Le prose memoriali di Notturno nascerebbero, secondo una leggenda voluta e
alimentata dallo stesso D'Annunzio, in margine a un incidente aereo avvenuto
durante la prima guerra mondiale, nel febbraio del 1916, che lo costrinse
all'immobilità e alla parziale cecità. Ma a un «Notturno» non meglio definito lo
scrittore pensò già nel settembre del 1915, e al dicembre di quell'anno
risalgono le tracce della prima elaborazione del libro. Bozze di stampa furono
approntate nel 1916, ma D'Annunzio non ne autorizzò la stampa definitiva.
Destinato poi a una pubblicazione nel 1917, il Notturno non vedrà la luce (se
non per prove, pagine sparse, frontespizi) prima della sua definitiva
sistemazione strutturale, databile ai primi giorni del novembre 1921.
La materia "narrativa" del volume è strutturalmente disposta in tre grandi
sezioni o capitoli, chiamati dall'autore «Offerte», a cui si aggiunge una
«Annotazione» finale utile a chiarire le modalità già "leggendarie" della storia
compositiva del libro. La «Prima Offerta» è tutta lavorata intorno alle
sensazioni, alle emozioni e ai ricordi che si presentano all'autore che giace
convalescente e privato dell'occhio destro. Dunque, la "storia" rappresentata in
questa prima parte del libro sembra essere interamente dedicata alla scrittura
come strumento sensoriale che va a sostituire la vista: salvo scoprire che
quello strumento diviene una vista esso stesso, una vista profonda che permette
di "vedere" al di là dell'oscurità fisica e coinvolge la realtà effettuale, la
realtà psichica, la realtà della storia e della memoria. Anzi, quello scrivere
nella materiale e fisica oscurità diviene presto una necessità vitale, nel senso
più proprio di esigenza di una vita destinata a rimanere in potenza se non la
soccorresse l'atto dello scrivere: «quando il silenzio fu fatto in me e intorno
a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla
prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi
subito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e
d'ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti». In tal
modo, il tema della cecità consente a D'Annunzio, novello Tiresia, di sviluppare
il tema della visione interiore, che è essenzialmente visione del proprio
passato, ovvero visione-memoria: «Chi ha rappresentato i ciechi come veggenti
volti verso il futuro? come rivelatori dell'avvenire?». Ed è solo in questo modo
che, sempre nella «Prima Offerta», il presente apre al passato (ancora una
volta, nel "romanzo" dannunziano è il gioco presente/passato, realtà/memoria
involontaria a far scattare, e questa volta in modo evidentissimo, il meccanismo
"narrativo"). Il diario dei giorni della morte del suo compagno di voli Giuseppe
Miraglia (20-26 dicembre), che è la parte più narrativa dell'intera sezione, si
trasforma in una libera attività memorativa che scavalca la realtà, la stessa
morte, per divenire quello che più autenticamente è: scrittura di sé.
La «Seconda Offerta», che continua il tema della morte, racconta dei compagni
d'arme caduti in volo, delle operazioni di guerra condotte per mare, delle
avventure belliche sul Carso. Ma tutto questo è visto con gli occhi del cieco
«veggente», con lo sguardo acuto e spietato della memoria. Si può dire che il
tema dominante della «Seconda Offerta» sia proprio quello dell'occhio.
D'Annunzio, di nuovo, «vede» la morte di un altro «compagno d'arme», Alfredo
Barbieri. E, naturalmente, è ancora l'occhio interiore il solo a essere in grado
di aggregare passato, presente e futuro, vita e morte, realtà e sogno: «Rivivo
la mia morte; ripatisco la prova della mia morte. La realtà squarcia il mio
sogno; il mio sogno taglia la realtà. Dietro la canna dell'arme avversaria, che
mi manda la prima raffica, distinguo il bianco atroce dell'occhio». Nel mezzo di
questa «Seconda Offerta» (e, dunque, con maggiore evidenza, nel mezzo
dell'intero libro), a fare da ulteriore spartiacque, sta la rievocazione della
musica di Aleksander Skrijabin.
Anche nella «Terza Offerta» l'occhio interiore dell'«orbo veggente», che è ormai
D'Annunzio, ritrova, rivede e rivive il mito della guerra, i luoghi che di
quella guerra sono stati il palcoscenico, i suoni e le immagini di una storia
che lo ha accomunato all'esperienza di altri uomini. Ancora una volta, nel
celebrare la morte di un compagno di guerra, D'Annunzio "vede" il cadavere:
nella bara, Luigi Bresciani «come Giuseppe Miraglia, come me, ha l'occhio destro
ferito». Ora i fatti assumono la valenza e la pregnanza della visione, del sogno
notturno, dell'immaginazione ossessiva. E la scrittura, inseguendo come sempre
le associazioni involontarie di realtà e memoria, di vita e di sogno, diviene
anch'essa ossessiva, piena di ripetizioni, di ritorni e richiami; anche i giri
della frase diventano isometrici, identici nel loro assommarsi e addossarsi gli
uni agli altri, secondando uno schema di paratassi che è la cifra stilistica
dominante non solo nel Notturno ma in tutte le pagine "notturne" di D'Annunzio.
Ogni ossessione, ogni immaginazione, ogni visione dovrebbe cessare con la
guarigione simbolicamente attesa con la Pasqua. Ma, con il ritorno della vista
fisica, si spegnerebbe la vista interiore, e le luminose visioni dell'«orbo
veggente» verrebbero riassorbite dalla realtà ormai obbligatoriamente visibile.
É per questo che, alla fine, un solo occhio rimarrà leso per sempre (quasi a
preservare la possibilità di ulteriori «visioni» notturne): «Alzo l'orlo della
benda che copre l'occhio leso, apro la palpebra. // L'ombra ostinata è là, senza
mutamento. Il buon presagio è vano».
L'«Annotazione», che chiude il libro, funge un poco da riepilogo e da commento
all'avventura "antelucana" di D'Annunzio e della Sirenetta (la figlia Renata,
che lo avrebbe assistito nelle operazioni di scrittura).
Il Notturno, al momento della sua comparsa editoriale, fu salutato da molti come
il segnale certo dell'avvento di una nuova stagione di scrittura - e di stile,
dunque -, da opporre alla precedente, in un'ideale biografia letteraria
dell'autore. Ma la distinzione netta e marcata tra un D'Annunzio "solare" e uno,
successivo, "notturno" non fu immediatamente abbracciata da tutti, anzi molti -
fra i più acuti critici dell'epoca - si dissociarono da una visione così
semplicistica: «se D'Annunzio sarà degno di sopravvivere, sopravviverà come
D'Annunzio, non come poeta di questo poema o romanziere di quel romanzo» (Emilio
Cecchi). Benedetto Croce, in più, credette di poter negare un rinnovamento dello
scrittore, affermando con certezza che D'Annunzio «non ha avuto quel che si dice
evoluzione o progresso, ma un mutare apparente e un persistere reale». Oggi,
usciti da rigidi schematismi di giudizio e con l'incremento delle acquisizioni
filologiche, si è giunti a equilibrare le due posizioni: il Notturno si può
ritenere sia stato più «una sorta di esemplificazione dell'autenticità [della]
poetica vociana e postvociana che una vera e propria fase diversa dell'opera
dannunziana, che segni un confine nettissimo fra il D'Annunzio alcionio e
sensuale e vitalistico e il D'Annunzio esploratore d'ombra» (Giorgio Bárberi
Squarotti).
Le traduzioni di Notturno, non sempre immediate, sono state poche ma
attentamente curate: tra le più significative va menzionata quella francese.
L'opera, negli ultimi anni, è stata anche oggetto di una riduzione teatrale per
la regia di Massimo Luconi e l'interpretazìone principale di Franco Di
Francescantonio (D'Annunzio); la prima teatrale è stata realizzata al Teatro del
Vittoriale degli Italiani nel 1988.
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