Schema
sulla questione della lingua
Il primo a porsi il problema di dare all'Italia un'unica lingua letteraria era stato Dante Alighieri, che aveva dedicato alla "questione" parte del "Convivio" e l'intero trattato "De vulgari eloquentia" (rimasto però incompiuto).
Egli individua in Italia ben 14 dialetti (7 a destra e 7 a sinistra degli Appennini), nessuno dei quali, a parer suo, poteva considerarsi degno di divenire lingua nazionale. Inoltre lamenta l'assenza di una "corte" unica che potesse raggruppare tutti i letterati d'Italia e consentire loro di elaborare una comune lingua. Di conseguenza suggerisce a tutti gli scrittori italiani di unirsi "idealmente" in una corte "ideale" e di operare insieme per dare all'Italia una lingua "egregia, limpida, compiuta e urbana", proseguendo sulla strada già intrapresa dai poeti della "scuola siciliana" e dagli "stilnovisti".
Nel CINQUECENTO il problema fu ripreso e dibattuto da molti letterati in polemica tra loro. Si delinearono tre tendenze di fondo:
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quella di coloro che sostenevano doversi modellare la lingua italiana sugli esempi dei grandi trecentisti toscani, in particolare del Petrarca e del Boccaccio: il maggiore sostenitore di questa soluzione fu il veneziano PIETRO BEMBO nelle "Prose della volgar lingua";
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quella di chi proponeva di usare una lingua confezionata con l'apporto di tutti i dialetti italiani, riprendendo in parte la teoria dantesca: il maggiore esponente di questa tendenza fu GIANGIORGIO TRISSINO, traduttore del "De vulgari eloquentia" di Dante e autore del dialogo "Il Castellano";
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quella di coloro che sostenevano la supremazia della lingua fiorentina, l'unica degna di diventare lingua letteraria nazionale, a condizione che venisse assunta com'era nell'uso vivo delle persone colte piuttosto che negli esemplari degli scrittori del Trecento: Fu questa la tendenza di NICCOLO' MACHIAVELLI, che scrisse il "Dialogo della lingua" (di scarso interesse scientifico, ma nobile testimonianza di amore per la propria città, considerata faro di civiltà per tutta l'Italia), e la cui tesi fu approfondita da PIERFRANCESCO GIAMBULLARI.
Non mancarono, però, altre proposte di soluzione del problema avanzate al di fuori delle correnti predominanti, come quella di BALDASSARRE
CASTIGLIONE, che nel "CORTEGIANO" sostiene doversi usare la lingua degli ambienti colti e delle corti principesche di tutta Italia, specialmente quella adoperata nelle corti dei Montefeltro di Urbino e dei Gonzaga di Mantova.
La proposta che ebbe maggior successo nella considerazione dei letterati successivi fu quella del Bembo, che venne esasperata dalla ACCADEMIA DELLA CRUSCA, la quale stilò il "Vocabolario della crusca" in cui erano riportati tutti i vocaboli da usare lecitamente (ovviamente attinti alle opere degli scrittori toscani del
Trecento).
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