Il Machiavelli si propose di definire
l'attività politica come categoria dello spirito umano. Egli pertanto è
da considerarsi un filosofo della politica.
Se la politica serve a regolare i
rapporti degli uomini che vivono in una determinata comunità (stato) e
delle varie comunità tra loro, è necessario, per stabilire le
"leggi" dell'attività politica, conoscere prima quelle che
sovrintendono alla natura dell'uomo. Questo studio si può fare
analizzando i fatti storici con l'intento di mettere a nudo la psicologia
dell'uomo e scrutando profondamente nell'animo dei contemporanei con cui
si viene a contatto. Il Machiavelli si fa quindi storico non per vocazione
di storico, ma per dedurre dallo studio del passato le leggi universali
della natura umana. Questo studio lo induce a considerare l'uomo un
"fenomeno" della Natura (concezione naturalistica) soggetto a
leggi fisse ed immutabili: insomma l'uomo, nella sua struttura intima, è
oggi quello che è sempre stato e che sempre sarà: ed è egoista, vile,
fedifrago (concezione pessimistica), più portato a fare il male che il
bene.
Scoperte le leggi universali della
natura umana, è possibile da esse dedurre "leggi" universali
dell'attività politica. La quale, fondandosi anch'essa su leggi fisse ed
immutabili, deve essere considerata una "scienza" (Machiavelli
fu il primo filosofo a considerare la politica un scienza).
Il Machiavelli si sforza quindi di
indicare le "leggi" della politica e, pur essendo
ideologicamente favorevole al governo repubblicano e in qualche modo
democratico, riferisce il suo discorso alla figura del Principe (cioè del
monarca assoluto) in quanto la sua attenzione è rivolta all'Italia del
suo tempo, divisa in tanti piccoli stati, deboli ed in lotta tra di loro,
mentre egli vorrebbe che l'Italia fosse uno stato unitario capace di
competere con le altre potenze europee (Spagna, Francia, ecc. ): egli,
infatti, più volte ribadisce che in ogni sorta di speculazione filosofica
bisogna tenere sempre l'occhio rivolto alla "verità
effettuale", cioè alla realtà, e considerare le cose come
effettivamente sono e non come dovrebbero essere, cioè come noi vorremmo
che fossero.
Quindi, delineando la figura del
Principe, il Machiavelli definisce le "leggi" universali della
politica.
Il Principe deve essere un uomo
superiore, dotato di intuito, intelligenza, sagacia, risolutezza,
coraggio, ma anche spregiudicatezza (tutte queste qualità rientrano
globalmente nel termine machiavelliano di "virtù"); deve avere
l'astuzia della volpe e la forza del leone; deve essere buono ma saper
essere cattivo perché deve badare più ad essere temuto che ad essere
amato; non deve avere scrupoli di natura morale nel senso ordinario della
parola, perché la "morale politica" prescrive un solo
imperativo categorico: l' "utile" dello Stato (mentre la
"morale comune" serve soltanto come metro per giudicare le
azioni umane comuni da un punto di vista astratto e ideale); deve servirsi
della religione come strumento della sua attività politica (il
Machiavelli, ateo, ammetteva l'ineluttabilità delle religioni, dando la
propria preferenza alla religione pagana, che esaltava le virtù pratiche
e mirava al miglioramento della vita terrena, anziché a quella cristiana,
che esaltava le virtù spirituali e mirava al conseguimento di un bene
ultraterreno).
La "virtù" del Principe,
però, per somma che sia, non sempre ottiene successo. Spesso, infatti, la
sua azione è ostacolata dalla "Fortuna", cioè da fatti e
circostanze imponderabili che intervengono nella vicenda, dividendosene il
governo a metà con la volontà e l'iniziativa dell'uomo. In questi casi
il Principe deve cercare di opporsi con tutte le sue forze alla Fortuna e
volgerla a suo favore.