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La Nave senza nome 

 

All’inizio, avevano portato lì da lui la moglie, la figlia.

 

Non era successo niente.

Finché la moglie, quando la bambina ebbe circa tre anni, disse che non sarebbe venuta più.

Preferiva che sua figlia credesse il padre disperso, anziché lo vedesse in quel modo.

L’avrebbe cresciuta per farla divenire comandante, disse quella donna forte, bruna, con i capelli tagliati corti.

Sarebbe divenuta ciò che il padre era stato, forse più grande di lui.

Sarebbe stato quello, il suo dono d'amore per Roman.

 

Una volta, era venuto perfino il suo navigatore.

Aveva il viso duro, e nello sguardo un rimorso e un dolore incancellabile.

Non era stata colpa sua, ma quei morti dell’Esperion l’avevano segnata a vita.    

Si era portata appresso, in una sorta di fagottino, il figlio.

 

Si era fermata a guardare Roman.

Ad osservarlo, attentamente.

Gli aveva preso la mano e era sembrato che potesse scrutare nei suoi occhi chiusi.

Poi, misteriosamente, la donna aveva sorriso.

Il dolore era scomparso dai suoi occhi, lasciando in essi, finalmente, un conforto.

Aveva sussurrato a Roman una frase senza senso:

"sono contenta, che almeno tu ti sia salvato.

Che tu faccia parte del gran progetto.

Guarda, ti ho portato Jon.

So che non puoi vederlo, so che non puoi sentirlo.

Ma anche lui fa parte del progetto, io farò in modo che ne faccia parte!"

 

Non era tornata mai più.

Un mese dopo aveva avuto un incidente, con il suo compagno.

Uno di quegli incidenti stupidi che neanche navigatori possono prevedere, un asteroide che improvvisamente finisce sopra un centro abitato.

 

Così, i medici erano rimasti completamente soli.

Loro non volevano, non potevano arrendersi.

Ogni giorno, provavano.

Ogni giorno, fallivano.

E avrebbero continuato così fine alla fine dei tempi.

 

Semplicemente, Roman doveva tornare.

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