E' un dramma pastorale diviso in
cinque atti, con un prologo, alcuni cori e intermezzi, ed un epilogo. Fu
composto nel 1573 e rappresentato quello stesso anno nell'isoletta di
Belvedere sul Po, durante una festa di corte.
Il pastore Aminta ama, non
corrisposto, Silvia. La fanciulla, catturata da un satiro e legata nuda ad
un albero, è liberata da Aminta, ma fugge via, per la vergogna, senza
degnare neppure di uno sguardo il suo salvatore. Aminta si dispera e
medita il suicidio, che tenta di fatto quando viene a sapere che Silvia,
durante la fuga, è stata assalita e sbranata dai lupi: il suo mantello è
stato, infatti, trovato insanguinato nel bosco. IL dramma è però a lieto
fine, in quanto Silvia è riuscita a salvarsi dai lupi abbandonando il
velo insanguinato e il tentativo di suicidio di Aminta non è riuscito
Perché una siepe ha attutito la caduta di Aminta gettatosi in un
precipizio. Silvia, commossa per il gesto d'amore, si concede ad Aminta.
L'opera ha un tono piuttosto lirico
che drammatico e fa l'elogio dell'età dell'oro, quando l'uomo viveva a
contatto con la natura, libero dagli impacci di una morale convenzionale
creata dalla cosiddetta civiltà, quando era "lecito ciò che
piace" e non c'erano remore all'effusione di ,una sana sensualità.
L' "Aminta" esprime "una fondamentale aspirazione
dell'anima e della poesia tassiana: l'abbandono al piacere, a una voluttà
obliosa, il vagheggiamento di un libero espandersi dell'anima e dei sensi,
o meglio di una sensualità trasfigurata in dolcezza, in pura, immediata
gioia vitale senza più la coscienza del limite e del peccato" (Pazzaglia).
E si inquadra benissimo nel clima della vita vagheggiata alla corte
estense, alcune personalità della quale è forse possibile intravedere
nei personaggi dell'opera.