Luigi
De Bellis

 


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Gabriele D'Annunzio



LE NOVELLE DELLA PESCARA


Ricavato dalla fusione di alcune raccolte precedenti, è l'ultimo episodio della carriera di D'Annunzio come novelliere. Al 1882, infatti, risale la prima raccolta di novelle (Terra vergine, Roma, Sommaruga), subito seguita da Il libro delle vergini (ivi 1884) e da San Pantaleone, a cui vanno aggiunte le due raccolte minori Gli idolatri e I violenti; le ultime quattro raccolte, rimaneggiate con qualche modifica e qualche espunzione di testi considerati troppo compromessi con il verismo di matrice verghiana, furono fuse per produrre la nuova raccolta di novelle del 1902. Dal Libro delle vergini fu scelta la novella Le vergini (mutandone il titolo in La vergine Orsola); due bozzetti provengono dal volumetto I violenti; le restanti quindici novelle - alcune delle quali passate attraverso Gli idolatri ripropongono testi del San Pantaleone. La raccolta venne successivamente ristampata nel 1909 con l'aggiunta di alcune illustrazioni di Ferraguti e Amato, andando infine a costituire il volume XI dell'Edizione Nazionale.

Libro programmaticamente composito, le diciotto Novelle della Pescara ritrovano unità e coerenza in ordine ai temi, disparati, ma legati dal filo rosso della malattia e della violenza, della sensualità (che, non di rado, diventa sessualità) morbosa, della follia e della morte, di cui sono protagonisti personaggi unici, "eroi" che spiccano su uno sfondo corale e popolare. La vergine Orsola, per esempio, che dà il titolo alla prima novella, non è altro che un'esasperata analisi della "fisiologia" dell'anima della malata. Orsola dell'Arca, dopo una lunga malattia, si avvia a una lentissima guarigione. La convalescente scopre in sé, ogni giorno che passa, l'insorgere di antichi e temporaneamente sopiti istinti e desideri, che si trasformano nella volontà di stimolare anche negli altri gli stessi impulsi, fino all'esasperazione, fino a istigare la violenza sessuale, che avviene e lascia gli strascichi inevitabili di una lunga malattia non più e non solo del corpo, ma dell'anima. Per certi aspetti provvida, giungerà la morte, atroce, studiata nei particolari più morbosi, negli aspetti più tragici.

Anche il secondo racconto, che sembra far da "doppio" - almeno per il titolo - al primo, La vergine Anna, descrive una lunga serie di malattie, convalescenze, guarigioni, ansie di vita e timori di morte, superstiziose malìe e religiose preghiere; tutto questo dentro ai «sommovimenti» di un'anima semplice e schietta come quella di Anna. Certamente ispirata ad alcuni modelli francesi (primo fra tutti il Flaubert dei Trois contes, ma anche Maupassant), la novella non riesce però ad acquistare autonomia di valore e spessore narrativo. Il personaggio di Anna rimane sempre al centro di una popolare e mediocre vicenda "abruzzese" destinata a finire, anch'essa, in un'atroce scena di morte: «Anna agonizzava. [...] Alcune bolle di saliva le apparvero su le labbra; un'ondulazione brusca le corse e ricorse, visibile, le estremità del corpo; su gli occhi le palpebre le caddero, rossastre come per sangue stravasato; il capo le si ritrasse nelle spalle. E la vergine Anna così alfine spirò».

Il modello narrativo dei francesi sembra ispirare un po' tutte le novelle. Così è per L'eroe, il brevissimo racconto giocato tutto sull'effetto tragico della perdita della mano dell'Ummàlido (così come, nella novella En mer di Maupassant, il marinaio Javel perde il braccio rimasto intrappolato durante il lancio della rete da pesca): «Seduto, contemplava la sua ferita, tranquillamente, La mano pendeva, con le ossa stritolate, oramai perduta». Anche nella più complessa novella La morte del duca di Ofena l'attenzione del narratore rimane centrata sulle vicende del protagonista. Il personaggio-eroe, anche solo a partire dai dati fisici, spicca su una coralità che dovrebbe costituire l'elemento narrativo determinante: «Egli era un poco pallido e concitato, sebbene cercasse di dominarsi. Alto di statura e robusto, aveva la barba ancor tutta nera su le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e voraci; il naso grande, palpitante, sparso di rossore». E anche questa novella sì conclude con un quadro di morte; questa volta, si tratta di una morte più solitaria, coraggiosamente affrontata dal duca ritto orgogliosamente sulle proprie gambe: «Don Luigi udì, attraverso le fiamme, l'ultime ingiurie. Raccolse tutta l'anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi voltò le spalle; e disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco».

Nonostante la ricerca di un più alto grado di scorrevolezza narrativa, i personaggi restano confinati in una sorta di bozzettismo regionale: siano essi gli ottusi e abbrutiti contadini o pastori dell'Abruzzo rurale, siano gli aristocratici o borghesi irrimediabilmente segnati da un destino di corruzione e degrado, in ogni caso rimangono bloccati in una sorta di tensione verso il riscatto, destinata a rimanere tale, a non tradursi mai in azione.

Le novelle di D'Annunzio, già dal loro primo apparire, hanno fatto parlare di un apprendistato letterario di matrice veristica e naturalistica, verghiana e capuaniana da una parte, zoliana e maupassantiana dall'altra. Solo in tempi recenti, la critica ha indagato la novellistica dannunziana nel suo rapporto conflittuale con il positivismo: «Le novelle costituiscono, in conclusione, un'esperienza, per D'Annunzio, decisiva quanto all'apprendimento delle tecniche narrative del verismo e del naturalismo, ma già inserendo in esse l'oltranza della violenza, della crudeltà, dello scatenamento degli istinti animaleschi, dell'unione di sesso e morte e, nei momenti più significativi, anche il senso della condizione tragica dell'eroe» (Giorgio Bárberi Squarotti).

Le novelle raccolte in questo libro furono spesso tradotte alla spicciolata in diverse riviste letterarie, specialmente francesi; dalle estemporanee traduzioni francesi e inglesi, si disingue «l'unica traduzione autorizzata» da D'Annunzio in lingua tedesca Die Novellen der Pescara. Dalla Morte del duca d'Ofena, inoltre, fu tratto, nel 1916, l'omonimo film per la regia di Emilio Graziani-Walter, con Laura Darville e Piero Schiavazzi.

 

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