Ricavato dalla fusione di alcune raccolte precedenti, è l'ultimo episodio della
carriera di D'Annunzio come novelliere. Al 1882, infatti, risale la prima
raccolta di novelle (Terra vergine, Roma, Sommaruga), subito seguita da Il libro
delle vergini (ivi 1884) e da San Pantaleone, a cui vanno aggiunte le due
raccolte minori Gli idolatri e I violenti; le ultime quattro raccolte,
rimaneggiate con qualche modifica e qualche espunzione di testi considerati
troppo compromessi con il verismo di matrice verghiana, furono fuse per produrre
la nuova raccolta di novelle del 1902. Dal Libro delle vergini fu scelta la
novella Le vergini (mutandone il titolo in La vergine Orsola); due bozzetti
provengono dal volumetto I violenti; le restanti quindici novelle - alcune delle
quali passate attraverso Gli idolatri ripropongono testi del San Pantaleone. La
raccolta venne successivamente ristampata nel 1909 con l'aggiunta di alcune
illustrazioni di Ferraguti e Amato, andando infine a costituire il volume XI
dell'Edizione Nazionale.
Libro programmaticamente composito, le diciotto Novelle della Pescara ritrovano
unità e coerenza in ordine ai temi, disparati, ma legati dal filo rosso della
malattia e della violenza, della sensualità (che, non di rado, diventa
sessualità) morbosa, della follia e della morte, di cui sono protagonisti
personaggi unici, "eroi" che spiccano su uno sfondo corale e popolare. La
vergine Orsola, per esempio, che dà il titolo alla prima novella, non è altro
che un'esasperata analisi della "fisiologia" dell'anima della malata. Orsola
dell'Arca, dopo una lunga malattia, si avvia a una lentissima guarigione. La
convalescente scopre in sé, ogni giorno che passa, l'insorgere di antichi e
temporaneamente sopiti istinti e desideri, che si trasformano nella volontà di
stimolare anche negli altri gli stessi impulsi, fino all'esasperazione, fino a
istigare la violenza sessuale, che avviene e lascia gli strascichi inevitabili
di una lunga malattia non più e non solo del corpo, ma dell'anima. Per certi
aspetti provvida, giungerà la morte, atroce, studiata nei particolari più
morbosi, negli aspetti più tragici.
Anche il secondo racconto, che sembra far da "doppio" - almeno per il titolo -
al primo, La vergine Anna, descrive una lunga serie di malattie, convalescenze,
guarigioni, ansie di vita e timori di morte, superstiziose malìe e religiose
preghiere; tutto questo dentro ai «sommovimenti» di un'anima semplice e schietta
come quella di Anna. Certamente ispirata ad alcuni modelli francesi (primo fra
tutti il Flaubert dei Trois contes, ma anche Maupassant), la novella non riesce
però ad acquistare autonomia di valore e spessore narrativo. Il personaggio di
Anna rimane sempre al centro di una popolare e mediocre vicenda "abruzzese"
destinata a finire, anch'essa, in un'atroce scena di morte: «Anna agonizzava.
[...] Alcune bolle di saliva le apparvero su le labbra; un'ondulazione brusca le
corse e ricorse, visibile, le estremità del corpo; su gli occhi le palpebre le
caddero, rossastre come per sangue stravasato; il capo le si ritrasse nelle
spalle. E la vergine Anna così alfine spirò».
Il modello narrativo dei francesi sembra ispirare un po' tutte le novelle. Così
è per L'eroe, il brevissimo racconto giocato tutto sull'effetto tragico della
perdita della mano dell'Ummàlido (così come, nella novella En mer di Maupassant,
il marinaio Javel perde il braccio rimasto intrappolato durante il lancio della
rete da pesca): «Seduto, contemplava la sua ferita, tranquillamente, La mano
pendeva, con le ossa stritolate, oramai perduta». Anche nella più complessa
novella La morte del duca di Ofena l'attenzione del narratore rimane centrata
sulle vicende del protagonista. Il personaggio-eroe, anche solo a partire dai
dati fisici, spicca su una coralità che dovrebbe costituire l'elemento narrativo
determinante: «Egli era un poco pallido e concitato, sebbene cercasse di
dominarsi. Alto di statura e robusto, aveva la barba ancor tutta nera su le
mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente;
gli occhi torbidi e voraci; il naso grande, palpitante, sparso di rossore». E
anche questa novella sì conclude con un quadro di morte; questa volta, si tratta
di una morte più solitaria, coraggiosamente affrontata dal duca ritto
orgogliosamente sulle proprie gambe: «Don Luigi udì, attraverso le fiamme,
l'ultime ingiurie. Raccolse tutta l'anima in un atto di scherno indescrivibile.
Quindi voltò le spalle; e disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco».
Nonostante la ricerca di un più alto grado di scorrevolezza narrativa, i
personaggi restano confinati in una sorta di bozzettismo regionale: siano essi
gli ottusi e abbrutiti contadini o pastori dell'Abruzzo rurale, siano gli
aristocratici o borghesi irrimediabilmente segnati da un destino di corruzione e
degrado, in ogni caso rimangono bloccati in una sorta di tensione verso il
riscatto, destinata a rimanere tale, a non tradursi mai in azione.
Le novelle di D'Annunzio, già dal loro primo apparire, hanno fatto parlare di un
apprendistato letterario di matrice veristica e naturalistica, verghiana e
capuaniana da una parte, zoliana e maupassantiana dall'altra. Solo in tempi
recenti, la critica ha indagato la novellistica dannunziana nel suo rapporto
conflittuale con il positivismo: «Le novelle costituiscono, in conclusione,
un'esperienza, per D'Annunzio, decisiva quanto all'apprendimento delle tecniche
narrative del verismo e del naturalismo, ma già inserendo in esse l'oltranza
della violenza, della crudeltà, dello scatenamento degli istinti animaleschi,
dell'unione di sesso e morte e, nei momenti più significativi, anche il senso
della condizione tragica dell'eroe» (Giorgio Bárberi Squarotti).
Le novelle raccolte in questo libro furono spesso tradotte alla spicciolata in
diverse riviste letterarie, specialmente francesi; dalle estemporanee traduzioni
francesi e inglesi, si disingue «l'unica traduzione autorizzata» da D'Annunzio
in lingua tedesca Die Novellen der Pescara. Dalla Morte del duca d'Ofena,
inoltre, fu tratto, nel 1916, l'omonimo film per la regia di Emilio
Graziani-Walter, con Laura Darville e Piero Schiavazzi.
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