La prima rappresentazione (3 marzo 1904), ebbe come interpreti principali
Ruggero Ruggeri e Irma Grammatica; nello stesso anno il testo fu pubblicato da
Treves, con le incisioni di Adolfo De Carolis. La tragedia venne poi messa in
scena anche in vernacolo abruzzese il 24 agosto 1923, nella traduzione fatta da
Cesare De Tìtta; una traduzione in siciliano si deve a Gíuseppe Antonio Borgese
(1904), e una parodia in napoletano ne fece Edoardo Scarpetta (1904), mentre una
versione musicata fu composta nel 1906 da Alberto Franchetti (con riduzione del
testo a libretto d'opera dello stesso D'Annunzio).
La vicenda è ambientata in un Abruzzo rurale e patriarcale, ma senza ulteriori
connotazioni di spazio o di tempo.
Nella casa di Lazaro di Roio e della moglie Candia della Leonessa si attende
alla preparazione della festa di nozze del figlio Aligi, pastore, con la giovane
Vienda di Giave. Le tre sorelle di Aligi, Splendore, Favetta e Ornella, lavorano
agli arredi e alle vesti per il matrimonio, mentre la madre benedice gli sposi,
riceve e accoglie i parenti che giungono con i doni nuziali. Questo quadro di
serenità agreste, anche se venato da piccoli infausti indizi (come il pane
spezzato che cade in terra, segno di imminenti disgrazie nella tradizione
popolare abruzzese), è inaspettatamente turbato dall'ingresso di una giovane
sconosciuta che cerca scampo e riparo da un gruppo di pastori ubriachi che
intendono abusare di lei. La giovane donna è Mila di Codra, figlia del mago
Iorio, «putta di fienile e di stabbio» e anch'essa sospetta di stregoneria. I
mietitori ubriachi reclamano a gran voce la giovane donna, mentre Aligi,
dapprima pronto a scacciare Mila, la trattiene presso dì sé credendo di aver
visto piangere l'angelo scolpito nel camino, e accende un cero sulla soglia
della porta a segnare l'impossibilità di violare quella casa. A questo punto
appare Lazaro, il padre di Aligi, reduce insanguinato dalla rissa per il
possesso di Mila. E, mentre quest'ultima fugge inosservata, Aligi va a
rifugiarsi in montagna.
In seguito Aligi, pur avendo già celebrato il matrimonio - senza consumarlo -
con Vienda, accoglie Mila nella grotta sulla montagna e divide con lei il
primitivo alloggio in una comunione puramente spirituale. Ma Aligi, ormai
innamorato di lei, manifesta la volontà di recarsi a Roma per chiedere al papa
lo scioglimento del vincolo matrimoniale. Mentre Aligi si allontana, la lampada,
accesa nella grotta di fronte a una Madonna scolpita nel legno dallo stesso
Aligi, sembra spegnersi per mancanza d'olio. Poiché ciò sarebbe infausto e
profanatorio, Mila corre disperata fuori dalla grotta per chiedere dell'olio a
una passante, che subito si rivela Ornella, sorella di Aligi. Quest'ultima,
chiede a Mila di lasciare il fratello e di andare via. Uscita Ornella e
rientrato Aligi, sopraggiunge il padre, Lazaro di Roio, il quale fa legare e
portare via da alcuni uomini il figlio per tentare di violentare Mila. Aligi,
slegato dalla stessa Ornella, interviene a difendere Mila uccidendo il padre con
un colpo d'ascia. Per questo, secondo le regole della comunità pastorale, è
condannato alla morte atroce che spetta ai parricidi: dapprima gli verrà
staccata la mano "colpevole", poi verrà messo in un sacco con un mastino e,
infine, gettato nel fiume. Prima, però, l'omicida dovrà essere condotto a casa
per ricevere il perdono della madre. A questo punto interviene Mila che,
dichiarando di avere ammaliato con una stregoneria il povero Aligi, lo discolpa
e lo libera dall'atroce punizione. Così, toccherà a Mila essere condotta al rogo
per stregoneria; e mentre Ornella, che sa dell'innocenza di Mila, le grida
«Mila, Mila, sorella in Gesù, io ti bacio i tuoi piedi che vanno! Il Paradiso è
per te», la figlia di Iorio si immola per Aligi, andando incontro alle fiamme
con la speranza di una finale purificazione («La fiamma è bella», urlerà, «la
fiamma è bella!» ).
Tragedia di immediato e indiscusso successo, La figlia di Iorio è stata per
lunghissimo tempo considerata l'unica opera teatrale di D'Annunzio veramente
riuscita; ciò fu dovuto all'apparente semplicità e popolarità della storia che
implica, a tratti, una rappresentazione quasi verista". Recentemente è stato
scritto che «il risvolto "verista" della Figlia di lorio è una sofisticata
macchina letteraria, un modo più obliquo, ma certo non meno significativo, di
accostare le plaghe del mito [...]. Nei paesaggi-stati d'animo, negli
oggetti-emblemi, nei personaggi che solidarizzano o si contrappongono come
frammentì di un'unica individualità scissa in se stessa ed affiorante sulla
scena in una pletora di sembianti diversi, circola quel che gli espressionisti
definiranno Ich-Drama: un'opzione drammaturgica a fondamento allegorico in cui
l'eredítà romantica, da Hoffman a Wagner, prende quota su un impianto dì sapore
medievale» (Umberto Artioli). Ed è proprio questo fondamento allegorico che
congiunge, con il filo dell'eterna immutabílità delle umane passioni e
debolezze, la tragedia morale degli antichi a quella psicologica dei moderni.
Particolare rilievo ha la traduzione francese di Georges Hérelle (La fille de
Jorio), corredata da un Commentaire dettato dall'autore, in cui vengono citate
molte fonti folcloriche e sono offerti ragguagli metrici e stilistici. Vivente
il poeta furono fatte due riduzioni cinematografiche con la regia di Edoardo
Bencivenga, una nel 1911 e l'altra nel 1916: quest'ultima con Irene Saffo (Mila
di Codro), Mario Bonnard (Alígi), Giovanna Scotto (Vienda).
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