
rappresentazione totale e oggettiva
della realtà, in cui autobiografismo e
cronaca del mondo moderno, riflessione
estetica e discussione politica vengono
fuse in una struttura testuale non più
delimitata da alcuna convenzione di
"genere", da alcun intento moralistico.
La visione dell'arte nasce all'interno
dell'opera, in cui la figura
dell'intellettuale - alter-ego di Joyce,
ma anche personaggio fittizio che è
parte di un più grande "gioco" narrativo
- tende ad assumere connotati ora
eroici, ora ironici. La ribellione, la
solitudine, l'esilio riemergono nelle
vicende del "romanzo dell'artista", il
cui protagonista è Stephen Dedalus, sia
nella prima versione, scritta tra il
1904 e il 1906 e solo in parte
recuperata (Stefano eroe), sia nella
versione definitiva del Dedalus:
ritratto dell'artista da giovane
(191516). Ma, appunto, la ricostruzione
delle esperienze giovanili di Stephen,
dalla nascita fino al momento della
decisione di lasciare la patria e la
famiglia, comprende necessariamente
anche una chiarificazione dei
presupposti teorici dell'arte "nuova",
di cui Stephen vuol farsi interprete e
che egli "forgia" nel corso del romanzo
di cui è protagonista.
Come ha notato Umberto Eco in Opera
aperta (1962), le letture di san Tommaso
d'Aquino e del "ribelle" Ibsen,
l'influsso delle poetiche simboliste e
dell'estetismo decadente si manifestano
in una serie di riflessioni e di
dibattiti (ancora più espliciti nello
Stefano eroe) che hanno al centro la
figura di Stephen Dedalus, l'artista
dedàleo, in cui l'antico mito demiurgico
si reincarna alla luce della vita
moderna, che deve osservare con occhio
lucido e distaccato: «L'artista, come il
dio della creazione, rimane dentro e
dietro o al di là o al di sopra
dell'opera sua, invisibile, sottilizzato
fino a sparire, indifferente, occupato a
curarsi le unghie» (Dedalus). Dunque
l'artista che, come il giovane Stephen
(S. Stefano è il primo dei martiri
cristiani), ha pronunciato l'abiura del
non serviam rifiutando ubbidienza a ogni
principio religioso o politico, traduce
la lontananza dalle sue creature in un
linguaggio ironico, dove ogni dimensione
eroica - perfino quella stessa del
demiurgo - viene sottoposta al filtro
corrosivo della sperimentazione formale.
Messa in disparte la tradizione
narrativa inglese dell'Ottocento (ma si
salvano parzialmente Thackeray per la
sua vis comica, e Dickens, il primo
grande esploratore dell'immaginario
urbano), lo scrittore irlandese guarda
piuttosto - come ha mostrato Giorgio
Melchiori - alla potente carica satirica
di Swift, alla teoria e alla pratica
eroi-comica di Fielding, alla
scomposizione ludica del tessuto
temporale attuata da Sterne nel Tristram
Shandy. Anche l'amara ricerca dello
spettro paterno nell'Amleto di
Shakespeare opera in profondità
soprattutto nell'Ulisse, mentre la trama
del Giulio Cesare ritorna periodicamente
nel magma verbale de La veglia di
Finnegan.
L'estetica joyciana non si manifesta
tanto come enunciato teorico, ma diviene
parte integrante del discorso narrativo.
All'interno della prima e della seconda
stesura del Dedalus viene soprattutto
sviluppato il concetto di «epifania»,
come «improvvisa manifestazione»
spirituale che deriva dalla vista di un
oggetto o dalla percezione di
un'esperienza apparentemente
insignificante. Nello Stefano eroe
troviamo la definizione e
un'esemplificazione di "epifania": «Una
signorina stava ritta sui gradini di una
di quelle scure case di mattoni che
sembrano l'incarnazione della paralisi
irlandese. Un giovanotto s'appoggiava
alla ringhiera arrugginita del recinto
davanti alla casa. Stephen passando udì
un frammento di colloquio da cui
ricevette una impressione così acuta da
colpirlo. La Signorina (modulando
discretamente): "Oh sì... sono stata...
in... chie... sa...» . Il Giovane
(sussurrando impercettibilmente):
"Io..." (ancora più impercettibilmente)
"io...". La Signorina (piano): "Oh... ma
voi sie... te... mol... to... cattivo".
Questa banale scenetta lo fece pensare
alla possibilità di raccogliere insieme
molti di quei momenti in un libro di
epifanie. Per epifania intendeva Stephen
un'improvvisa manifestazione spirituale,
o in un discorso o in un gesto o in un
giro di pensieri, degni di essere
ricordati. Stimava cosa degna per un
uomo di lettere registrare queste
epifanie con estrema cura, considerando
ch'erano attimi assai delicati ed
evanescenti». La critica ha mostrato
l'origine religiosa del termine
"epifania", che è folgorante presenza
divina in san Paolo e in sant'Agostino.
Su Joyce agisce anche l'estetica del
decadentismo preparata da Walter Pater e
attuata, tra gli altri, da Gabriele
D'Annunzio, la cui prosa Joyce ammirò
per la sua perfezione musicale. In un
mondo non più dominato dai valori
religiosi, l'epifania si trasforma
nell'arma privilegiata dell'artista,
egli stesso investito di funzioni
sacerdotali, che, attraverso il
linguaggio, penetra nella realtà più
banale e ne rivela i significati
reconditi.
Nell'Ulisse e poi ne La veglia di
Finnegan Joyce affronta la complessità
dell'universo urbano (o "multiverso",
appunto perché rappresentato come babele
di suoni e di impressioni simultanee e
disorganizzate), scandaglia i movimenti
minimi della psiche, descrive la
materialità delle funzioni corporali e
delle pulsioni sessuali, tratteggia
l'innominata zona dell'inconscio, mentre
si serve liberamente dei frammenti della
tradizione letteraria, per scomporli e
ricomporli secondo un sempre più
accanito progetto di esplorazione dei
confini e delle potenzialità del
linguaggio. Come nel poema di T.S.
Eliot, La terra desolata, pubblicato nel
1922 assieme all'Ulisse, il passato, con
i suoi miti e i suoi riferimenti
culturali, viene rivisitato alla luce
del presente, manipolato ma per nulla
dimenticato. Nel labirinto oscuro della
Storia moderna, che è degradato ma pur
sempre privilegiato palcoscenico della
"commedia umana", appena percorso dalle
armate della prima guerra mondiale e
dalle masse della rivoluzione sovietica,
l'incontro con il Minotauro assume i
contorni allusivi e ironici di un
viaggio nella coscienza frammentata,
composita, volgare, della città.
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