La prigione del nostro disincanto
Evidentemente, Daniele dev'essere persuaso che se qualcuno - io e gli altri irriducibili che hanno scritto al Barbiere - pensa cose diverse da quelle che pensa lui, quel qualcuno deve necessariamente aver «acriticamente» attinto a contenuti altrui, per giunta - come se non bastasse - anche poco edificanti. Ebbene: mi fa piacere rassicurarlo: la questione non è così lineare. Ciò che dicevo nella mia prima e-mail - e che ora ripeto in altro modo - è questo: se un uomo detiene un ruolo, di quel ruolo - almeno pubblicamente, perché poi nel rapporto uno-a-uno l'esercizio della comprensione affettuosa è oggetto di ampia negoziazione - deve accettare ognuna delle responsabilità, comprese quelle potenzialmente in grado di dipingerlo nel modo in cui a lui non piacerebbe essere dipinto. Ovvero, per fare un esempio poco curiale: se una moglie tradisceil marito, dovrebbe astenersi dal chiedere solidarietà e comprensione proprio a lui, al tradito, magari pretestando che, pur soffrendone, sente il bisogno di essere sincera con la persona che fino a quel momento le era stata sommamente cara. È una considerazione del tutto elementare, direi: mi stupisco che Daniele non ne colga l'ovvietà. Un uomo che detiene la responsabilità di stabilire cosa abbia diritto di cittadinanza sulle pagine del giornale che «vicedirige», e cosa invece non l'abbia, potrebbe sensatamente astenersi dal chiedere solidarietà e comprensione - mettendosi improvvisamente e inopinatamente al loro più scomodo livello - proprio a coloro su cui ricadono le conseguenze delle sue scelte. Cioè ai redattori che gli sono gerarchicamente sottoposti, ai collaboratori della sua testata, al «mondo» indifferenziato del giornalismo, e anche ai lettori che egli stesso attesta vituperati dai giornali. Anche questo mi pare un concetto piuttosto banale. Quanto al merito: certo che sul giornalismo c'è da riflettere. Eccome se c'è. Ma in questo pur auspicabilissimo ragionamento intorno alla professione è da usare un irrinunciabile metro di giudizio: la graduazione delle responsabilità. Innanzitutto, per dare scandalosa mostra del proprio colpevole silenzio durante le riunioni di redazione occorrerebbe almeno far parte di una redazione, direi. E poi: chi fissa le regole - e il silenzio in riunione ha saputo nel tempo diventare anch'esso una regola - non è la stessa persona che tace. Insomma: ognuno ha il suo potere, ed è bene che lo eserciti integralmente all'interno del ruolo in cui si trova. Diversamente, Daniele, succede che il ruolo viene esercitato soltanto nelle cene e in poco altro: quelle cene a cui avevo fatto riferimento. È ovvio che al viceresponsabile di un grande giornale càpiti anche di andare a cena con le sue fonti. E - stante il calibro del giornale e del giornalista - è allo stesso modo ovvio che quelle fonti saranno un po' più, come dire?, potenti di quelle professionalmente frequentate dal caporedattore del pur augusto Corriere di Castiglion della Pescaia. Supporre l'esistenza di queste cene non significa insinuare: significa
prendere atto che quel ruolo esige anche questo genere di frequentazioni.
Però non è carino fare il capo di un grande giornale solo
quando ce ne ricadono conseguenze che giudichiamo gradite (le cene, per
dire), e non accettare più le responsabilità del nostro ruolo
quando le conseguenze che ce ne derivano sono giudicate meno gradite (essere
considerati da sottoposti, colleghi e lettori come persone insensibili
alle «storie sfigate»). In effetti, mi sa che questa faccenda
delle cene tu la giudichi peggio di me. Vuoi vedere che sei più
a sinistra degli acritici khomeinisti?
Bds "Almanacchi, signori, vendo almanacchi! Gazzette di ogni tipo! Chi ne compra? Costano solo due lire! E sono pieni di notizie fresche!". "Ah, ecco, finalmente. Avevo una tale fame di notizie. Sa, sono
qui in montagna e in vacanza (nonostante tutti lavorino, in questo periodo...)
ma sono anche uno che legge.
"Come no, signore. E mi dica pure: cosa preferisce leggere, oggi?". "Oggi…, oggi vorrei l’Unità". "Mi perdoni, ma l’Unità ha chiuso…". "Ah già, è vero! Allora sa cosa le dico? Oggi prendo il Manifesto…". "Mi spiace, sono costernato, ma il Manifesto qui non arriva. Sa com’è la distribuzione, nelle isole, è complicata… Vende solo due o tre copie e non non ce lo mandano". "Vabbè, senta, farò lo sforzo: mi dia Liberazione e non se parli più!". "Guardi, sono costernato, e non voglio darle l’impressione di essere un cattivo venditore di almanacchi, ma oggi è lunedì: Liberazione non esce. Come non esce il Manifesto. Certo, se ci fosse stata l’Unità, l’avrebbe trovata, ma come le dicevo ha chiuso… Pensi che una volta, di lunedì, non usciva neppure la Repubblica… Ecco, c’è Repubblica!". "No, guardi, forse non ha capito: io voglio leggere un giornale di sinistra vero, duro e puro, come mi succedeva anni fa, ai vecchi tempi. Un giornale che faccia le inchieste sul lavoro nero al Nord e sul caporalato al Sud, che faccia il punto sul dibattito in corso a sinistra, che faccia denunce forti e serie su trame nere, scandali e poteri occulti, insomma, un giornale che dia notizie, ma capace anche di ragionare… Senta, facciamo così, mi dia un settimanale. Va bene Avvenimenti". "Guardi, io non ce l’ho con lei, davvero, ma se fa così mi mette in difficoltà. E’ che, vede, ha chiuso anche Avvenimenti… Però c’è l’Espresso…". "No, allora non ha capito lei quello che le ho detto prima! Vale anche per i settimanali, che diamine! L’Espresso lo prendo tutte le settimane: ma oggi non volevo fare quiz sul sesso o sapere a quali feste vanno i Vip, no, volevo un’inchiesta, un’inchiesta vera". "Ah, guardi, ecco il giornale per lei, il Diario!". "Per carità! L’ho preso, questa settimana, e ho letto pagine e pagine di racconti di scrittori, capisce? Belle, certo, ma io voglio altro, fatti e nomi di si-ni-stra!". "Guardi, io vorrei aiutarla, mi creda, e avrei anche un giornale per lei, la Rinascita della sinistra… ma l’unica copia che avevo con me - pensi che sfortuna - l’ho venduta!". "Sì, certo, ma forse non mi spiego: quello è un settimanale di partito, io volevo un giornale fresco, non ingessato, di sinistra sì, ma libero!". "Ecco, ci sarebbe Libero, il nuovo quotidiano di Vittorio Feltri! E’ verde, sia nella grafica che nelle tematiche, vicino agli ecologisti…". "No, non ci siamo. Io le ho chiesto un giornale di sinistra, rosa magari, ma una volta rossa, o almeno rosso-verde, non un giornale di destra gialla! O giallo-nera…". "Senta, cosa vuole che le dica! Mi ha sfiancato! E mi sta facendo anche perdere tutti i clienti! Quelli che si accontentano dei giornali normali, veri, autorevoli, che poi siano orientati a sinistra, a destra o al centro cosa importa, basta che ci siano notizie, tante notizie, tanti scoop e tanti inserti. Sui viaggi, sulla tv, sulla cucina, sugli hobby, su Internet. Ecco, guardi, faccia una bella cosa, si faccia un bel giro su Internet! Lì sopra, magari, qualche sito di comunisti o postcomunisti come piacciono a lei lo trova. Non deve neanche pagare, pensi che fortuna!". "Allora non ci siamo capiti: certo che ci navigo, su Internet, ma io volevo aprire un giornale, sfogliarlo lentamente, mettermelo in tasca magari, e andarci in giro, da vero audace, capisce? Ricorda la canzone? E avevo intenzione di comperarlo, sa, mica di prenderlo gratis… Perché a mio parere c’è spazio, sul mercato, per un giornale di questo tipo, capisce? Si potrebbe fare, che diamine! E poi, con tutti i giornalisti disoccupati e di sinistra che ci sono in giro, sa quante idee, forze, energie e persino… posti lavoro potrebbero nascere?!". "Ecco! Finalmente l’ho riconosciuta! Lei è un giornalista di sinistra, mi sembrava di averla vista da qualche parte! Altro che sole e riposo, altro che moglie e bambini, lei è qui a far niente solo perché è a casa, disoccupato e infelice! Ma mi faccia il piacere, mi faccia! Vada al bar, vada a ballare, vada a sciare, ma non dia fastidio a me, che devo lavorare! E se i giornali di sinistra chiudono o non vogliono assumerla, faccia una cosa: vada a lavorare in un giornale di destra e la smetta di dare fastidio alla gente importante. Quelli hanno altre cose per la testa che offrire una sedia, un computer e una scrivania a lei solo perché non vuole accettare che i giornali ideologici, carichi di gente e di ideali sono destinati a chiudere, uno dopo l’altro! Si venda, come fanno tutti i suoi colleghi e la smetta di dare fastidio alla gente perbene che si è già venduta, tanto tempo fa, senza menarla con tutte queste sceneggiate patetiche che ama fare lei!". "Mi sono già venduto, caro il mio venditore di almanacchi, l’ho fatto. Volevo solo sapere se qualcun altro, oltre me, rimpiangeva i giornali di sinistra, la loro storia, le loro battaglie, i loro errori e le loro povertà umane e meschine, come sempre capita, persino la loro folle ideologia. Che però ci permetteva di sognare e sperare di cambiare il mondo anche attraverso un foglio di carta, anche con la scintilla di una penna. Non l’ha capito questo riferimento ideale, politico e culturale, vero?". "Oh, signor mio, che noia che è lei, con la sua cultura d’accatto! Scintilla, Iskra, come si chiamava il giornale diretto dal giovane Lenin! E allora? Ho studiato anch’io, sa? Ed ero di sinistra anch’io! E dunque, "Che fare"? Bisogna lavorare, signor mio, lavorare. E mangiare. E vivere. E amare. La politica la lasci a quelli che già la fanno, nei loro Palazzi. Lei pensi al suo futuro, quello personale, lasci stare quello del mondo intero… I tempi sono cambiati, signor mio, è ora che cambi anche lei…". "I tempi sono cambiati, già. E sono cambiato anche io, le assicuro... Solo che non mi piace né come sono cambiati i tempi né come sono cambiato io, tutto qua. Ora vada pure, non la disturberò più, mi creda". "Ma non voleva un giornale, una gazzetta, con le notizie del giorno?". "No, non si preoccupi. L’ho già saputo da lei, quello che mi serviva". "Beh, non volevo offenderla, mi spiace". "Ma si figuri, e arrivederci!".
Un Giacomo Leopardi in sedicesimi
Noi, che per mestiere, dovremmo essere esperti di comunicazione, siamo decisamente incapaci di comunicare in modo efficace. Quando lo facciamo diamo l'idea di essere una categoria perennemente a metà del guado, attaccata come una patella allo scoglio dei privilegi, capaci solo di lamentarsi senza mai prendersi responsabilità di tipo imprenditoriale. Un mio compianto ex direttore avrebbe detto a Padellaro: "ottime considerazioni le tue. Ora non devi far altro che uscire dal tuo giornale e aprire una tua casa editrice. Tanti auguri". Come dire: se pensi che gli editori, e i direttori che bene o male li rappresentano, non hanno capito niente di come si fanno i giornali, allora non ti resta che fartene uno tutto tuo. Se poi la notte non dormirai perché non saprai come affrontare le banche il giorno dopo, se poi la telefonata settimanale del distributore che ti annuncerà vendite infinitesimali ti spingerà a sbattere in copertina qualche bella gnocca per ritoccare la diffusione, se poi ti incazzerai con i tuoi redattori quando ti proporranno di fare un servizio sul signor Gennari, beh allora dovrai riconoscere che in fondo il tuo direttore tutti i torti non li aveva. E che tu quantomeno non sei stato capace di combattere un po' di più per infilare qualcosa di serio tra un calendario Pirelli e un resoconto mondano da casa Verusio. Quello che facciamo fatica a dirci è che le scelte degli editori e dei direttori non fanno altro che riflettere quello che vogliono i lettori. Sì, sento già le vostre obiezioni: dove mettiamo la responsabilità sociale del giornalista, (ho delle idee.), il compito di informare ed educare (quello se l'è già preso Storace), la credibilità nei confronti del lettori (quali lettori, quelli che comprano 200mila copie in più di un settimanale perché c'è il calendario con la sgnappora in primo piano?). Un'altra cosa che facciamo fatica a dirci è che chi ci ha provato, magari senza molti mezzi, ma sicuramente senza compromessi, non se la sta certo passando bene. Chiedere al povero Deaglio (chapeau!) e alla sua redazione per credere. Quello che invece non ci diciamo affatto e se qualcuno ne fa cenno viene subito messo all'indice dal potente sindacato, è che gli editori, generalmente parlando, sono innocenti: in fondo sono solo imprenditori come gli altri, che all'occhiello preferiscono mettere il risultato dell'ultimo bilancio, piuttosto che lo stemmino del produttore di cultura. E cosa fa qualunque imprenditore degno di questo nome? Produce quello che vuole la gente. Altrimenti fallisce. Qualcuno mi sa indicare un solo editore europeo che vende milioni di copie parlando solo dei casi Gennari e assimilati? Come sempre, quando si getta un sasso nello stagno si sta lì a guardare i simpatici cerchi concentrici che si allargano sino a scomparire sui bordi. Nessuno si piglia mai la pena di analizzare peso e consistenza del sasso. Operazione molto utile che ci porterebbe quantomeno ad alcune considerazioni. La principale delle quali è questa: così come accade in televisione la diffusione o l'audience è il principale generatore di ricavi per un attività editoriale. Non tanto per le vendite (che ormai si fanno al costo del prodotto o addirittura sottocosto come nel caso dei settimanali dei quotidiani) quanto per i ricavi pubblicitari indotti, gli unici in grado di salvare il conto economico di un giornale. Insomma, e concludo, se questo è un paese che preferisce Il Grande Fratello a una trasmissione come Report di Rai2 confinata in tarda serata, questo non è colpa di nessuno, tantomeno di noi giornalisti. Gli editori fanno il loro mestiere e non si può certo metterli in croce perché lo fanno. Per noi non c'è che la terribile scelta: o facciamo gli editori
o continuiamo a fare i giornalisti dipendenti. Ma se scegliamo questa seconda
strada, e siamo consapevoli delle regole del gioco, dobbiamo avere il buon
gusto di non piangerci addosso. Altrimenti più che un lamento il
nostro abbaio alla luna rischia di essere scambiato per un alibi.
Paolo Ferrandi
Tutta la mia comprensione va invece alle centinaia di culi di pietra che per la munifica cifra di un milione e cinquecentomila passano agenzie o correggono i pezzi di collaboratori analfabeti per dieci-dodici ore al giorno. E non hanno certo il tempo di scrivere libri su cause peraltro sacrosante fuori dall`orario di servizio ergendosi a paladini dei deboli e degli indifesi. In sintesi, l`intervista di Padellaro mi suscita alcune riflessioni.
Padellaro ricopre il ruolo di quelli che le buone idee e le inchieste
controcorrente le cassano, per sua stessa ammissione.
Se fossi nei panni dell`editore dell`Espresso, sarei proprio tentato
di licenziarlo, il buon penitente Padellaro. A costo di scatenare le ire
ipocrite di tutta la categoria.
Un passo indietro. Padellaro racconta una storia e, con grande sincerità ai limiti dell'autolesionismo, riflette sul male mica poi tanto oscuro della nostra professione in questa fase. In un mondo di silenti (la stragrande maggioranza), parla. E che succede? Succede che Federica, con insulti e volgari insinuazioni, inizia il bombardamento, ma cambia discorso. Cioé: il dibattito diventa sulla persona Padellaro, NON sui problemi che Padellaro ha sollevato. E (quasi) tutti dietro a disquisire sul tema "ma come si permette Padellaro?", non sul grigiore che ha preso tutti noi, penne illustri e comuni mortali (ma i "bombardieri" di Padellaro si ritengono immuni, beati loro). Sul primo dibattito innestato dalla cortese Federica mi esprimo col classico "e chissenefrega" (il che non riguarda Padellaro, collega che ho sempre apprezzato molto, anche in questa occasione). Sul secondo, rinuncio per sfiducia, visto l'abbrivio di quello che poteva essere un dibattito vivace e stimolante, positivo. Invece mi sembra che, come purtroppo spesso accade, riaffiora la vecchia cultura sinistrorsa -assorbita acriticamente anche da tanti più giovani di me- per cui chi ha fatto una qualche carriera é un venduto, chissà quali patti ha fatto col diavolo (cioé l'editore o comunque il Padrone), e quindi non ha diritto di critica. E, sublime raffinatezza dello stalinismo, neppure dell'autocritica. Dunque quello che dice é da respingere in blocco, perché
"lui" non ha diritto di dire quelle cose (anche se, magari, giuste). Dài
ammettilo, Antonio, con chi vai a cena, eh, mariuolo? Peccato, un'occasione
sprecata.
Non mi sembra però il caso della cara Susanna, che nella sua lettera scrive "C'e' un passo dell'intervista di Padellaro che vorrei sottolineare. Quella in cui descrive i silenzi delle riunioni di redazione. Be', allora io vi dico che sono silenzi colpevoli perche' e' colpevole chi non e' capace di sostenere la sua proposta, esporre con fermezza i propri punti di vista, insistere e battersi per una linea giornalistica che ritiene giusta. Voi che accusate oggi Padellaro, siete quelli che se ne stanno zitti in riunione, scaldati dall'alibi che comunque, poiche' il direttore e' cattivo, e' inutile rischiare di farsi bocciare una proposta. Tanto chi ti caccia?" Molti di noi potrebbero rispondere: "Chi ci ha mai assunto?". Personalmente posso dire che la "carriera" me la sono rischiata ogni volta che da lavoratore in nero (non ero l'unico) obiettavo (qualcuno degli amici lo faceva meglio di me e rischiando perfino di più) le scelte del noto direttore di un quotidiano -settimanale, in riunioni di redazioni descritte alla lettera C de "Il giornalismo in 50 parole" (vedi Greatest hits del Barbiere). Valeva tanto per le scelte editoriali, che per quelle sindacali (una delle ragioni per cui sono a spasso...) Una volta si è rinunciato ad una inchiesta, o meglio ad uno scoop che poi è stato pubblicato da altri, (arrivati dopo sulle nostre tracce) per tre volte sulla copertina dell'Espresso (Le pensioni d'oro dell'Inps tanto per parlare chiaro). Per concludere: fusse che fusse che a forza di imbarcare il figlio
di , il nipote di, quello in quota a, alle riunioni di redazione mancassero
idee, professionalità e magari si continuasse lo scambio di favori?
(leggi "quello m'ha fatto assumere e che gli vado contro?").
Ma è sicuro che sia così, quando lavoriamo in situazioni in cui la pressione del direttore e dei suoi vice è schiacciante? Quando nelle stesse riunioni di redazione non c'è dibattito, ma una semplice assegnazione di compiti (ai protetti quelli più prestigiosi e agli altri ciò che resta)? Quando, soprattutto, ci sono situazioni in cui difendendo strenuamente
la propria linea, può capitare che il direttore ti punti e non ti
faccia fare più nulla, bocciando continuamente le tue proposte di
fronte agli altri colleghi? E' vigliaccheria? O semplice impossibilità
di reagire, di proporre, di crescere, di indagare e scavare nei fatti,
in modo che gli articoli non siano semplice veicolo di messaggi pubblicitari?
Allora. Leggo finalmente sul Barbiere della Sera l’intervista a Antonio Padellaro di cui ho sentito parlare nei giorni scorsi da alcuni colleghi. Poi leggo il dibattito che ne e’ seguito e trasecolo. Un piagnisteo dopo l’altro tutti improntati al medesimo schema dialettico: Ma insomma, Padellaro, proprio tu che manovri le leve del potere giornalistico dalla vice direzione dell’Espresso, vieni a far la predica a noi sfigati che passiamo agenzie e siamo sotto il tallone dei direttori cattivi?. Allora voglio dire la mia. Non conosco Padellaro ma dalle
sue parole capisco, e dovreste capirlo tutti, alcune cose.
Aggiungo che, per fare quelle affermazioni, un quadro dirigente del secondo settimanale italiano, deve avere un bel paio di palle. Le sue parole, infatti, vanno esattamente nella direzione contraria a quella vagheggiata sempre piu’ dagli editori che vogliono prima vendere e poi fare informazione. Ce ne sono molti, lo sapete, che ritengono i giornalisti un inutile orpello nella confezione dei prodotti editoriali d’informazione. Se mi permettete vorrei anche qui manifestare tutta la mia piaggeria nei confronti del Barbiere della Sera. Perche’ anche per fare il Barbiere ci vogliono un bel paio di palle. Abbiamo quindi il vice direttore del’Espresso che lancia una discussione seria e un bel po’ di colleghi che, sostanzialmente, invece di cogliere l’essenza e l’importanza della discussione, puntano il ditino per squittire: "predichi bene e razzoli male". Ma fatemi il piacere. C’e’ un passo dell’intervista di Padellaro che vorrei sottolineare. Quella in cui descrive i silenzi delle riunioni di redazione. Be’, allora io vi dico che sono silenzi colpevoli perche’ e’ colpevole chi non e’ capace di sostenere la sua proposta, esporre con fermezza i propri punti di vista, insistere e battersi per una linea giornalistica che ritiene giusta. Voi che accusate oggi Padellaro, siete quelli che se ne stanno zitti in riunione, scaldati dall’alibi che comunque, poiche’ il direttore e’ cattivo, e’ inutile rischiare di farsi bocciare una proposta. Tanto chi ti caccia? Padellaro almeno si assume le sue responsabilita'. Davanti a tutti. Pare a me che Padellaro, per spingere un po’ piu’ avanti la sua
provocazione, abbia disegnato, e con grande umilta’, una linea per terra
col gessetto. Chi sta da una parte e chi sta dall’altra, non per cattiveria,
naturalmente, ma per vilta’ e quieto vivere. Be’, caro Antonio,
visto
che Federica ti chiede con chi vai a cena, io a cena
con te ci vengo volentieri. E pago anche il conto.
L'assenza di libertá di stampa in Italia crea conflitti di interessi di Dom Serafini Per salvare il salvabile, la sinistra fará del conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi il suo cavallo di battaglia delle prossime elezioni parlamentari. Teoricamente, Berlusconi dovrebbe vendere le reti tv della sua Mediaset (che sul mercato vale 40.000 miliardi) e le riviste della sua Mondadori (che include "Panorama"); praticamente peró questo non é applicabile. Infatti é pericoloso non avere la copertura dei media propri per un politico o un industriale che opera in un paese come l'Italia che non garantisce la libertá di stampa sia a livello costituzionale che istituzionale. Quest'ultima affermazione fa infuriare alcuni costituzionalisti, tra i quali il prof. Alessandro Pace, il quale assicura che la Costituzione italiana é piú che adeguata a proteggere il diritto all'informazione e che in paesi come gli Stati Uniti la stampa é troppo protetta. In pratica, peró, i giudici italiani non solo accettano querele da personaggi pubblici che si sentono lesi da articoli imbarazzanti, ma affibbiano anche punizioni esemplari ai giornalisti troppo inquisitivi. Un esempio ci viene da una sentenza recente di un giudice di Verona che ha addirittura imposto ad un giornalista accusato di diffamazione verso un personaggio pubblico di non fare le domande sull'argomento oggetto di querela. Oggi la somma delle varie querele alla stampa italiana vale 3.000 miliardi. Naturalmente questo é un monito alla stampa medio-piccola e meno controllabile dall'alto. L'istituto di Washington D.C. "Freedom House", che indicizza il livello di libertá di stampa dei vari paesi del mondo, da all'Italia 28 punti (il punteggio alto non é buono) al pari dell'Ungheria, ma sotto la Repubblica Ceca (20) e la Bolivia (18). Ad andare contro la libertá di stampa in Italia ci sono vari elementi: la Costituzione italiana non parla mai di "diritto all'informazione" anche se l'articolo 21 garantisce la libertá di pensiero. La cronaca, in quanto diversa dal puro pensiero, non gode quindi di copertura costituzionale. Inoltre, secondo il "Commentario Breve alla Costituzione" di Crisafulli e Paladin (Padova 1990), "non del tutto pacifico é se la garanzia dell'articolo 21 si estende anche ai mezzi di diffusione". Il secondo elemento ad ostacolare la libertá di stampa in Italia é l'Autoritá della Privacy, creata apposta per penalizzare i giornalisti che vorrebbero investigare dirigenti politici, finanziari e industriali. La legge sulla "privacy" elimina a monte anche le regole che controllano la "diffamazione" a mezzo stampa e che dovrebbero prendere in esame tre presupposti: la veritá del fatto, l'interesse sociale della notizia e la correttezza formale dell'esposizione. Ci sono, poi, anche altri elementi condizionanti, come la tessera di giornalista rilasciata dallo Stato (necessario per svolgere la professione) e il finanziamento statale al settore editoriale (incluse la tv e il cinema). Pertanto il conflitto d'interessi per Berlusconi é
una conseguenza del fatto che la Costituzione italiana non protegge
la stampa indipendente. Quando la proprietá dei media é legata
ad interessi industriali e/o politici, la libertá di stampa é
irrilevante, mentre la stampa indipendente é soggetta agli umori
di giudici e pubblici ministeri. In conclusione, in Italia i potenti
hanno la necessitá di proteggersi usando come arma di difesa
e offesa i media: giornali, radio e televisione.
Pubblichiamo questo articolo a richiesta di Dom Serafini,
ma troviamo le sue tesi davvero molto discutibili.
Mi spiego: questo signore che si lamenta come l'ultimo e il più bistrattato dei collaboratori (quello a cui si segano regolarmente i pezzi e che viene sempre comandato a seguire le conferenze stampa e le presentazioni più inutili e demenziali) è in fin dei conti il numero due del più augusto newsmagazine italiano, è un uomo di potere (sia detto senza alcuna accezione negativa), è uno di quei signori deputati a decidere ciò che andrà effettivamente a finire in pagina. Chi impedisce a Padellaro, così invidiabilmente collocato, di praticare quel giornalismo che vorrebbe? Anselmi? Mah, mi risulta che il direttore dell'Espresso sia un giornalista bravo e anche coraggioso (vedere la sua reggenza del Corrierone in piena Tangentopoli). E allora, chi? La proprietà? La pubblicità? Il marketing? La Cia? Le Triadi della mafia cinese? Provi a spiegarcelo. E provi anche a spiegarci perché uno come Enrico Deaglio,
che uomo di potere non è (forse proprio per questo...) e che ha
mezzi infinitamente inferiori a quelli dell'Espresso riesce a raccontare
grandi storie su Diario e nelle sue trasmissioni televisive; perché
uno come Marco Gregoretti di GQ riesce a infilare eccellenti
inchieste tra una donnina nuda e l'altra; perché sul defunto Avvenimenti
si potevano leggere cose che nessun altro riportava. Certo, è più
facile leggere l'Internazionale e piangersi addosso per quanto sono bravi
i colleghi stranieri. Ma se non ci prova uno come Padellaro a smuovere
appena un po' il macigno, chi potrà farlo? L'Ordine? Il padreterno?
Mianonna?
Caro Padellaro, di te mi hanno sempre colpito alcune cose (ho sempre avuto un’immaginazione fervida - non avendola potuta mai mandare al potere): sembri sempre giovane, e invece oramai i tuoi anni ce li hai pure tu, epperò il tuo aspetto segaligno (da "abitino" avrebbe detto il grande Giùanin) e un refolo perenne di capelli bianchi, ti hanno sempre conferito un aria un po' triste, melanconica direi. Non ti conosco di persona (ti avrò visto un paio di volte e parlato una), ma ti ho visto un sacco di volte in tv, specie quando ero ragazzo e tu eri al Corriere. Hai presente Tribuna politica? Quella di Ugo Zatterin e Jader Jacobelli, per capirci? Ecco, io ti vedevo spesso là. E dentro di me dicevo (abitando e vivendo in una piccola landa, neanche troppo desolata, ma comunque decentrata, del centro-sud Italia): "Voglio diventare così". Cioè, voglio fare il giornalista, occuparmi di politica e di grandi problemi d'Italia, cercare di dare una mano a risolverli, fare domande serie e intelligenti ma incalzanti e fastidiose, essere elegante e misurato, ma senza cedere a lusinghe. Beh, io c'ho provato, giuro, ma non ci sono riuscito. Sarò stato sfortunato, sarò stato incapace, sarò stato avversato dal "destino cinico e baro", sarò stato fuori forma (e fuori misura), ma certo è che - pur essendomi occupato di politica, storia e cultura - non sono riuscito né a entrare al Corriere della Sera né all'Espresso né altrove. Ne consegue che ho contribuito poco a cambiare (e a migliorare) le "regole del gioco" della professione, della politica nazionale e dei destini dell'umanità. Non ne sono contento, tutt'altro. "L'inverno del nostro scontento" è anche il mio. Solo che tu puoi riversarlo in un libro di denuncia (che leggerò),
io - tutt'al più - posso scrivere una lettera al Barbiere della
Sera. Che poi magari me la pubblica (simpatici e preparati, sti
ragazzi del Barbiere, non trovi?). Però resta il punto. Tanto
per citare un'altra tragedia, in questo caso di casa nostra, l'Adelchi
del Manzoni (ché poi sempre di quello parla: la giustizia, il potere,
la gloria, la morte): "Il cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda alte e
nobili cose e mi condanna ad inique"
Il disincanto può essere e di fatto è un valore. D’accordo, politica è un concetto intrinsecamente morale (nel senso che riguarda i concetti di "giusto" e "sbagliato"), ma il confine dell'idealismo fine a se stesso - lungi dall'essere chiaro - mi pare continuamente sorpassato, e mi riferisco ovviamente alla sinistra. Ok, una volta la sinistra aveva la rivoluzione, un ideale tanto
alto "andava perseguito", era "tutto morale". Va bene.
Della serie: colleghi ce lo diciamo in faccia che siamo degli stronzi, tanto nulla cambia ma almeno abbiamo fatto il beau geste. Eh no, caro Padellaro, io non ci sto. Di eroico nella tua "sofferta" ammissione non c'è proprio nulla. A casa mia chiamo tutto ciò si chiama in altro modo ( butto lì a caso: conformismo, ipocrisia, omologazione, moralismo...?). In dieci anni ho capito che in questo mestiere bisogna rispettare una sola regola: quella di non infrangere le regole. Altrimenti sei un fesso, uno sfigato. Quante volte mi sono sentita dire dal mio caporedattore che, sì è interessante questa cosa, però sai è delicata, bisogna tenere conto di tutto, gli equilibri..., vabbè, tu intanto magari vai avanti, poi vediamo.... E io lì, come un'allocca a chiedermi che cavolo ci stavo a fare. Un "buon" giornalista non necessariamente deve essere bravo, ma necessariamente deve essere funzionale al sistema. I lettori però non chiedono chiesto. Ho conservato, fra le tante, la lettera di una giovane lettrice, una studentessa universitaria che erroneamente mi aveva attribuito un articolo sulla protesta dei gruppi pacifisti bolognesi alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale dei Ds alle amministrative di Bologna. L'articolista, cercando il famigerato equilibrio e con la benedizione
del direttore, aveva d'incanto fatto sparire dalla piazza tutti i manifestanti
che non appartenevano ai centri sociali: la protesta pacifista era diventata
solo una protesta degli autonomi. La giovane studentessa, con legittima
indignazione, sottolineava invece che fra i "pacifisti" c'erano centinaia
di persone che nei centri sociali non avevano mai messo piede, che lei
era tra quelle, che insieme a lei c'erano la zia - casalinga - e il fidanzato,
impiegato di banca, che lei aveva l'opportunità di smentire la "mia"
ricostruzione dei fatti, perchè presente, ma che tanti altri lettori
erano stati ingannati.
Io sono piu' colpito dalla disperazione del padre che vede l'indifferenza
davanti a se’, e mi domando dall'altra parte della pagina di giornale cosa
mai c'e' di sbagliato in tutto cio'.
Mi domando se chi fece quelle dichiarazioni e ottenne la definitiva assoluzione e' il rappresentante delle medesime istituzioni che feriscono da venti anni questa citta' con pelosi comportamenti su un aereo civile caduto nelle acque di Ustica, mi domando come mai queste cose sono scomparse sui giornali, me lo domando da cittadino, da lettore dei giornali che Padellaro scrive, da ufficiale in congedo del nostro esercito che deve vergognarsi del comportamento di altri ufficiali. mi domando cosa altro avremmo potuto fare... quando sono stato anche rappresentante istituzionale e con altri soggetti pubblici abbiamo dovuto trovare un avvocato che rappresentasse la parte civile, in quanto l'avvocatura dello stato stava "dall'altra parte" per decisione superiore. E i soldi impegnati in questa piccola opera di affiancamento delle famiglie delle vittime avrebbe potuto essere vanificata dalla Corte dei Conti, che poteva domandarci personalmente il pagamento di quelle parcelle. Perche' "lo Stato" stava dall'altra parte. Mi domando perche' si ometta volontariamente di ricordare che negli
stessi anni, e ancora oggi, "lo stato" STA DALL'ALTRA PARTE CAZZO!!!
richiedendo al restituzione pelosa dei risarcimenti provvisori alle famiglie
delle vittime della Uno bianca.
Io ho cercato, nel mio piccolo, piccolissimo, di stare invece dalla
parte di Gennari. Senza fare manifestazioni, senza sfogare inutile
rabbia a beneficio di qualche telecamera. Concretamente, nelle sedi processuali
dove speravamo di ottenere giustizia. Perche' fosse chiaro che NON tutto
lo Stato stava dall'altra parte. Che non tutto lo Stato sta ANCORA
dall'altra parte. Che Gennari, e tanti altri come lui non sono soli
nella loro citta' sin troppo ferita. E se annoia le redazioni, e "nun
akkiappa nessuno", beh, allora, permettete da lettore, da cittadino,
da concittadino dei tanti troppi Gennari, di dire anche io "chissenefrega"
di voi e delle vostre tavolate dove si decidono le prossime elezioni.
Enzio
Una sensazione simile la provai solo quando mori' Senna, ed era praticamente impossibile camminare per via Irnerio per la folla. Adesso, altri hanno scritto bene della contraddizione di chi tuona contro un sistema, ma poi non alza un dito per cambiarlo. Io vorrei solo far notare che tirare fuori tutti questi fatti solo
per fare l'usuale pistolotto alla sinistra e profetizzarne la caduta,
mi pare fuori luogo. Oddìo, non che non sia vero che si e' mossa
solo la base, le segreterie sono rimaste completamente immobili, e non
sono andate oltre i tentativi di assicurazione che "sarebbe stato fatto
tutto il possibile", con gli esiti che tutti hanno visto: Bologna 22 gennaio
1997, la Corte d'Appello di Bologna nel procedimento penale nei confronti
di: VIVIANI BRUNO, BREGA EUGENIO e CORSINI ROBERTO pronuncia la seguente
SENTENZA: "Visto l'art. 605 codice di procedura penale, in riforma della
sentenza 28 febbraio 1995 del Tribunale di Bologna, assolve gli appellanti
dalle imputazioni loro ascritte PERCHE' IL FATTO NON COSTITUISCE REATO."
(dalla home page del comune di Zola Predosa: http://www.nettuno.it/zolapredosa/salvem.htm.
Anzi, sono proprio i Padellaro, i direttori, i capiredattori che partecipano ai convegno sul tramonto della carta stampata e che lanciano strali sul modo in cui vengono fatti i giornali e sull'informazione, che hanno più responsabilità di noi "operai" delle notizie, se gli ingranaggi girano in questo modo. E vorrei dire che i giornalisti che lavorano col cuore ci sono in ogni redazione, basterebbe avere voglia di cercarli e di dare loro spazio. Che di storie le cronache locali, ad esempio, che nessun maxi direttore si diverte più a sfogliare, perchè non è trendy, perchè non ci sono i vip, sono piene di storie. Storie che, però, quasi mai arrivano ad avere larga diffusione. Perchè se telefoni alla redazione centrale per dire che hai una notizia, la prima domanda che ti fanno è "Ce l'ha l'Ansa?", Perchè se non ce l'ha l'Ansa o non è una notizia vera o non è importante. E poi ti accorgi che scattano due retropensieri. Il primo è: "Perchè questa mi viene a dare una notizia
che il giornale è già a posto?" Il secondo retropensiero,
che va a giustificare il primo è: "Avrà mica degli interessi
personali su questa notizia?" E sapete cosa mi è successo? Che
le mie storie, le mie notizie col cuore ho dovuto "salvarle" dal
nazionale, proteggerle dai titoli che non c'entravano col pezzo o dagli
attacchi un po' gonfiati, "sennò questa non è una notizia
da nazionale". Allora, se invece di stare a piangere su come sarebbe bello
scrivere di certe cose, cominciassimo a farlo? Se uscissimo dalle redazioni
dei giornali e ricominciassimo a consumare le scarpe? Se la smettessimo
con questo masochismo, con l’autoflagellazione e se chi può, chi
ha il potere dentro le redazioni, cominciasse a prendere decisioni diverse,
invece che dire che non si può fare nulla? Cosa stiamo aspettando?
Eppoi, se proprio vogliamo dirla tutta, vedo più colleghi
che si
pavoneggiano del loro disincanto (perchè fa rima con
saggezza
e grande professionalità) piuttosto che altri che chiedono di
buttare l'anima oltre l'ostacolo. Di solito, di questi ultimi si usa dire
che <perdurano nell'inutile entusiasmo del neofita>. Insomma,
chi è stronzo è una specie di genio, chi soffre su
un servizio perchè gli costa raccontare la realtà di un'umanità
sempre più dolente è solo un poveraccio, un idiota sentimentale.
A me è capitato in particolare in una occasione. A Roma nell'aula bunker di Rebibbia è arrivato a conclusione il processo di primo grado per la morte di otto italiani, uccisi in Argentina dai militari durante la dittatura degli anni '76-'83. L'aula è immensa, ha ospitato il processo Moro e quelli alla mafia. Eppure quanto poco è il pubblico e quanti pochi sono i giornalisti italiani che hanno seguito le udienze dal giugno di quest'anno. Certo i colleghi di casa nostra erano presenti quando faceva capolino il politico di livello nazionale, certo invitavano la sera a cena gli avvocati, certo seminavano i loro biglietti da visita con la testata in bellavista. Ma poi, quanto era lo spazio che riuscivano a dare a questa vicenda ? I colleghi stranieri, specie latino americani, invece non si contavano. E a loro brillavano gli occhi quando al mattino dicevi "Ho letto il tuo pezzo di ieri su internet" ( spesso era l'apertura degli esteri, quasi sempre aveva il richiamo in prima). Io ero in aula quando Italo Moretti ha ricostruito la vicenda storica della dittatura ed i suoi legami con la grande industria italiana, la massoneria, la Chiesa compromessa del cardinale Pio Laghi. Robetta niente male per chi volesse ricostruire 25 anni di storia recente, molto tricolore, a cavallo di due continenti. Ero in aula quando alcuni perseguitati ora residenti in Italia hanno descritto, senza risparmiarsi, l'inferno che hanno conosciuto nei vari Club Atletico, Garage Olimpo (sì, proprio quello che dà il titolo al film di Bechis)o del centro di detenzione La Cacha. Perché l'ho fatto? Perché ho raccolto i racconti dei rapimenti, delle torture, degli stupri, delle impunità irriverenti sbattute in faccia? Forse per il "sacro fuoco", più terra terra direi però per la pagnotta quotidiana. Perché sono convinto che questa,come altre, sia una storia
da raccontare, che faccia notizia e faccia vendere. Basta scegliere. Direttori,
vicedirettori, capiredattori e capetti vari esistono, lavorano e sono pagati
per questo. Anche se forse l'assegno mensile arriva prima dicendo no a
questi argomenti (vuoi mettere il sondaggino di turno su quanti italiani/e
amano farlo nella posizione dello pterodattilo?). Zavattini
diceva che il cinema italiano è morto quando gli sceneggiatori hanno
smesso di pagare il biglietto dell'autobus.
Anzi: semmai negli anfratti del mio cuore sofferente mi fosse avanzata una qualche residua capacità di comprendere le sventure altrui, potrei - gentilmente - esprimergli la mia solidarietà e cercare di capire? E così si finisce per dover parlare del mondo cattivo che ha fatto vittima non solo me, che vado - poverina, come mi capisce - cercando lavoro, ma anche lui, lo pseudo-potente, finito schiacciato in un gioco che il suo senso morale non approva. Ecco: non posso più cercare di capire. Non posso più capire perché qualcuno che ha un potere - e il vicedirettore dell'Espresso ce l'ha certamente - cerchi la mia solidarietà di calpestata allorché spiega di essere anch'egli «prigioniero del disincanto». Vediamo di sintetizzare: il vicedirettore di uno dei settimanali più importanti d'Italia viene a dire a me che il giornalismo non ha più cuore, che non si occupa più della vita reale, che preferisce parlare di cazzate invece che delle cose che richiedono sforzo d'indagine e fatica di meningi. E mi spiega che non è che lui si sta tirando fuori da questo malvezzo giudicandosene immune, no: anzi, in questa trappola è caduto anche lui, e ci continua a cadere nonostante la sua consapevolezza: anche lui finisce per avere il cuore duro, anche lui finisce per andare dietro alle cazzate, anche lui si fa sordo alle sfighe (perché, tanto, gli sfigati sono sempre gli altri, e nessuno gli ha mai spiegato che la vita è una ruota e che la sfiga non guarda in faccia a nessuno). E sarebbe anche ora di finirla, di dividere il mondo in due: noi i fighi, gli altri i deboli), anche lui si fa attento al menù, ma anche lui è infuriato perché la sinistra ha abbandonato i «deboli». Eh no, Padellaro: non ci siamo proprio. Lasciatelo dire da una che il cuore ce l'ha, e che è senza lavoro anche per questo («anche», non «solo»: il lavoro non ce l'ho anche perché sono brava, Padellaro, e mi piacerebbe fare le cose che tu mi vieni a dire che bisognerebbe fare. Ti va di farmici provare sul tuo giornale?. Lui, Padellaro, mi direbbe: eh, come ti capisco, ragazza; la colpa è anche mia; ma come faccio a darti una chance professionale se io stesso sono - maledizione - prigioniero del disincanto? Ecco qui, Padellaro. C'è un giornalista che, da qualche parte d'Italia, si occupa di cronaca cittadina. Scrive pezzi in cui il sindaco è un dio, gli assessori sono dei cherubini, gli scazzi di giunta sono espressioni di dialettica democratica, la città è solidale e generosa, è un luogo dove si vive alla grande, dove i cittadini sono operosi e la sanità funziona come uno zenith... Ebbene, Padellaro: questo collega, quando viene Natale, si mette a incidere un disco. Sissignore, un disco. Canzoni scritte e cantate da lui. Chi comprerà quel disco, debitamente pubblicizzato sul suo giornale, sosterrà un'associazione che si occupa dei cittadini senza casa. Ma come? In questa città esiste della gente che non ha casa? C'è qualcuno che ha bisogno di denaro? In questo posto si vivono simili situazioni? E dove l'ha scritto, questo collega? Forse sul suo giornale? No: sul suo giornale no. Invece di usare il lavoro per il quale prende uno stipendio, ha preferito dichiararsi buono partorendo un cd. Almeno, sul cd la firma c'è di sicuro. E nessuno potrà mai dirgli che lui è un egoista. Padellaro mi potrebbe dire che dentro al suo giornale non può scrivere queste cose perché non glielo permettono. E io potrei rispondergli che se non ti fanno fare una cosa in cui credi tu puoi anche dimetterti, andartene, fare un'altra cosa. Padellaro potrebbe replicare che questo collega, magari, tiene famiglia. E io potrei dirgli che a quel punto, se tiene famiglia, potrebbe anche tacere. Potrebbe anche evitare di vestire i panni del moralista dei miei stivali quando si tratta di incidere un disco, e fare esattamente quello che vogliono i «cattivi» quando si trova in una situazione che non sente il coraggio di cambiare. È ora di tacere, Padellaro. Te lo ricordi De Andrè?
Ti ricordi quando diceva che non esistono poteri buoni? Ecco, Padellaro:
non esistono. Neanche tu puoi fare eccezione. Non ci provare, a fare eccezione.
Per favore, non provarci. Limitati a usare il potere che hai per fare qualcosa
che puoi. Non puoi fare altro? Taci. E se proprio hai ancora voglia di
parlare, dicci - per favore - con chi sei andato a cena nelle ultime
settimane. È importante anche la compagnia che si sceglie per
andare a cena, e credo che tu lo sappia meglio di me. Io vado a cena a
casa mia. Tu, Padellaro, dove vai? E con chi?
1) troppo comodo dire "così non va" e "è anche colpa mia, ma non posso farci niente"; b) voglio vedere che giornale farà Padellaro quando
dirigerà "L'Unità"...
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