Furono progettate da D'Annunzio, sul finire del secolo, come un grande ciclo
lirico che doveva comprendere, secondo i progetti iniziali, sette libri, tanti
quante sono le Pleiadi, ognuna delle quali avrebbe dato titolo ad un libro:
Maia, Elettra, Taigete, Alcione, Celeno, Sterope, Merope. Dell'intero progetto,
però, D'Annunzio arrivò a pubblicare soltanto quattro libri; un quinto libro,
postumo, fu aggiunto nel 1949 con il titolo Asterope per raccogliere i Canti
della guerra latina, cioè i versi scritti durante la prima guerra mondiale. Il
libro primo, Maia, fu composto per ultimo ma pubblicato per primo nella trilogia
degli anni 1903-1904, con il titolo di Laus vitae. Il libro secondo, Elettra, il
cui primo componimento risale al 1896, venne interamente scritto fra il 1899 ed
il 1902 e pubblicato nel 1903, insieme con il libro terzo, ma con data in
explicit 1904; un'edizione economica comparve, senza più il terzo libro, nel
1906 (sempre presso Treves), e fu ristampato nel 1928 nel volume tv
dell'Edizione Nazionale; al 1934 risale la stampa nelle edizioni dell'Oleandro
(Roma) e al 1939 la prima edizione postuma (Milano, Mondadori), testo base per
l'edizione mondadoriana successiva nei Versi d'amore e di gloria, li, del 1950.
Il libro terzo, Alcione (tale la grafia del progetto originario), fu pubblicato
in editio princeps nel 1903, in un unico volume con Elettra, con data editoriale
1904, a cui seguì, per la stessa casa editrice, una seconda edizione (questa
volta in volume singolo) nel 1908; nel 1927 Alcione occupò il VII volume
dell'Edizione Nazionale, mentre nel 1931, per i tipi dell'Oleandro il titolo
riportò per la prima volta la grafia grecizzante con la ypsilon (Alcyone). Il IV
libro, Merope, fu composto durante l' "esilio" francese trascorso ad Arcachon:
le liriche, prima pubblicate sul «Corriere della sera» tra 1'8 ottobre 1911 e il
14 gennaio dell'anno successivo, uscirono in un volume - impreziosito da disegni
di Adolfo De Carolis - nel gennaio 1912, con il titolo Le Canzoni delle Gesta
d'oltremare (ma fu subito sequestrato dalle autorità per alcuni versi contenuti
nella Canzone dei Dardanelli). Solo nel 1915 uscì l'edizione integrale, accolta
successivamente, nel 1929, nell'VIII volume dell'Edizione Nazionale.
Un quinto e ultimo libro, quello di Asterope, avrebbe dovuto assommarsi agli
altri delle Laudi, secondo il progetto di «Tutte le opere di Gabriele
d'Annunzio» del 1927, che recava il titolo generale e programmatico: «Laudi:
Asterope: Gli inni sacri della guerra giusta (1914 1918)». Con tale dicitura fu
iniziata la stampa (e con il titolo mutato in Sterope), che venne però subito
sospesa per esplicita volontà dell'autore. I componimenti, tuttavia, furono
pubblicati nel 1933, nel IX volume dell'Edizione Nazionale con il titolo di
Canti della guerra latina, e ristampati per l'Oleandro nel 1939. Secondo le
ultime indicazioni dell'autore, infine, il libro fu compreso, accanto alle altre
Laudi, come libro quinto del 11 volume dei Versi d'amore e di gloria, Milano,
Mondadori, 1949.
LIBRO PRIMO Maia
Dedicato e intitolato a Maia, dea della forza generatrice, reca come titolo
ulteriore Laus vitae, che ne costituisce la parte preponderante. Si tratta,
infatti, di un lunghissimo inno in lode della vita, della vitalità della natura
e della forza creatrice, in una parola della decima Musa «Energeia». Strutturato
rigidamente in quattrocento strofe di ventuno versi ciascuna (per un totale di
ottomilaquattrocento versi), Laus vitae è veramente - come lo stesso D'Annunzio
scrisse in una lettera a Georges Hérelle - «un poema moderno». Il libro è, in
gran parte, un lungo viaggio allegorico, i cui modelli di riferimento sono i
testi omerici e la Divina Commedia, e che prende le mosse dal reale viaggio che
lo stesso D'Annunzio ebbe a compiere in Grecia nel 1895. L'Ellade è la terra in
cui sedimentano i miti pagani e naturali che si contrappongono alla vetusta
morale cristiana. Dopo la poesia dedicata Alle Pleiadi e ai Fati e il canto
proemiale L'Annunzio (premessi all'intero ciclo delle Laudi, ma strutturalmente
posti in limine a questo primo libro), segue, infatti, la lunghissima Laus
vitae, ode alla vita agognata e invocata attraverso i «nomi divini» del mito più
antico: «O
figlie d'Atlante, / Atlantidi, corona ardente / delle Pleiadi, o Taigete, / o
Elettra, o Celeno, / Merope fosca, e tu, Maia, / dall'affocata faccia, /
Asterope, Alcyone, / scendete ai miei giardini!».
L'esaltazione della vita è il "pensiero dominante" dei primi seicento versi
della Laus vitae, dove si formula l'invito affinché l'uomo si riappropri di un
contatto panico con la natura intesa in senso fisico e primordiale. A essi
seguono i versi che ripercorrono il viaggio di D'Annunzio in Grecia. È un
itinerario attraverso la Grecia moderna, da Patrasso a Olimpia e Delo, che non
esclude tappe come l'Agro Romano, la Cappella Sistina o il Deserto; ovviamente,
ciò è possibile in quanto si tratta di un viaggio rivissuto in maniera
fantastica, ricorrendo continuamente ai miti pagani, perché accompagnino e
secondino l'ansia di vivere che è l'ansia di navigare incessantemente nel mare
dell'esistenza, della natura e dell'esperienza fisica di essa. Non a caso il
libro si apre e si chiude con il plutarchiano motto di Pompeo Magno: «necessario
è navigare, / vivere non è necessario».
LIBRO SECONDO, Elettra
Ritenuto comunemente un libro di falsa oratoria, Elettra è in realtà il
tentativo di individuare e celebrare una sorta di favola della bellezza
dell'arte e delle glorie della storia d'Italia. Da questa fisionomia "museale"
il libro secondo delle Laudi ha sempre tratto lo svantaggio di essere
classificato come una sorta di "centone" mal riuscito, di un collage o di un
vero e proprio bric-à-brac «nonostante i raggruppamenti che tentano dargli un
simulacro di strutturale unità» (Eurialo De Michelis). In effetti, l'apparente
disomogeneità del libro offre al lettore l'impressione di un insieme disorganico
e posticcio. Dopo le prime due "invocazioni" Alle montagne e A Dante, la prima
parte si apre con una serie di componimenti dedicati a eroi o a luoghi
eroico-mitici della Patria, e si conclude con la canzone La notte di Caprera. La
seconda parte contiene i «Canti della morte e della Gloria», ovvero una serie di
liriche dedicate ad artisti ed "eroi" del pensiero filosofico; la terza parte è
costituita dai «Canti della Ricordanza e dell'Aspettazione», che è forse il
nucleo poetico più autentico. In essa, infatti, sono comprese le liriche
dedicate alle cosiddette «Città del silenzio», cioè quelle città italiane
particolarmente importanti per il patrimonio artistico, culturale e storico in
esse conservato (per lo più città della Toscana e dell'Umbria). Anche qui,
l'erudizione storica e la retorica compositiva sembrano soffocare la maestria di
D'Annunzio nell'evocare paesaggi semplici e di struggente nostalgia, che è poi
una nostalgia, ancora una volta, di tipo figurale o memorativo. Le città d'arte,
emarginate e ridotte al silenzio da una storia di utilitarismo mercantile,
sembrano rivivere in lontanissime immagini di gloria e di riscatto che le
rendono memorabili come sacre reliquie del tempo e dell'arte. È il caso della
lauda in memoria di Ferrara («O
deserta bellezza di Ferrara, / ti loderò come si loda il volto / di colei che
sul nostro cuor s'inclina / per aver pace di sue felicità lontane»),
dove la tecnica di rappresentazione poetica e la materia poietica fanno già da
significativo preludio ad Alcyone. Il libro si chiude con due canti diversi, ma
con identica tonalità celebrativa: Canto di festa per calendimaggio e il Canto
augurale per la Nazione eletta.
LIBRO TERZO, Alcyone
È il libro più famoso della intera poesia dannunziana e, forse, novecentesca.
Dentro la composita architettura delle Laudi, infatti, gli spetta un posto di
particolare importanza, non fosse altro che per la complicata storia compositiva
di cui è l'esito. In esso D'Annunzio sembra aver segnato il massimo grado di
sviluppo della sua ricerca poetica, scrivendo un canzoniere che, per sé, ha
avuto il significato di tappa fondamentale nell'individuazione dei più autentici
nodi mitopoietici della sua stessa arte. Alcyone rimane il miracolo di una
scrittura che ha saputo addensare le sensazioni e le vibrazioni di un entusiasmo
vitale e le più segrete malinconie che comporta la consapevolezza della vanità
del tutto.
Si tratta di un poema la cui struttura di silloge lirica accoglie e svolge al
suo interno la narrazione della favola di un'avventura esistenziale e
metamorfica, compiuta nel disperato, perché illusorio, tentativo di un recupero
della libera innocenza del mito. Essa si sviluppa lungo un preciso arco
stagionale (quello estivo, còlto dall'inizio al culmine, fino al declino) e
geografico (il litorale tosco-laziale, dalla Versilia al Circeo, sia pur con
riferimenti a spazi lontani e solo sognati, come la terra d'Abruzzo o l'Ellade
classica), e si caratterizza per la varietà di forme stilistico-metriche, che
vanno dai moduli dell'antica letteratura romanza alle soluzioni più libere della
coeva tradizione poetica. La "favola" di Alcyone è articolata in ottantotto
liriche divise in cinque sezìoni, scandite da quattro ditirambi, di cui ciascuno
preceduto da un pie-ditirambo con titolo latino d'autore. La prima sezione si
apre con i canti proemiali La tregua e Il fanciullo: il primo funge da raccordo
verso l'esterno (Maia), il secondo è di introduzione al libro. In questa
sezione, che va dal dittico Lungo l'Affrico e La sera fiesolana alla ballata
Beatitudine, l'attesa dell'estate è cantata con moduli e scelte linguistiche,
stilistiche e metriche che potrebbero dirsi preraffaellitiche, sullo sfondo dei
colli fiorentini.
Alla seconda sezione, invece, è affidata la descrizione dei primi, istintivi
sentori dell'imminenza della stagione panica, in una cornice di paesaggi marini
della riviera toscana, che sono i paesaggi entro i quali si situa la prima
"avventura" metamorfica di Alcyone (La pioggia nel pineta) e il primo mito
metamorfico di Glauco: «uomo non più, non anco dio ma immemore / della terra e
degli uomini».
In questo senso, La pioggia nel pineto rappresenta una sorta di dichiarazione dì
poetica, secondo cui, dismesse le vetuste parole dell'alfabeto umano,
l'esperienza panica consente al fauno/poeta di acquisire le più complesse,
sottili e labili «parole» della natura, quelle «parole più nuove / che parlano
gocciole e foglie»: le sole in grado di porre in comunicazione la sostanza
primigenia di cui l'uomo è costituito e la sostanza primìtiva e pura della
natura. La poesia, così, spiega tutta la sua forza orfica e panica: è il momento
attraverso il quale viene rifondato il mondo; la natura viene finalmente capita
perché nominata, metamorfizzata in parola poetica.
La terza sezione, invece, compresa fra L'oleandro e i nove sonetti della «Corona
di Glauco», si sostanzia proprio della solarità finalmente esplosa in tutto il
suo chiarore nei mesi di luglio e agosto: lo spazio eletto, questa volta, se
rinvia ancora al litorale toscano (quello fra il Tirreno e le Alpi Apuane),
d'altro canto ricorda una dimensione lontana, un mondo ignoto o dimenticato.
L'ambiente geografico concreto si dissolve o si trasforma, lasciando
intravvedere i luoghi dell'Ellade antica, luoghi di fauni e ninfe, di mitiche
metamorfosi, di contatto diretto tra la deità e l'uomo, tra la natura arborea e
gli animali. Ne risulta un paesaggio sospeso nello spazio e nel tempo: sospeso
in uno spazio concreto che subito trascolora in uno virtuale, dove il mare è
bianco, il cielo squarciato da una luminosità aurea, tra gli oleandri in fiore e
i pini odorosi di resina; e sospeso in un tempo per cui luglio e agosto sono
solo un pretesto per compiere il trapasso verso una più mitica estate. In tale
dimensione di favola, D'Annunzio/Glauco può vivere pienamente la sua totale
avventura metamorfica, perché ora il Tirreno è il mare greco, come la terra di
Toscana tra Luni e Populonia è l'Ellade, e l'uomo è il dio. Il mito
dell'antichità greca, ora, ritrova tutta la sua forza nel ritmo della poesia,
nella struttura musicale di una parola composta di fluida sonorità, cioè dentro
alla rete «dei rapporti che si disegnano dentro la favola mimetica e la
suggestione fisica dei suoni» (Ezio Raimondi).
La quarta sezìone, che va da Versilia a L'ala sul mare, vede il persistere della
stagione miticometamorfica inaugurata nella sezione precedente. Già la prima
lirica, prosopopea dell'amadriade del titolo, riconduce a quell'atmosfera in cui
la metamorfosi (sia pure, questa volta, in direzione inversa: non più l'uomo che
si trasforma, ma la «ninfa boschereccia» che diviene donna) è la prodigiosa
avventura dell'estate alcionica. Estate che è ancora nel pieno fulgore
stagionale in cui si verificano visioni (Versilia), metamorfosi (La morte del
cervo), prodigi (L'asfodelo), apparizioni di Centauri o del Tritone, di ninfe o
divinità, ma che già reca in sé i primi indizi dell'inesorabile declino. La
vitale pienezza panica e orfica cede il passo a un'ombra sottile di malinconia
che avvolge lentamente il paesaggio e la poesia.
La quinta sezione è aperta dalla ballata Tristezza. Ormai, nel tempo, non ci
sono che Gli indizii della stagione che trapassa, e dunque non resta che il
conforto nostalgico della memoria. Proprio da questa nostalgia, dalla
malinconia, nascono i «Sogni di terre lontane» che accompagnano il poeta in
quest'ultima fase del suo indimenticabile sogno; anche Ermione - la compagna del
più fulgido tempo alcionio in cui ci si poteva lasciare illudere dalla favola
bella - intona l'epicedio dell'estate e disillude il poeta: «T'inganni.
Quella ch'è sì chiara / è la falce / che l'Estate abbandona / morendo»;
la luna è nient'altro che la «faccia dell'Estate [...] che muore» e «dopo che
tanto l'amammo, / dopo che tanto ci piacque [...] si tace per sempre. La favola
bella di Alcyone è finita per sempre; finita è la stagione, abbandonati i luoghi
(Versilia/Ellade) del sogno mitico, concluse finanche le possibilità di cantare
l'estate e il suo sogno nei modi e con gli stili di una musica lontana nel
tempo. La malinconica chiusa del Commiato - componimento che conclude la
stagione estiva, l'avventura alcionica e, contemporaneamente, anche quella
grande stagione di poesia che il suo autore ha potuto vivere («Troppo è grave al
mio cor la dipartenza [...] / Tempo è di morte») - non è solo relativa alla
vicenda stagionale: la conclusione del testo avviene anche in una zona che è
fuori del paesaggio, nella stessa poesia. L'addio al «fratello» Pascoli si
precisa, come un'amara conclusione sulla natura della poesia, sulla solitudine
della propria poesia, sulla possibilità che essa continui a esistere nonostante
il cambiamento dei valori nel mondo moderno: «E
chi coronerà oggi l'aedo / se non l'aedo re di solitudini? / Il crasso Scita ed
il fucato Medo / la Gloria ha drudi».
Di quell'arte antica, la poesia, resta solo qualche reperto, restano oggetti
abbandonati di un tempo che fu, raccolti e conservati per un labile amore
archeologico: «Nella sezione finale di Alcione, quando al tempo fermo
dell'estate succede l'ombra lunga settembrina, il viaggio nell'antico potrà
avvenire soltanto attraverso le scaltrite, malinconiche consapevolezze del
moderno, nella passeggiata archeologica tra qualche capitello corroso coperto di
muschio dove guizza una lucertola, fra i riccioli d'una statua dove s'insinua
un'ape» (Pietro Gibellini).
LIBRO QUARTO, Merope
Le circostanze personali (la condizione di «esule» in Francia) e quelle storiche
(la scelta imperialistica compiuta dal governo italiano in Libia) spiegano
perché il libro - eccentrico nei confronti delle altre Laudi - canti la
grandezza della potenza italiana e della sua vigorosa tradizione storica. Nei
termini di un'enfasi che suona eccessiva e poco convincente, le dieci canzoni si
snodano l'una dopo l'altra imitando il ritmo martellante della terzina dantesca,
nel tentativo di contenere il pathos che nasceva dalla materia trattata. La
poesia di Merope ambirebbe assurgere a una melica celebrazione del genus
italicum, legittimato dalle incursioni nella storia (con riferimenti a quella
comunale, medioevale e cristiana), quale garanzia di rinascita dei fasti del
passato. Finisce, invece, con l'essere un'esperienza poetica platealmente
fallita perché scaduta entro la vertigine della follia oratoria e declamatoria
fine a se stessa.
LIBRO QUINTO, Asterope
È un libro completamente staccato dall'atmosfera biografica, letteraria,
cronologica delle prime tre Laudi. Esso raccoglie ventitré testi tra poesie (due
in francese), salmi, preghiere e prose ritmiche. Benché alcuni versi non siano
estranei al miglior D'Annunzio, nell'insieme la raccolta, come la precedente,
sembra essere il fallimento di un progetto poetico: la sovrabbondanza dei toni
retorici, il grido feroce del violento aggressore, il desiderio del sangue e
della guerra non riescono a riassorbirsi nelle soluzioni tecniche della ritmica
"barbara", della prosa musicale o salmodiante, né, tantomeno, nelle soluzioni
tematiche delle citazioni stranianti dalla Bibbia o dello stravolgimento di
testi della tradizione liturgica cristiana («Conclamano gli eroi: "Signore Iddio
delle vendette, o Iddio delle vendette, appari in gloria!"»).
La diversità strutturale e tematica dei cinque libri non ha consentito una
valutazione omogenea e serena dell'intero ciclo, ma si è esercitata di volta in
volta su un singolo libro o, tutt'al più, sui primi tre libri; in ogni caso,
però, disconoscendo il quinto come ultimo libro del medesimo ciclo. E se da una
parte i pregiudizi politici e ideologici hanno contribuito ad avallare una
lettura rapsodica dell'opera dannunziana, dall'altra parte sono i dati obiettivi
della filologia a indurre una lettura differenziata delle Laudi. Mentre
tematiche di fondo capaci di conferire unitarietà al ciclo sono state di volta
in volta cercate nella "Grecia", nella "sensualità della parola", oppure in un
mal compreso "eclettismo", sembra ormai incontrovertibile che l'unico dato
unitario per le Laudi sia esterno all'opera: ovvero, la capacità strategica di
D'Annunzio di offrire al suo pubblico di lettori «erotismo, vítalismo, verismo,
estetismo, nazionalismo, nieztschianesimo cioè presso che tutti i temi culturali
di moda tra la fine dell'ottocento e il primo novecento» (Giorgio Bárberi
Squarotti); considerazione che rafforza una precedente definizione, per cui le
Laudi hanno rappresentato «il grande inganno» che pure ha creato «cose belle e
perenni» (Renato Serra).
Le Laudi, anche editorialmente, hanno avuto successo più come libri singoli che
come unico ciclo. Le più prestigiose pubblicazioni hanno riguardato, infatti,
ora Alcyone, ora Maia, ora Elettra, separatamente, con una netta emarginazione
di Merope e Asterope. Di Alcyone, nella nuova Edizione Nazionale, è uscita
l'edizione critica a cura di Pietro Gibellini. Tra le edizioni dell'intero ciclo
delle Laudi, va menzionata quella nella collana «I Classici contemporanei
italiani», Versi d'amore e di gloria.
|