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LA
NARRATIVA
Storie di Dublino
Accanto alla produzione saggistica
giovanile, che ricorderemo solo per
l'articolo «Il nuovo dramma di lbsen»
(1900), apprezzato dallo scrittore
norvegese, Joyce elabora alcuni
componimenti poetici, poi in parte
raccolti in Musica da camera (1907) e
prepara una serie di racconti che
vogliono essere «un capitolo della
storia morale» dell'Irlanda. All'editore
Grant Richards Joyce spiega: « Se ho
scelto Dublino per scena è perché quella
città mi appariva come il centro della
paralisi». Nella composizione
definitiva, i quindici racconti di Gente
di Dublino appaiono solo nel 1914, anche
perché Joyce non volle apportare alcuni
lievi ritocchi modificando espressioni
ritenute troppo audaci dal moralismo
dell'epoca. Gente di Dublino sviluppa i
suoi bozzetti urbani attorno a eventi
minimi, che coinvolgono personaggi
piccolo-borghesi, spesso con aspirazioni
intellettuali, divisi tra sogni mai
realizzati e la banalità della vita
quotidiana. La matrice naturalistica
della raccolta, evidente ancora nella
descrizione di alcuni squallidi
"interni", non lascia alcuno spazio a
un'esplicita denuncia sociale o
all'avvenimento sensazionale. Anche in
«Un caso pietoso», come vedremo, la
morte violenta del personaggio femminile
è descritta indirettamente, al di fuori
di un preciso nesso di causalità, come
un evento remoto tradotto nella cronaca
distaccata di un articolo di giornale.
Non vi è neppure, tuttavia, alcun
compiacimento intimistico o alcuna
caduta nel sentimentalismo.
L'impassibilità del linguaggio cala il
lettore nel mezzo di una situazione dai
contorni spesso imprecisati, che non è
possibile ricostruire nella sua
completezza.
IL critico americano Harry Levin ha
proposto come ipotesi di lettura di
Gente di Dublino tre "movimenti"
tematici:
1) dall'individuale al generale e dalla
giovinezza all'approssimarsi graduale
della maturità e della vecchiaia (questa
interpretazione fu suggerita anche da
Joyce);
2) il motivo della "ricerca" (quest)
come parodia dell'Odissea in
preparazione all'Ulisse;
3) la discesa all'inferno i cui gironi
sono infestati dai sette peccati
capitali rappresentati nei racconti.
Nell'ultimo, e più elaborato, «I morti»,
ogni preciso dettaglio realistico (le
vivande servite a tavola, gli spunti di
conversazione, la presentazione dei
personaggi) acquista una forte valenza
simbolica, tanto che il critico
americano W.Y. Tindall non ha esitato a
paragonare «I morti» a Cuore di tenebra
di Conrad e a Morte a Venezia di Thomas
Mann.
La storia di Stephen Dedalus
Un romanzo « in un certo senso
autobiografico», che avrebbe dovuto
intitolarsi Stepben Hero (Stefano eroe),
fu scritto da Joyce tra il 1904 e il
1906. Rimangono circa 500 pagine del
manoscritto, corrispondenti alla seconda
parte dell'opera, pubblicate per la
prima volta da Theodore Spencer nel
1944. È probabile che le pagine perdute
venissero bruciate da Joyce, non
soddisfatto dei risultati. Lo Stefano
eroe ha un impianto ancora realistico,
tanto da sviluppare il motivo
dell'iniziazione all'arte, caro alla
letteratura ottocentesca fin dal Wilbelm
Meister di Goethe, con sovrabbondanza di
dettagli, riguardanti la vita familiare
del protagonista e il periodo da lui
passato all'università. La prolissità
descrittiva rende lo Stefano eroe una
miniera di informazioni autobiografiche
e di enunciazioni teoriche sull'arte
joyciana.
A Portrait of the Artist as a Young Man
(tradotto nel 1933 da Cesare Pavese come
Dedalus: ritratto dell'artista da
giovane) rielabora in profondità il
testo dello Stefano eroe, dandogli un
taglio più selettivo e una più compatta
struttura narrativa. Il primo romanzo di
Joyce esce nel 1915 a puntate sulla
rivista «The Egoist» e poi in volume nel
1916. Personaggi ed episodi vengono resi
di scorcio, nella prospettiva della
progressiva "educazione" di Stephen, fin
dalle prime percezioni sensoriali
captate all'interno della coscienza
infantile. Il punto di vista è sempre
quello di Stephen, e gli episodi
selezionati, non più condizionati da un
dettagliato schema autobiografico,
puntano a individuare un percorso in cui
si mescolano precocemente senso della
solitudine, orgoglio e disubbidienza,
affetto per il vivace universo familiare
e fascinazione per il sesso. L'elemento
unificante rimane la ricerca e
l'individuazione della propria vocazione
estetica. La scoperta dell'alta
"missione" a cui è destinato l'artista
non esclude l'auto-ironia. Il giovane
insolente Stephen è pur sempre
presentato come un presuntuoso egoista,
che disprezza gli amici, e si paragona a
Byron, a Faust, a Cristo. Mediante il
suo progressivo asciugarsi, il
linguaggio joyciano si allontana dalle
tentazioni della retorica religiosa,
anche se gli insegnamenti di san Tommaso
d'Aquino sono fondamentali
nell'elaborazione di una teoria
estetica. L'ultima sezione del Dedalus
afferma, con le scarne annotazioni
diaristiche dell'epilogo e con il
passaggio dalla terza alla prima
persona, la volontà dell'artista - ormai
consapevole del suo destino - di
rifiutare la famiglia, la Chiesa,
l'Irlanda. Con la scelta dell'esilio
Stephen compie una scelta definitiva, ma
la crisi del linguaggio indicata dai
frammenti del Diario diviene condizione
di un viaggio ancora tutto da compiere,
lontano dall'Irlanda e lontano dalla
tradizione narrativa. L'una e l'altra
potranno essere riconquistate solo
passando per l'inferno dei linguaggi
moderni, che pervadono la Dublino
dell'Ulisse.
Dublino da
qui all'eternità
Giorgio Melchiori ha ricostruito la
genesi dell'Ulisse fin dalla cartolina
inviata da Joyce a Roma al fratello
prediletto Stanislaus il 30 settembre
1906, nella quale si legge il
post-scriptum: « Ho in testa un nuovo
racconto per Dubliners. Tratta di Mr
Hunter». Alfred H. Hunter era «una
figura sbiadita nel mícrocosmo dublinese
frequentato dal Joyce ventiduenne. Si
diceva che fosse ebreo e che la moglie
lo tradisse». Secondo Melchiori, Mr
Hunter è certamente il prototipo di
Leopold Bloom, l`ebreo errante" che è il
grande protagonista dell'Ulisse.
L'inizio della stesura dell'Ulisse si fa
risalire al 1914. Nel 1918 alcuni
episodi completati cominciarono ad
apparire sulla «Little Review»,
suscitando reazioni controverse. Tra il
1919 a Trieste e il 1921 a Parigi
l'Ulisse è completato, fino ad arrivare
alle attuali diciotto sezioni; dopo
ulteriori revisioni, viene pubblicato a
Parigi il 2 febbraio 1922, in occasione
del quarantesimo compleanno dell'autore,
dalla piccola casa editrice Shakespeare
& Co.
Fondamentale è il metodo "mitico", che
costruisce l'Ulisse sulla falsariga
dell'epos omerico, manipolato però da
un'intenzione eroicomica. Lo stesso
Joyce insistette con Arthur Power che il
romanzo andava interpretato come
«un'opera fondamentalmente umoristica».
I suoi protagonisti, uniti dalla stessa
condizione di emarginati (l'ebreo,
l'artista, la donna di dubbia moralità),
appartengono al mondo moderno e sono
immersi, per un'intera giornata, nella
brulicante realtà urbana di Dublino.
Leopold Bloom girovaga senza meta per la
città, fino a incontrare il giovane
Stephen, già eroe della «Telemachia» che
apre il romanzo. Insieme procedono
all'esplorazione della città,
mescolandosi ai suoi abitanti, mentre
Molly, la moglie di Leopold, una
Penelope carnale e infedele, riceve a
casa uno dei suoi numerosi amanti e
attende il ritorno notturno del marito.
È il 16 giugno 1904, «Bloomsday», il
momento dilatato di una grandiosa
rivisitazione che sovrappone luoghi
letterari e paesaggi reali, in cui la
minuzia dei pensieri più banali si
accompagna all'indagine della sfera
sensoriale. Gli eroi joyciani sognano,
pensano, osservano, commentano; ma
compiono anche le più concrete funzioni
corporali. A modo suo, non aveva torto
il commediografo George Bernard Shaw,
quando scriveva a Sylvia Beach, la
giovane americana titolare della
Shakespeare & Co., che l'Ulisse era « un
documento rivoltante, ma veritiero,
d'una fase disgustosa della civiltà».
L'uso di tecniche innovative, come lo
stream of consciousness, frantuma il
linguaggio tradizionale, che si
ricompone precariamente secondo
meccanismi associativi, giochi di
parole, assonanze e balzi fonetici.
Dialoghi e riflessioni si succedono
senza soluzione di continuità, così come
le espressioni più colloquiali e le
infinite citazioni letterarie. Il
viaggio dell'Ulisse novecentesco non può
avvenire che in un magma linguistico
apparentemente caotico, in realtà
organizzato lucidamente
dall'immaginazione verbale dello
scrittore.
L'Ulisse fu accolto, assieme al poema di
T.S. Eliot La terra desolata, pubblicato
anch'esso nel 1922, come la più alta
espressione della cultura "moderna".
Proprio Eliot, recensendo il libro,
aveva sottolineato l'importanza del
«metodo mitico» usato da Joyce, e il
«parallelo continuo tra l'epoca moderna
e l'antichità», che dissolve le
strutture realistico-psicologiche del
romanzo ottocentesco. Del resto, nella
terza sezione dell'Ulisse («Proteo»),
Stephen Dedalus, camminando sulla
spiaggia, pensa: «Sono qui per leggere
le segnature di tutte le cose, uova di
pesce e marame, la marea avanzante,
quello stivale rugginoso». L'Ulisse si
pone, insomma, come scoperta ed
esaltazione di un linguaggio totale,
capace di estendere agli estremi confini
dell'impressione più labile, dell'evento
più futile, il suo potere di
rappresentazione.
Come La terra desolata di Eliot, che
inscrive nel mondo moderno la ricerca
del Graal del roman medievale, anche
l'Ulisse joyciano registra non tanto le
analogie con le vicende dell'eroe
omerico, ma piuttosto la distanza che
separa l'epos antico dalla
rappresentazione tragicomica del
"multiverso" urbano.
Così nell'Ulisse joyciano non vi può
essere conclusione netta e definitiva.
Tuttavia, l'incontro tra Bloom e
Dedalus, il «ritorno a casa» di Bloom,
la vitalità inesauribile di Molly, i cui
confusi pensieri nel dormiveglia
chiudono il romanzo con l'affermazione
Yes, esaltano la capacità dell'umanità,
nella sua consapevole mediocrità, di
dare ancora un senso, sia pure
frammentario e contradditorio, alla vita
quotidiana.
Terminata la fatica dell'Ulisse, Joyce
proseguiva nella sua ricerca formale,
elaborando un meccanismo narrativo
ancora più fluido e polivalente a
livello semantico, quello che chiamò,
fino alla pubblicazione di tutto l'opus,
Work in Progress, «lavoro ciclopico che
riepiloga tutta l'opera, spesso
parodiandola, riandando alle origini
della coscienza» (Marengo Vaglio).
Apparsa in riviste e in volumi in alcune
sue parti fin dal 1924, La veglia di
Finnegan uscì nel 1939, meno di due anni
prima della morte di Joyce, avvenuta in
seguito a un'operazione di ulcera il 15
gennaio 1941 a Zurigo, dove lo scrittore
irlandese, non attivamente impegnato
nella politica, ma di idee pacifiste e
socialiste, si era rifugiato dopo
l'occupazione nazista della Francia.
Ne La veglia di Finnegan Joyce procede a
dissolvere ulteriormente ogni residuo
aggancio alla trama e alla sequenza
temporale degli eventi. II concetto
tradizionale di personaggio, in parte
"salvato" nell'Ulisse, in quest'opera si
disintegra. Il personaggio è un flusso
verbale che si fonde con i motivi e i
paesaggi evocati dalla scrittura. Lo
scorrere del tempo è lo stesso del fiume
Liffey, che sbocca nella baia di
Dublino. Il tempo della narrazione vuole
riprodurre il ritmo ciclico degli eventi
storici, ricapitolati e modificati
secondo la visione filosofica di
Giambattista Vico, a cui si ispirò lo
scrittore irlandese. Se di personaggi e
di "trama" vogliamo parlare, dobbiamo
seguire i sogni dell'oste Earwicker
(anche "Everyman", ovvero "Ognuno"),
figura paterna come Leopold Bloom, che
si mescolano a quelli della moglie Anna
Livia Plurabelle e dei tre figli.
Osserva H. Levin che « le parole sono il
materiale di cui è fatto il sogno di
Earwicker. Le più oscure sfumature della
coscienza, i brancolamenti della mente
sonnolenta, gli stati tra il sonno e la
veglia non sono mai stati resi, salvo
forse da Proust, così acutamente». La
complessità semantica de La veglia di
Finnegan rende estremamente difficile la
sua comprensione, come si può constatare
anche leggendo le ultime righe della
traduzione integrale in italiano,
tentata da Luigi Schenoni: « E così
soave questa mattina, tutta nostra. Sì,
portami con te, tadparino, come facesti
per tutta la fiera dei balocchi! Se lo
vedo lanciarsi su di me ora, con le ali
aperte come se venisse da Arcangeli, mi
sombra di dissolvermi ai suoi piedi,
humbilmente e dumbcilmente, solo per
consumarinascere. Sì, tidmarea. Ecco
dove. Prima. Passiamo sul piano frazitto
il fitto fino a. Scsctto! Un gabbiano.
Gabbiani. Far chiama. Rivo, fardre! Fine
qui. Noi quindi. Finn, ancora. Prendi.
Bussoaveménete, mememòrami! Fino alla
finemiglia. Lbr. Le chiavi per. Donate!
Via lieve luminosa lieta lungh'il».
Tecniche narrative
L'interdipendenza di poetica e pratica
narrativa è già stata segnalata. L'
"epifania", in particolare, consente a
Joyce di cristallizzare, attorno a una
situazione insignificante, un movimento
complesso della coscienza dei suoi
personaggi. L'epifania nasce come
frammento narrativo, sketch minimo, e
trova una sua espressione precisa
all'interno della struttura di Gente di
Dublino, dove serve a rendere il senso
di frustrazione e di impotenza dei
personaggi, senza coinvolgerli, secondo
la tradizione ottocentesca, in eventi
melodrammatici.
Nel Dedalus l'epifania si dilata e
diventa soprattutto espolorazione delle
infinite potenzialità del linguaggio,
che dà significato alla realtà. Per
l'«artista giovane», Fepifania è 1a
scoperta del proprio io e della propria
missione estetica. Così, un vasto
movimento epifanico, simile al gonfiarsi
della marea, associa la visione della
fanciulla sulla spiaggia, trasfigurata
in uno strano e affascinante uccello
marino, alla rivelazione, nell'animo di
Stephen, del destino che 1o porterà a
lasciare l'Irlanda.
Nell'Ulisse Joyce sperimenta una serie
di tecniche che vanno sotto il nome di
stream of consciousness ("flusso della
coscienza"). La principale è il
"monologo interiore", già utilizzato in
modo meno organico dalla letteratura
della fine dell'800. Secondo la
definizione del critico americano M.H.
Abrams, «il flusso della coscienza... è
una modalità narrativa che si sforza di
catturare l'intero spettro e il fluire
del processo mentale di un personaggio,
in cui percezioni sensoriali si
mescolano con pensieri, memorie,
sentimenti e associazioni casuali che
sono consci o semi-consci».
Esemplare del metodo joyciano è la
rappresentazione verbale del pensiero di
Molly Bloom alla fine dell'Ulisse,
allorché la mente della donna fa
emergere alla superficie della coscienza
i materiali caotici della memoria e del
desiderio, mentre scivola gradatamente
nel sonno. Conseguenza clamorosa
dell'uso dello stream of consciousness è
la disgregazione sintattica della frase,
che si presenta al lettore come un
sistema destrutturato di segni e di
parole in apparente libertà. Fa parte
dello stream of consciousness la tecnica
del "monologo interiore", che riproduce
le percezioni interne ed esterne del
personaggio senza alcuna mediazione del
narratore. In questo caso siamo al
livello pieno della coscienza, ma non
più di una coscienza selettiva e
intellettualizzata, come è nei grandi
monologhi shakespeariani, o nelle
angosciose meditazioni di personaggi
ottocenteschi come l'Innominato dei
Processi Sposi, sulla strada della
conversione, o come Isabel Archer,
l'eroina del Ritratto di Signora di
Henry James, posta di fronte al dilemma
se lasciare il marito indegno o
continuare a vivergli accanto. Il
linguaggio del monologo interiore
joyciano è onnicomprensivo e
fondamentalmente sensoriale, come si può
vedere ad esempio nel sesto episodio («Ade»),
quando Leopold Bloom segue un corteo
funebre, osserva gli edifici e le
strade, ricorda episodi ad essi
associati, tra cui quello che si
riferisce a un assassinio e a un
processo celebre, o all'inizio
dell'ottavo episodio («I Lestrigoni»),
dove la mente di Bloom, affamato (sono
le ore 13), si riempie di sensazioni
dolciarie.
La veglia di Finnegan utilizza una
struttura verbale ancora più complessa e
interattiva. Inizio e fine della frase
riportano a una centralità semantica che
mette in relazione dinamica tutti gli
eventi della Storia e i suoi infiniti
livelli. Assistiamo a un'«immensa
metamorfosi epistemologica, sostituto
verbale delle connessioni che la scienza
impegna operativamente per spiegare gli
eventi» (Eco). La freddura, il gioco di
parole, il qui pro quo sono funzionali a
un discorso conoscitivo. Così la forza
del destino (force of destiny) non è
solo un riferimento al melodramma di
Verdi, ma diventerà la farce of dustiny
("la farsa dello spolverino", tentiamo
di tradurre), con riferimento a dust,
polvere, che è la sostanza mortale
dell'uomo, mentre la messinscena
dell'opera verdiana si apre con una
cacofonica stonatura del pianoforte resa
con un incredibile e lunghissimo
termine, composto dalle parole che
indicano il tuono nelle varie lingue e
il rombo primordiale da cui ha origine,
nella visione vichiana, la vita.
Joyce e la
letteratura del Novecento
Le opere maggiori di Joyce si posero fin
dall'inizio come dimostrazione che il
romanzo tradizionale, con il suo
bagaglio di preoccupazioni sociologiche,
effetti sensazionalistici, analisi
psicologiche, era morto. Lo stesso T.S.
Eliot, nella già citata recensione
all'Ulisse (1923), sentenziò che la
storia del romanzo si era conclusa con
Flaubert e Henry James. I romanzieri
"moderni", liberati da ogni
preoccupazione sociale o moralistica,
possono esplorare liberamente il
rapporto che esiste tra la realtà e il
linguaggio.
Lo stream of consciousness e altre
tecniche narrative joyciane vengono
riprese tra le due guerre da Virginia
Woolf (Gita al faro, 1927). Nel secondo
dopoguerra inglese l'eredità dell'Ulisse
ricompare in vario modo nei romanzi di
Lawrence Durrell, Christine Brooke-Rose
e Anthony Burgess (che è anche valente
studioso joyciano). Negli Stati Uniti il
grande scrittore del Sud William
Faulkner rielabora il monologo interiore
fino a scavare nella dolorosa coscienza
di un idiota ne L'urlo e il furore
(1929), mentre Henry Miller fa esplodere
la componente erotica presente nella
prosa joyciana. Nell'America
post-bellica molti narratori, da
Salinger a Philip Roth, hanno sviluppato
spunti joyciani e certamente il
carattere ludico e dissacratorio delle
opere dello scrittore irlandese ha
contribuito ad alimentare il romanzo
postmoderno di Vonnegut, Pynchon,
Barthelme.
Un capitolo a parte merita la fortuna di
Joyce in Italia, sia per l'importanza
della nostra cultura nella formazione
intellettuale di Joyce (Ellmann afferma
che Dante fu probabilmente lo scrittore
che egli ammirò di più), sia per i suoi
lunghi soggiorni nel nostro paese,
durante i quali Joyce raggiunse una tale
padronanza della lingua da lasciare
alcuni frammenti di opere in italiano,
sia infine perché un rapporto stretto e
fruttuoso legò Joyce a Italo Svevo,
nella cui Coscienza di Zeno (1923) è
possibile scorgere il segno dell'alta
lezione del maestro irlandese. Anche gli
impasti linguistici adoperati da Carlo
Emilio Gadda devono certamente qualcosa
alla conoscenza dell'opera joyciana. Già
nel 1926 Eugenio Montale dedicò un'acuta
recensione all'edizione francese dei
Dubliners su «La fiera letteraria»,
mentre Alberto Moravia scrisse nel 1940
un significativo «Omaggio a Joyce» in
cui afferma, tra l'altro, di ammirare
nello scrittore irlandese il
rappresentante di un'Europa «libera e
percorsa in lungo e in largo dalla
letteratura e dall'arte, come da soffi
gentili annunciatori di primavera...
senza confini né divisioni, in cui era
lecito cambiare sede secondo gli umori e
i capricci dell'ispirazione letteraria» .
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