Scritto in pochi mesi di romitaggio nel convento di proprietà di un suo amico e
sodale, il pittore Francesco Paolo Michetti (presso Francavilla al Mare in
provincia di Chieti), il romanzo si compone di materiale narrativo e descrittivo
già preparato in precedenza. Cominciato nell'aprile del 1891, fu quasi tutto
completato il 14 luglio, quando D'Annunzio iniziò le trattative epistolari per
la pubblicazione con l'editore Emilio Treves. Questi, però, giudicando poco
originale e soprattutto scabroso il tema trattato, ne rifiutò la stampa
lasciando libero l'autore di trovare un altro editore. Il romanzo, infatti, uscì
nell'aprile del 1892 per l'editore Bideri di Napoli, dopo essere stato già
pubblicato a puntate sul «Corriere di Napoli». Soltanto quattro anni dopo,
Emilio Treves pubblicò L'Innocente, quando il romanzo comparve come secondo
titolo (il primo era stato Il Piacere) della trilogia «I romanzi della rosa».
Nel 1929 costituirà il XIII volume dell'Edizione Nazionale.
Il romanzo si apre con un ampio antefatto, cui seguono cinquantuno capitoli. In
realtà, come avverte la breve epigrafe («Eppure bisogna che io mi accusi, che io
mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno. A chi?»), esso è
la lunga confessione di un infanticidio commesso consapevolmente, lucidamente e
con la convinzione di essere incolpevole. Tullio Hermil, il protagonista, è un
uomo che vive abbandonandosi alle proprie passioni, consumando i suoi amori per
varie donne pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto coniugale con la
legittima moglie, verso la quale non ha mai smesso di nutrire stima e affetto.
In realtà egli si sente quasi autorizzato a una vita di tradimenti perpetrati in
virtù della propria eccezionale personalità: «Io ero convinto», confessa lo
stesso Tullio, «di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e
credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse,
distinguesse ogni mio atto. Orgoglioso e curioso di questa mia rarità, io non
sapevo concepire un sacrificio». Così, durante la convalescenza della moglie
Giuliana a seguito di un delicato intervento chirurgico, Tullio, pur
rinnovandole le promesse di fedeltà, si abbandona tra le braccia dell'ex amante,
Teresa Raffo. Giuliana si accorge della rinnovata relazione tra il marito e
l'amante, ma preferisce tacere e soffrire in silenzio sia per amore della
tranquillità familiare, sia perché riconosce l'eccezionalità dell'uomo. È
proprio a questo punto della storia che, invece, Hermil comincia a nutrire
sospetti nei confronti della moglie: «Guardai un libro che aveva una coperta di
stoffa antica. Lessi sul frontespizio una dedica, di pugno dell'autore: - A voi
Giuliana Hermil, TURRIS EBVRNEA, indegnamente offro». La dedica, alquanto
equivoca, dell'autore del libro fa nascere in Tullio il seme del dubbio sulla
fedeltà della moglie: «se Giuliana gli si abbandonasse, avendogli appunto
riconosciuta qualcuna di quelle attrazioni medesime per cui io mi feci un tempo
da lei adorare?».
Contemporaneamente all'insorgere di questi sospetti, si interrompe la relazione
fra Tullio e Teresa Raffo, e si interrompe anche il lungo antefatto che
introduce alla storia narrata nei successivi capitoli. In verità, come già era
avvenuto nel Piacere, la trama non va intesa nel senso tradizionale del termine:
è, infatti, una storia organizzata su pochi eventi importanti, ma strettamente
legati attraverso indugi sulla psiche del protagonista, sulle connessioni della
memoria, su una sorta di studio dell'animo umano e delle sue passioni. Durante
un periodo di riposo nella campagna di Villalilla, luogo che fu teatro della
loro antica felicità, i coniugi ritrovano i momenti del trascorso amore,
confessandosi a vicenda che nulla dei loro sentimenti è andato perduto per
sempre. La vacanza, così, si riempie di silenziosi e commoventi ricordi, di
ansiose aspettative, di delicate rispondenze tra gli stati d'animo e il
paesaggio circostante, di sottili e acute riflessioni sul presente, sul passato
e sul futuro, di ferme promesse di rinnovato amore, ma anche di un languido
malessere fisico di Giuliana che Tullio tenta di alleviare: «Oh, vedrai, anima:
sarò più dolce di allora. Vedrai di che tenerezze sarò capace, per guarirti. Tu
hai bisogno di tante tenerezze, povera anima». A turbare l'idillio, interviene
la madre di Tullio informandolo sulla gravidanza di Giuliana: «Non ti sei
accorto che Giuliana è incinta? Percosso come da un colpo di maglio nel mezzo
del petto, da prima non afferrai la verità». A Tullio basterà molto poco per
capire che quella gravidanza è un frutto adulterino, sia pure di un adulterio
commesso con tutte le attenuanti create da lui stesso. Ciononostante, egli è
costretto a una mal simulata gioia mentre i parenti fanno progetti rosei per il
nascituro; Giuliana, invece, è combattuta da un'ansia di colpevolezza, tanto che
desidererebbe togliersi la vita, Tullio tenta di perdonarla, ma decide
ugualmente di recarsi a Roma per stordirsi nell'oblio della vita mondana e
dissoluta di un tempo. Giunto a Roma, però, viene a conoscenza del male
incurabile che ha colpito Filippo Arborio, lo scrittore amante di Giuliana e
padre della creatura che ella porta in grembo; così, egli torna dalla moglie e
insieme, uniti da un senso di bontà vicendevole e dall'odio verso il frutto
dell'adulterio, cominciano ossessivamente a meditare l'uccisione del nascituro.
Quando il bambino nasce, alla generale gioia dei parenti più prossimi si oppone
l'angoscia di Giuliana per quella «innocente» testimonianza di un adulterio
commesso e non più riparabile, ma soprattutto vi si oppone la volontà di Tullio
di cancellare la traccia dell'infamia; al superuomo «multanime» non resta altra
scelta che trasformarsi in un infanticida. Durante la novena di Natale, Tullio
espone fuori della finestra l'inerme corpicino del neonato al gelo notturno,
provocandogli una polmonite che presto lo condurrà alla morte. Il romanzo si
chiude con la scena delle esequie del piccolo.
Al tempo della prima edizione, e fino a tutta la prima metà del Novecento,
L'Innocente è sempre stato accusato di una debolezza strutturale che,
nell'opinione di molti critici, ne avrebbe inficiato la validità. Oggi si
riconosce senza dubbio al romanzo un passo avanti rispetto al Piacere: la scelta
della voce narrante in prima persona, infatti, garantì all'autore di poter più
facilmente spezzare la storia narrata in un labirintico gioco di introspezioni e
di richiami analogici ancora più evidenti e funzionali che nell'altro romanzo.
In più, il gioco della disgregazione o incoerenza emotiva del personaggio
principale sembra avvicinare di colpo D'Annunzio non solo alle poetiche
simbolistiche, alle più recenti mode dello psicologismo francese e
dell'evangelismo russo, ma anche a un antico progetto di una «prosa fluida e
musicale» che sappia imitare ogni sfuggente stato d'animo come in un petit poème
en prose: poiché «Tullio Hermil sentiva la vita come "discontinuità" e
"parallelismo", il suo racconto attivava una "arte alchimistica" della memoria
con frammenti di sensazioni, lembi di immagini, lampi di analogie, schegge di
citazioni interne, in una scrittura fluida e precisa di intermittenti modi
musicali» (Ezio Raimondi).
L'Innocente fu il primo romanzo che assicurò a D'Annunzio una vera e propria eco
di rilievo nell'intera Europa. Già prima dell'uscita in Italia, Georges Hérelle
(traduttore del Piacere e, successivamente, di molte altre opere dannunziane in
Francia) prendeva accordi per una immediata traduzione che avvenne pochi anni
dopo.
La riduzione cinematografica muta del romanzo, supervisionata dallo stesso
D'Annunzio, fu realizzata nell'aprile 1912, per la regia di Eduardo Bencivenga,
con Febo Mari (Tullio) e Fernanda Negri Pouget (Giuliana). Un'altra versione
filmica è stata realizzata in Russia nel 1916 per la regia Petr Cardynin. E del
1976 la prima grande produzione cinematografica italiana per la regia di Luchino
Visconti, con Giancarlo Giannini (Tullio) e Laura Antonelli (Giuliana).
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