Scendendo in barca il corso del
fiume e guardando le sponde, ci si accorge come queste siano
ricoperte dalla stessa vegetazione in continua alternanza e
senza soluzione di continuità. ROBINIE (ROBINIA PSEUDOACACIA),
quelle che vengono generalmente riconosciute come “GAGGIE”,
ONTANI NERI (ALMUS GLUTINOSA), SALICI (SALIX ALBA, SALIX
CAPRAEA, SALIX FRAGILIS) e SAMBUCHI (SAMBUCUS NIGRA), sono le
piante di alto fusto più presenti nel tratto in oggetto; esse,
in perfetta simbiosi con la sabbia e le varie erbe spondali,
formano quello sbarramento naturale contro le piene che
puntualmente, in primavera o in autunno, vengono a
sollecitarne la tenuta.
Spettacolare é in primavera la
fioritura delle ROBINIE; questa pianta, che prende il nome
da JEAN ROBIN, un botanico francese che la introdusse in
Italia dall’America all’inizio del XVII° secolo, emana, dai
suoi lunghi grappoli di fiori bianchi, un intenso ed
inebriante profumo che avvolge tutto l’habitat fluviale ed
un ampio raggio dell’area circostante. Pare esercitino
un’azione medicinale calmante, ma vengono soprattutto usati
nell’arte culinaria, preparandoli in frittate e frittelle
profumatissime quando non sono ancora completamente
sbocciati.
La
robinia non é quindi una pianta autoctona ma alloctona e,
come tutte le specie vegetali o animali alloctone, tende ad
avere uno sviluppo abnorme; infatti é considerata una pianta
infestante e può creare problemi di sopravvivenza alle altre
piante spondali autoctone; per questo motivo viene tenuta
sotto controllo, ma il suo apparato radicale molto esteso
rispetto all’altezza del tronco, come del resto é comune per
tutte le altre piante spondali che ho citato, é
particolarmente prezioso per la compattezza delle sponde. La
robinia fa parte della famiglia delle
PAPILIONACEE;
quindi non deve essere confusa, come purtroppo spesso
accade, con l’ACACIA, pianta esclusivamente tropicale della
famiglia delle MIMOSACEE.
Infatti l’unica specie di questa famiglia rintracciabile in
Italia è la MIMOSA, presente soprattutto nelle zone
costiere. Pertanto è anche errato definire MIELE DI ACACIA,
come invece spesso accade, il pregiato e ricercato miele
prodotto dalle api col nettare dei fiori delle robinie. La
definizione corretta è
MIELE DI ROBINIA! A meno che
chi lo vende non provi che è stato prodotto in aree
tropicali (ad esempio l’Africa dove l’acacia prospera ed è
ambita dalle GIRAFFE, come spesso vediamo nei documentari
naturalistici), oppure che per acacia si intenda, appunto la
mimosa. Ma, ripeto, la robinia con l’acacia ha in comune
solo le spine.
A primavera inoltrata si
possono poi osservare gli altrettanto bei fiori bianchi del
SAMBUCO che in estate si trasformano negli inconfondibili
frutti rossi, simili a bacche, usati per marmellate,
distillati, purganti, tinture ed anche come esche dai
pescatori per la pesca al cavedano. I fiori invece vengono
usati per frittate e frittelle. Il legno del sambuco è molto
tenero e quindi poco usato come combustibile; però questa sua
particolarità lo rende facilmente lavorabile, soprattutto per
produrre piccoli oggetti quali pettini, cucchiai e giocattoli.
Intere generazioni di bambini hanno infatti giocato con
fischietti e cerbottane ricavati dai rami di sambuco, dai
quali il midollo si estrae molto facilmente.
Altre piante nelle quali é
sempre più frequente imbattersi nel tratto in oggetto sono il
BIANCOSPINO (CRATAEGUS OXICANTHA, CRATAEGUS MONOGYNA,
CRATAEGUS LEVIGATA) anch’esso molto gradevole a vedersi
durante la fioritura, e la SANGUINELLA (CORNUS SANGUINEA),
mentre sempre più rari sono gli esemplari di OLMO (ULMUS
CAMPESTRIS), una volta parte integrante del nostro ceduo ma
ora quasi scomparsi perché decimati dalla GRAFIOSI, o Morìa
degli Olmi, una malattia provocata dal fungo OPHIOSTOMA ULMI.
Sono però il SALICE e L’ONTANO (rispettivamente “SALES” e
“VÈRNA” nel dialetto locale) le vere e tipiche piante spondali.
Del primo, in passato, non si buttava nulla: oltre all’uso
domestico per il riscaldamento, veniva infatti usato, nei
giovani rami flessibili, per costruire cesti e panieri o per
legare le palizzate. Il secondo, dal legno solido, facile da
lavorare e resistente all’acqua, veniva invece utilizzato per
costruire battelli e palafitte o per fare dei pali, che poi,
misti a ghiaia e pietre, venivano piantati sulle sponde
insieme a giovani rami in germoglio di salice (gorin) e di
ontano stesso per renderle ancor più resistenti alle erosioni
(i famosi “reparti”); le uniche vere opere di protezione
spondale, che anche oggi si dovrebbero fare copiando proprio
dai nostri avi, molto meno attrezzati di noi sotto il profilo
tecnologico ma molto più attenti a non snaturare l’ambiente
che li circondava, vivendo quasi in simbiosi con esso. Erano,
i reparti, nient’altro che alta INGEGNERIA NATURALISTICA,
l’unica che rispetti veramente le dinamiche del fiume e le
esigenze dell’ecosistema fluviale, ingegneria naturalistica
che oggi viene riproposta come facoltà universitaria, ma che
all’atto pratico stenta a decollare perché va a sbattere
contro il muro di gomma eretto dagli speculatori, appoggiati
da gran parte degli amministratori pubblici, soprattutto
quelli locali, come vedremo nel capitolo dedicato al dissesto
idrogeologico.
Andando verso l’interno é
facile trovare la FARNIA (QUERCUS ROBUR), “L ROL” nel dialetto
locale, anche se in numero infinitamente inferiore rispetto al
passato per via dell’ormai totale distruzione dei boschi
planiziali di cui faceva parte. Altra essenza presente in buon
numero è il NOCE (JUNGLAS REGIA), la “NOSERA” nel dialetto
locale, usata dai frontisti per delimitare le loro proprietà.
Il noce è invece una pianta di coltura.
In estate le rive si ricoprono
di ROVI (RUBUS FRUTICOSUS), le “RONSE” nel dialetto locale,
che producono quei gustosi e succosi frutti selvatici che sono
le MORE, facilmente raccoglibili accostando a riva. Insieme ai
rovi crescono numerosissime le ORTICHE (URTICA DIOICA) che
possono raggiungere altezze notevoli, quasi quanto l’uomo,
rendendo pressoché impossibile il passaggio lungo le sponde se
non con il pedaggio di un buon numero di graffi e vescichette
urenti. La pianta giovane dell’ortica viene impiegata per
minestre ed insalate ed anche come rinforzante dei capelli;
inoltre ha proprietà medicinali (depurative) in tisana e
antiparassitarie, sopratutto contro i pidocchi dei fagiolini,
facendola macerare nell’acqua nella misura di un kg ogni dieci
litri; unico inconveniente il fetore che emana dopo la
macerazione.
Ma moltissime altre piante
erbacee compongono la variegata vegetazione spondale e
l’immediato entroterra del tratto in oggetto, tanto che
sarebbe arduo persino per un botanico elencarle tutte;
pertanto citerò solo quelle più conosciute o più comuni. Non
molto comune ma decisamente conosciuta é la CICUTA (CICUTA
VIROSA), famosa per aver provocato la morte del grande
filosofo greco SOCRATE. Nell’antica GRECIA veniva usata
proprio per eseguire le condanne a morte per via dell’alta
concentrazione di un alcaloide molto tossico, la CONIINA, in
essa contenuta.
La REJNUTRIA JAPONICA é invece
comparsa nel tratto in oggetto a partire dagli anni 70 e
tradisce le sue origini dal nome; importata dall’estremo
oriente, pare come pianta ornamentale, ha evidentemente
trovato nell’habitat fluviale le condizioni ideali per
espandersi, tant’é vero che ha praticamente colonizzato questo
tratto di fiume formando grandi cespugli lunghi anche più di
50 mt e con altezze superiori ai 3 mt. Il suo stelo é vuoto e
si spezza facilmente (infatti viene genericamente individuata
come “canna”) ed é quasi priva di radici; questo potrebbe
determinare un pericoloso impoverimento della compattezza
delle sponde, visto che, assieme al rovo ed all’ortica, é la
pianta erbacea predominante nel tratto in oggetto.
Un’altra pianta erbacea
alloctona che si può trovare sempre più facilmente é la
FITOLACCA (PHITOLACCA DECANDRA), detta anche UVA TURCA.
Originaria dell’America, raggiunge anche 2-3 mt di altezza ed
é riconoscibile per i fiori piccoli biancastri che poi si
trasformano in frutti di tipo bacca, blu nerastri a
maturazione, che vengono usati per colorare vini, bibite,
dolciumi ecc. La sua radice ha proprietà purgative ed ematiche
ed é molto più espansa che non quella della rejnutria japonica.
Ma quali potrebbero essere le conseguenze del proliferare di
tutte queste erbe e piante esotiche? Per il momento non é
ancora stato possibile accertarlo, ma quasi certamente non
potrà non creare uno stravolgimento nell’equilibrio
dell’ecosistema fluviale, nella speranza che si tratti “solo”
di uno stravolgimento visivo e non biologico.
Tornando alle piante erbacee
autoctone, il LUPPOLO (HUMULUS LUPULUS) rappresenta una
presenza importante nel tratto in oggetto; é un rampicante e
lo si può trovare attorcigliato attorno a qualsiasi pianta
d’alto fusto. I suoi germogli ( “LUVERTIN” nel dialetto
locale) vengono usati in cucina al burro, alla moda degli
asparagi, oppure in frittata, mentre i coni femminili sono
usati per dare aroma alla birra. Il TASSO BARBASSO ( VERBASCUM
THAPSUS), invece, lo si può facilmente riconoscere per i suoi
fiori gialli uniti in una grossa e lunga spiga compatta. Il
TARASSACO (TARAXACUM OFFICINALE) é un’altra erba molto comune;
meglio conosciuta come “SOFFIONE”, per via della soffice
“palla” piumosa che si forma dopo la fioritura e che si
disperde nel vento al minimo soffio, in gioventù viene
consumato in insalata sia cotto che crudo. Nel dialetto locale
viene riconosciuto come “GIRASSOL”, per via del suo fiore
giallo simile, in piccolo, a quello del girasole, o come
“SICÒRIA DIJ PRA” (CICORIA DEI PRATI), per il suo gusto
amarognolo simile alla cicoria. Inoltre ha molte proprietà
medicinali. Anche la BARDANA MINORE (ARCTIUM MINUS) é una
pianta erbacea tipica di questo tratto di fiume; é
riconoscibile sopratutto dopo la fioritura, perché i suoi
frutti uncinati (le GËTTE, nel dialetto locale), si attaccano
ai vestiti di coloro che la sfiorano. É il suo sistema per
riprodursi. Era il “LEGO” al naturale dei tempi andati;
infatti, incastrando i suoi frutti, si riusciva a costruire
molti oggetti in miniatura, proprio come si fa oggi col
“lego”. Più o meno simile nel sistema di riproduzione é la
“BIDENS TRIPARTITA” o “FORBICINA”, così chiamata perché il suo
frutto ha due lunghe reste dentate alla sommità (bidens, in
latino significa “a due denti”) che si attaccano al pelo degli
animali di passaggio o agli abiti delle persone, garantendo
così la riproduzione. La bidens tripartita é presente in gran
numero nel tratto in questione, molto più della “BIDENS CERNUA”,
le cui “gëtte” si differenziano da quelle della tripartita
perché presentano quattro reste dentate alla sommità invece di
due.
L’EQUISETO (EQUISETUM ARVENSE),
più noto come “CODA CAVALLINA”, é anch’esso presente in buon
numero. Come l’ortica viene usato come antiparassitario
biologico, sempre contro i pidocchi dei fagiolini e con lo
stesso sistema di macerazione usato per l’ortica, della quale
é meno efficace se usato da solo ma ha anche meno fetore. Per
ovviare a quest’ultimo inconveniente e perdere poco in
efficacia, l’ideale sarebbe una miscela in egual misura.
Molto comune è anche il ROMICE (RUMEX OBTUSIFOLIA), la cui
foglia viene usata per curare l’irritazione provocata dalle
ortiche, sfregandola sulla pelle dopo averla stropicciata.
Sempre della stessa famiglia, le Poligonacee, é il ROMICE (RUMEX)
ACETOSELLA, le cui foglie contengono ossalato di calcio, un
sale dell’acido ossalico che ha sapore acidulo. Il succo delle
foglie é tossico se preso in forti quantitativi, e nelle
vacche può causare alterazioni febbrili. In passato la
medicina popolare considerava questa pianta utile per curare
le infermità dei reni e della vescica, mentre le foglie
venivano usate come dissetante. Facilmente rintracciabile è
poi la PIANTAGGINE, presente in tre specie: PIANTAGGINE
MAGGIORE (PLANTAGO MAIOR), PIANTAGGINE LANCIOLA (PLANTAGO
LANCEOLATA) e PIANTAGGINE PELOSA (PLANTAGO MEDIA). La più
comune è la PLANTAGO MAIOR, frequentissima lungo i sentieri
calpestati tant’è vero che i PELLEROSSA la individuavano come
“ORMA DELL’UOMO BIANCO”, perché accompagnava l’avanzata
dell’uomo bianco ai tempi del pionierismo nel West americano.
I semi dell’infiorescenza della plantago maior sono l’ideale
nutrimento degli uccelli da gabbia.
Comunissima é anche la VERONICA
MAGGIORE (VERONICA CHAMAEDRYS), meglio conosciuta come “OCCHI
della MADONNA” o “OCCHI di MARIA”, una piccola pianta
strisciante radica con minuscoli fiori azzurro cupo che cadono
al minimo contatto e che durante la fioritura, da marzo a
luglio, contribuiscono a rendere ancora più spettacolare il
contrasto di colori della sponda del fiume e del suo immediato
entroterra.
Sulle sponde del fiume e nell’immediato entroterra possiamo
trovare in gran numero il GALIUM APARINE, altrimenti detto
“ATTACCAMANI” o “ATTACCAVESTE” per via delle piccole setole
uncinate, presenti sia nel fusto che nelle foglie e nei fiori,
che si attaccano alle mani al tatto oppure agli indumenti dei
passanti. In passato questa pianta erbacea era usata nelle
cure dimagranti o come
cura dello scorbuto e di altre malattie della pelle.
Inconfondibile per il colore del suo fiore che, da marzo a
novembre, pennella di rosso violaceo la tavolozza di questo
angolo di mondo, é il LAMIUM PURPUREUM, detto anche LAMIO
ROSSO o “ORECCHIO di TOPO”, come inconfondibile per il profumo
che emana, se calpestata o strappata, é l’ARTEMISIA VULGARIS o
ARTEMISIA COMUNE, detta anche “AMARELLA”. Infine, un’altra
pianta erbacea molto comune é la MALVA (MALVA SYLVESTRIS), dal
fiore rosa porporino con venature violette, che viene usata in
tisana come antinfiammatorio dell’apparato digerente e
intestinale.
Una varietà infinita di
graminacee e di fiori selvatici come la MARGHERITA (LEUCANTHEMUM
VULGARE) e la VIOLA (VIOLA ODORATA e VIOLA RIVINIANA ), nonché
qualche SAPONARIA, completano la variegata popolazione erbacea
del tratto in oggetto, perlomeno quella di mia conoscenza.
Quando intercorre molto tempo
fra una piena e l’altra, cresce e si propaga a vista d’occhio
la vegetazione acquatica, formidabile nascondiglio naturale
per gli abitanti del fiume. La pianta erbacea acquatica più
comune é il RANUNCOLO d’ACQUA DOLCE (RANUNCULUS AQUATILIS o
RANUNCULUS TRICHOPHILLUS), che presenta una miriade di
piccolissimi steli, con tante foglioline e totalmente immersi
nell’acqua, che si propagano velocemente formando un immenso
materasso verde. In estate fiorisce producendo un minuscolo
fiore bianco, simile al fiore della camomilla, offrendo uno
spettacolare e suggestivo colpo d’occhio appena sopra il pelo
dell’acqua.
Altra pianta erbacea di grande
interesse é il CRESCIONE (NASTURTIUM OFFICINALE), la “FAVÁ”
nel dialetto locale, purtroppo sempre più raro per via
dell’inquinamento. I giovani germogli, ricchi di vitamine C e
E, un tempo erano utilizzati nella cura dello scorbuto e tutt’oggi
vengono consumati in insalata o cotti e celebrati per il loro
sapore. Purtroppo oggi lo si può trovare solo nei punti dove
il fiume é meno inquinato, oppure nei fontanili e nelle
risorgive ancora intonse da fenomeni inquinanti. Comunque lo
sviluppo della flora acquatica é molto ridotto in quanto,
quasi tutti gli anni, le piene provvedono a stroncarlo sul
nascere ed a ripulire il tutto.
Per quanto riguarda invece le
colture a ridosso della sponda del fiume, é quella del PIOPPO
(“ARBRA” nel dialetto locale) a farla da padrone. In origine
era il PIOPPO NERO nostrano (POPULUS NIGRA) quello più usato
in coltura, poi, per ragioni di mercato, cominciarono gli
esperimenti di ibridazione con cloni alloctoni che hanno
portato all’utilizzo di individui detti “EUROAMERICANI” (POPULUS
EUROAMERICANA), perché frutto di incroci tra il pioppo nero e
pioppi provenienti dagli Stati Uniti. Di pioppeti ne esistono
a migliaia, praticamente senza soluzione di continuità. Questo
monotono paesaggio é durevole nel tempo perché devono passare
almeno 10-12 anni prima che il pioppo venga abbattuto, per poi
essere subito sostituito con piantine giovani. Nei primi 2-3
anni di vita, tra i filari di pioppo viene seminato il MAIS.
Purtroppo l’egoismo dell’uomo, misto a tanta ignoranza, ha
fatto sì che i pioppeti andassero ad invadere aree dove la sua
presenza é diventata fonte di dissesto idrogeologico; infatti
molte volte lo troviamo non solo troppo vicino alla sponda del
fiume, ma addirittura in sponda, in totale dispregio delle
normative vigenti come vedremo più avanti nel cap.3, creando
gravi problemi alla compattezza delle sponde stesse. Lasciando
le sponde ed addentrandoci verso l’interno, troviamo campi
seminati a MAIS (ZEA MAIS) o a GRANO (TRITICUM SATIVUM,
TRITICUM DURUM, TRITICUM AESTIVUM), mentre sempre meno sono i
prati a pascolo. Questo paesaggio in passato variava di anno
in anno in quanto era praticata la rotazione agraria, con
l’alternanza delle semine.
Tra queste un suo piccolo
spazio lo trovava anche la MENTA (MENTHA PIPERITA). Questo
tipo di coltura è ora quella predominante tra le ERBE
OFFICINALI che vengono coltivate nella zona di Pancalieri;
oltre alla MENTA PIPERITA ricordiamo: l'ASSENZIO GENTILE
(ARTEMISIA PONTICA L.), l'IPERICO (HYPERICUM PERFORATUM L.),
SANTOREGGIA o CEREA (SATUREIA HORTENSIS), l'ISSOPO (HYSSOPUS
OFFICINALIS L.), l'ASSENZIO ROMANO (ARTEMISIA ABSINTIUM L.),
la CAMOMILLA (MATRICARIA CHAMOMILLA L.) e altre.
In seguito, l’avvento della
monocoltura, tra cui ha preso consistenza quella della Soia (GLYCINE
SOIA) ) e della coltura intensiva, ha sconvolto il prezioso
equilibrio che durava praticamente da sempre, producendo
gravissimi problemi all’ecosistema del tratto in oggetto sia
dal punto di vista faunistico che dell’inquinamento; infatti
questo tipo di agricoltura ha richiesto un massiccio ricorso a
fertilizzanti chimici, diserbanti, pesticidi, ecc, il cui
impatto ambientale é stato estremamente negativo per molte
specie animali e vegetali e per la purezza delle acque in
superficie e di falda. Ora pare, ma il condizionale è
d’obbligo, che ci si stia accorgendo che i danni provocati
sono superiori ai vantaggi e quindi c’é da sperare, per il
bene dell’ambiente e di conseguenza dell’uomo, che si ritorni
ad intraprendere una forma di agricoltura più compatibile, a
vantaggio degli stessi agricoltori, la cui salute é la prima a
risentire negativamente dell’uso sproporzionato, talora
addirittura inutile, dei prodotti chimici.
|