La stesura della Fiaccola sotto il moggio, caso raro, se non unico, nella
produzione di D'Annunzio, fu rapidissima: dal 4 febbraio al 4 marzo 1905, mentre
già il 27 di quel mese la tragedia era sul palcoscenico del Teatro Manzoni di
Milano; fra gli interpreti Teresa Franchini (Gigliola) e Gabriellino d'Annunzio
(Simonetto), figlio dell'autore, sotto lo pseudonimo di Gabriele Steno.
La casa produttrice Ambrosio di Torino ne ricavò due film muti: uno, sceneggiato
da Arrigo Frusta, nel 1911; l'altro, con la regia di Eleuterio Rodolfi, del
1916.
Come La figlia di Iorio, anche La fiaccola sotto il moggio è di ambientazione
abruzzese ed è scritta in versi. A differenza della precedente tragedia, però,
la Fiaccola non è "fuori dalla storia": essa si svolge in un luogo preciso (nel
territorio di Anversa d'Abruzzo, «presso le gole del Sagittario») e in un
preciso momento storico, al tempo di Ferdinando I, Re di Borbone, «la vigilia
della Pentecoste». Dentro questa cornice di spazio e di tempo, si apre il primo
atto: nell'antica e decaduta casa dei de Sangro, ricorre il primo anniversario
della morte della contessa Loretella. Gigliola, la figlia, confessa alla nonna
Aldegrina e alle due nutrici il proprio dolore per l'assenza della madre, ma
anche l'incontenibile odio che ella nutre per la matrigna Angizia, ex serva che
il padre di Gigliola, Tibaldo, ha sposato in seconde nozze a seguito della
vedovanza. Il terribile sospetto è che Tibaldo possa avere ucciso la moglie
proprio per poter sposare Angizia. Tutta la famiglia dei de Sangro sembra
portare i segni della medesima decadenza e corrosione cui è soggetta la casa
paterna, a cominciare proprio da Tíbaldo, incapace di sottrarsi all'influenza
della nuova moglie. Il fratellastro, Bertrando Acclozamòra, è legato a Tibaldo
da un rapporto di reciproco odio alimentato dalla leggendaria avarizia che li
accomuna; l'ultimogenito diciassettenne di Tibaldo, Simonetto, fratello di
Gigliola, è una creatura fragile e abulica. Gigliola, in un duro confronto con
il padre, esprime i suoi sospetti in merito alla morte della madre («No, padre,
no, non mi fuggire. Tieni / ferma l'anima tua nella pupilla / come ho ferma la
mia. / Chi la fece morire? / La verità! La verità!») e lo spinge a liberarsi
della sua ex serva («Scacciala. Il laccio è teso anche per te. / Cieco tu sei.
Io vedo»), ma Tìbaldo nega qualsiasi coinvolgimento nella morte della prima
moglie e, succubo di Angizia, ne difende la presenza. Quest'ultíma, invece,
confessa con orgoglio la sua colpa e accenna a una presunta complicità del
marito («E che farai? / Che mi potrai fare? / sono coperta dal tuo padre. Due /
siamo, due fummo»), il quale recisamente nega («Non la credere! / Ha mentito, ha
mentito, per vendetta. / È frenetica, l'odio. Te lo giuro, / figlia.»). A questo
punto compare in scena il «Serparo», Edia Furia, padre di Angizia, che però da
costei è rinnegato.
Nel secondo atto Gigliola vigila sul fratello Simonetto, nel timore che la
matrigna voglia avvelenarlo. Ella è mossa da un irrefrenabile desiderio di
vendetta nei confronti di Angizia, la quale, di fronte ad Aldegrina, dichiara
l'inettitudine del marito e ribadisce la complicità di lui nell'omicidio della
contessa Loretella. Gigliola, così, non può che confermarsi nell'irremovibile
proposito di morte: dovrà uccidere Angizia, per vendicare la madre, ma dovrà
anche uccidere se stessa per non sopravvivere all'onta e all'orrore della
complicità paterna nell'omicidio.
Il terzo atto porta allo scontro aperto tra Angizia e Gigliola. Quest'ultima,
che era uscita al tramonto per incontrare il padre di Angizia e sottrargli delle
serpi velenose, si prepara al tragico gesto della vendetta, non prima di aver
messo al corrente dell'omicidio della madre e della colpevolezza di Angizia
anche il fratellino Simonetto, il quale rimane sconvolto dalla notizia. Intanto,
Angizia e Bertrando (sospettati, da Tibaldo, di essere amanti) intimano al
Serparo di allontanarsi. E il Serparo - esperto nell'antica e tradizionale arte
marsica dell'allevamento delle serpi, a metà fra medicina e magia -, scaglia
contro la figlia una maledizione che l'atterrisce.
Il quarto atto porta la vicenda al culmine della tragicità e al conseguente
scioglimento finale. Gigliola prega la nutrice Benedetta di accendere le
fiaccole della cappella, a significare un imminente sacrificio: infatti ella
immerge le mani nella sacca delle serpi e se ne fa mordere (atto sacrificale che
serve per farsi perdonare l'omicidio vendicativo che vuole commettere). Poi
corre verso la stanza di Angizia per ucciderla, ma la trova già morta, soppressa
dallo stesso Tibaldo che ha compiuto il gesto per evitare che lo facesse la
figlia («Perché la mano tua / non si contaminasse, / figlia, l'ho fatto») e per
lavare con il sangue tutta la sua colpevolezza («In questo / sacrifizio ho
lavata / la mia vergogna»). Fino all'ultimo Gigliola aveva sperato che fosse
stato il fratello, Simonetto, a vendicare la morte della loro madre; egli, puro
come lei, avrebbe potuto lavare la colpa, mentre il padre potrebbe aver ucciso
Angizia solo per impedirle di confessare la loro complicità. La missione
vendicatrice di Gigliola viene così vanificata e, soprattutto, ella muore prima
di conoscere l'identità del vero colpevole. La fiaccola votiva, allora, dovrà
essere lasciata spenta sotto il moggio di fronte al fallimento del sacrificio.
Nella Fiaccola sotto il moggio D'Annunzio sembra aver voluto affrontare, ancora
una volta, il lato oscuro della tragedia dei moderni contro la linearità della
tragedia antica. Non più, dunque, il trionfo della morte come vittoria del bene
sul male: «Ne La fiaccola sotto il moggio la fiamma è oscurata, abbrunata,
accecata: l'eroina intrepida, che é Gigliola [...] non riesce a salire
all'apoteosi della fiamma e della luce, vinta nel momento estremo» (Giorgio
Bàrberi Squarotti). Si tratta, piuttosto, del trionfo del male che si annida
all'interno degli stessi rapporti familiari, malati e corrotti, e alla cui base
sta, violento e primitivo, l'impulso del sesso: «ancora una volta, il sesso si
configura come maledizione, distruzione e morte; ancora una volta è esso il Fato
dei moderni» (Riccardo Scrìvano).
Un esperimento "espressionista" coinvolse la Fiaccola nel 1940, al Teatro
Argentina di Roma, dì cui fu recensore Ennio Flaiano; ma la prima
rappresentazione postuma di un certo valore fu quella allestita nel 1958 da
Giorgio De Lullo con la Compagnìa dei Giovani, a Roma e a Milano. Del 1983 é una
rappresentazione allestita dal Teatro Stabile dell'Aquila, a cura di Giancarlo
Cobelli, con la partecipazione di Alida Valli (Donna Aldegrina) e Antonio
Pierfederici (il Serparo). Ancora nel 1987, la Fiaccola fu messa in scena con
successo al Teatro Popolare di Roma.
|